Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

[a:]
[a:]
[a:]
Ebook379 pages5 hours

[a:]

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Un romanzo da assaporare lentamente che rivela la sua anima pagina dopo pagina. Lorenzo Meacci costruisce una sorta di labirinto narrativo in cui le cui vicende dei due protagonisti principali, apparentemente diversissimi tra loro, si sfiorano senza toccarsi fino all’epilogo. Lei, Flavia, single quarantenne con un figlio autistico e un compagno inaffidabile che entra ed esce dalla sua vita. Lui, il Maestro, appellativo con cui viene indicato per la quasi interezza del romanzo, regista teatrale di fama internazionale caduto in disgrazia e richiamato nel paese di origine per mettere in scena uno spettacolo bizzarro.

Entrambi costretti, ognuno a modo proprio, a fare i conti con i fantasmi del passato e soprattutto con se stessi. Intorno a loro un caleidoscopico universo umano: una ex compagna con cui il Maestro ha avuto una figlia perduta troppo presto, un’amica dalle relazioni complicate, un artista inglese che somiglia in modo inverosimile a Paul McCartney, una improbabile compagnia di attori dilettanti.

Flavia e il Maestro toccheranno il fondo della disperazione per risalire, inconsapevolmente l’uno grazie all’altro, la china e tornare ad amare la vita.

Lorenzo Meacci, docente laureato di lingua e letteratura inglese, vive a Chianciano Terme (Si), dove svolge altresì attività di docente di improvvisazione teatrale per conto dell’associazione Voci e Progetti affiliata Improteatro. È anche autore teatrale specializzato in progetti di edutainment. Fra i testi rappresentati: La Seconda Volta, La Vera Storia di Macbeth, Deh! Non è Tutto il Mondo Toscana, Swing the Moon, La Storia dell’Italia Unita in 90 Minuti. Fra le storie specificatamente realizzate per progetti di edutainment si ricordano L’Ultima Cena di Trimalcione (per il Museo Etrusco di Chianciano), Giallo al Museo (Museo Etrusco di Chianciano e Museo Civico di Chiusi), Storie dal Cassero (per il Museo del Cassero di Perugia), Viaggio nel Tempo (per il Pozzo di San Patrizio di Orvieto), Dal Profondo (per il Parco Minerario del Siele del Monte Amiata). Ha pubblicato anche un romanzo dal titolo I Cavalieri dell’Aleph (Firenze Libri, 1999).
LanguageItaliano
Release dateOct 1, 2014
ISBN9788863965803
[a:]

Related to [a:]

Related ebooks

General Fiction For You

View More

Related articles

Reviews for [a:]

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    [a:] - Lorenzo Meacci

    poeti. 

    I

    Dalle pentole sporche del giorno prima emana un cattivo odore. I sughi incrostati non si sono sciolti nell’acqua color del fango e untuosa, sulla quale galleggiano pignatte vuote e si innalzano manici di plastica nera. Padelle adagiate a testa in giù sul fondo limaccioso del lavello, come pescecani addormentati in un sonno profondo, con la sola pinna che si vede sul pelo spiraliforme del piccolo specchio d’acqua grassa; fra bicchieri che vanno e vengono, come infinitesimi iceberg innocui e scivolosi in uno spazio angusto e freddo. Gocce di condensa rigano le pareti smaltate e trovano la strada verso il pavimento sporco della cucina - fra vie segnate dalle crepe e dagli spazi neri fra una mattonella e l’altra -; piccole, lunghe e sinuose lacrime di una notte umida in un ambiente riscaldato fino a tardi con la stufa a legna, ora carico dell’aroma di caffè che si spande dalla cuccuma, traboccante accanto a una padella profonda e nera che sfrigola ancora di grassi di pancetta e uova. L’odore lento e greve sale - spinto da una corrente marina che lascia alle spalle il lutulento andirivieni di minuscoli iceberg cavi e di pescecani intirizziti circondati dall’arido pianto di ascose pareti - mentre il drip drip drip di gocce di caffè fumiga sulla superficie calda della stufa. Aromi che non si conoscono gli uni con gli altri si incrociano indifferenti lungo la spirale dell’ambage che sale fino alla luce di un mattino già carico di ore e gloria, chiuso in una teca di vetro spesso e circolare, a picco su un mare procelloso… Viaggi senza meta senza sosta e senza fine, come il movimento bianco circolare del pennello nella vaschetta del sapone; o quello a spirale della mano sullo specchio polveroso, nel quale il viso conosciuto parla la lingua del rasoio sulla pelle ispida e il flap flap flap del pennello. Ora è solo un ricordo, come il movimento orario o antiorario della mano sulla vaschetta, confuso dall’odore della colazione - che tra poco sarà bruciata se le strade strette e lisce sul viso che parla la lingua del pennello non si incroceranno più in fretta… ancora il ricordo acerbo di una notte fra vetri rotti e schianti di vetri che vanno in frantumi.

    Socchiudo gli occhi su un mare basso, sull’alto castello, sull’alta vetrata dell’alta torre con un sol occhio - e anche cieco - che non solleva massi che non alleva capre che non mangia formaggio ma guarda lontano e aspetta vele spiegate o pennacchi di fumo sulla linea curva dell’orizzonte che scompare là sulle colonne d’Ercole.

    Perché Faro è un’isola, Itaca è un’isola, Ogigia è un’isola, ma nessun uomo lo è e il ritorno a casa non è altro che un nuovo partire o un nuovo morire. E io sono morto quando sono partito e sono rinato al mio ritorno ma ogni minuto che passa mi sento morire di nuovo. Perché non riconosco niente di quello che c’è: le strade mi sembrano diverse. Non riconosco più le persone: non ci sono più voci, cose, paesaggi che mi sembrino lontanamente familiari. Ieri notte, quando sono andato a dormire, sentivo il mare sotto di me, sentivo l’odore della salsedine sopra di me, sentivo il vento che fischiava attraverso le crepe sottili e le finestre rotte della casa del guardiano del vecchio faro. Se solo riuscivo a concentrarmi un po’ di più, se solo riuscivo a insinuarmi nella pausa giusta fra un’onda e l’altra, fra un soffio di vento e l’altro, fra uno stormire di foglie e l’altro, fra uno schianto di rami e l’altro, potevo sentire lo sferragliare della catena del pendolo governante la rotazione del faro che era fuori dalla porta, dopo venti metri di scale. Potevo sentire il rumore di vetri infranti, di case lontane, di gente che aveva dimenticato di chiudere le finestre, le porte. Potevo sentire il russare di mariti sovrappeso, di neonati che reclamano il seno, di mogli attardate davanti alla televisione; il rumore del rovello di studenti, di cigolii sospetti, di sirene che il doppler allungava fino a rompere come elastici troppo tesi, del ghiaccio che si scioglieva nelle vaschette dei frigoriferi staccati, del vapore che saliva dalle bocche delle pattuglie della stradale, ferme sulle provinciali, comunali, statali; il sospirare delle infermiere al triage, sospese sotto le luci tremolanti dei neon delle corsie, in attesa dei preludi alla morte ai quali applicare l’inutile triaca. Il rumore è l’effetto di una causa. Così, il discreto soprano con ancora diversi anni di carriera davanti la settimana scorsa era andata dal suo medico, che le aveva detto: Ho qui i risultati delle analisi, se mi volesse fare la cortesia…

    Sarà per me un piacere.

    Allora ci vediamo alle tre nel mio studio.

    E alle tre, nello studio del dottore, il soprano scopre di avere dei noduli alla gola che improvvisamente le spiegano i malesseri degli ultimi tempi e certe incertezze nella voce che non aveva mai riscontrato prima. Era come se qualcosa dentro mi dicesse di non sforzare troppo, di non arrivare dove di solito arrivavo con grande facilità. Non che sentissi dolore, no. Era come se qualcuno mi ricacciasse indietro la voce, mi tagliasse il fiato.

    Tenga, si asciughi le lacrime e non disperi. Il mio consiglio è quello di operare. Urgentemente. Non possiamo aspettare oltre: già dobbiamo scontare il ritardo con il quale lei è venuta…

    Il resto della conversazione non è importante per il soprano; non ascolta più il dottore perché con la mente è già arrivata all’ovvia conclusione che di cantare, dopo l’operazione, non se ne parla.

    Va a casa del suo agente.

    Come!

    Sì, mi dovrò operare il prima possibile, ho bisogno che tu mi dia una mano e un po’ di soldi.

    Quali soldi, scusa?

    Come quali soldi! Non mi far urlare altrimenti svengo. I soldi dell’ultima stagione. Mi avevi detto che me li avresti anticipati nel caso ne avessi avuto bisogno: beh, ora ne ho bisogno.

    I soldi non sono ancora arrivati, questo è quello che ti posso liquidare

    "Come, tutto qui? Ho fatto quattordici repliche solo della Lucia di Lammermoor e questo è quanto?"

    Ho detratto quanto mi spetta: la mia liquidazione.

    La tua liquidazione?

    Gli accordi erano questi: non appena tu avessi deciso di cambiare agente o io di rescindere il contratto a me sarebbe spettata una cospicua liquidazione.

    Ma io non voglio cambiare agente, io…

    Matilde, guardami: cosa te ne fai di un agente, ora.

    La storia del soprano precipita. Prende la macchina e guida fuori città per centinaia di chilometri, fino ad arrivare, a tarda notte, alla sua villa in campagna. È la villa della famiglia paterna, dove da piccola andava a passare le estati in compagnia dei cugini e dove aveva mosso i primi passi nel bel canto, accompagnata dalla zia al pianoforte. Il salone è freddo, vuoto e sporco: erano anni che nessuno metteva più piede lì dentro. Si sente sola come non mai. Non ha neppure il conforto della sua voce, sulla quale una malattia ha posto la data di scadenza. Il soprano sente il mondo che le crolla addosso e, come a voler esorcizzare il maelstrom nel quale si sente intrappolata, come a voler chiamare aiuto durante il naufragio, prende un respiro profondissimo e con tutto il fiato che ha in corpo si lancia in un acuto senza freni. Nessuno la può sentire, è vero, ma per un motivo che lei non comprende non sente neanche quella sensazione che da tempo le impediva di cantare come sapeva: la sua voce è libera, limpida, cristallina, anche se più forte del cristallo stesso, tant’è che all’apice dell’acuto, come a voler rispettare l’invariabilità dei luoghi comuni, tutti i vetri del salone cedono di schianto, in un rumore assordante che quasi copre il suo grido liberatorio. E il rumore dei vetri valica i confini del parco della villa: sale in alto, accompagnato dal silenzio discreto e invisibile della notte; sale fino ad arrivare al vecchio faro, dove il Maestro dorme e sogna del soprano, dell’agente avido, del dottore e del rumore di vetri infranti che è solo effetto di una causa la cui storia si perde nella notte, nei rivoli dei ricordi, nell’affannoso rincorrersi di speranze.

    "Io corredo sempre i sogni, come i pensieri, di aggettivi che sembrano note a margine, stage directions, piccole minute su quaderni ingialliti, e corredo anche i ragionamenti sui sogni e sui pensieri, come se avessi paura di rimanere senza parole e quindi senza pensieri; e quindi senza pensieri e quindi senza parole. A volte non so se ho più pensieri che parole o viceversa, ma poi mi rendo conto che l’argomento è ozioso, al limite della pura speculazione. È un po’ come chiedersi se nel mondo ci siano più salite o discese, anche se in quel caso si possono tirare in ballo i sensi unici come discriminante. E allora cosa potrebbe succedere a uno che imbocca contromano: si renderà conto di intervenire prepotentemente nel fragile equilibrio di una disputa ai limiti della metafisica? E l’agente che eventualmente lo multerà, si renderà conto che oltre che far rispettare il codice della strada sta anche ratificando un punto di vista iperrazionale che annulla un equilibrio stabilito da semplici leggi fisiche di comune accordo con l’orografia? Se a ogni parola appiccico un pensiero forse la rendo troppo esclusiva, anzi, esclusiva proprio. E se è esclusiva esclude ogni possibilità di comproprietà, di mutuo prestito e mutua assistenza; e il rischio di esaurire una lingua con i pensieri di un giorno - ma che dico, di un mattino - come questo è molto alto. Ma pur di non rimanere muti abbiamo inventato la menzogna, che dà incertezza al pensiero e alle parole. La menzogna è stata inventata come puro espediente per sopravvivere al silenzio. Poi però qualcuno ci ha preso la mano, e abbellendo e abbellendo la menzogna è diventata metafora, metonimia, prosopopea, parallelismo, ipallage, chiasmo, ellissi, iperbole, retorica… in una parola: letteratura. La letteratura è il paradosso che ha reso la poesia quanto di più simile ci potesse essere all’algebra; è servita a rendere le parole delle variabili indipendenti, a immaginarne di nuove, a rendere la guerra jolie avec ses chants ses long loisirs, la morte la fine di una nascita, la povertà un modo economico di essere felici, la malattia l’unico modo per sentirsi in vita, la vita l’ora di svago dai nostri sentimenti e l’amore. Ecco. Mi sono tagliato."

    L’assessore arrivò puntuale sotto la porta della casa del guardiano del vecchio faro. La puntualità era per lei un valore importante, visto che la perfezione, in qualsiasi campo la si volesse ottenere, aveva iniziato a considerarla un semplice antefatto alla rassegnazione.

    Erano quasi le dieci. Aveva dormito poco per colpa del gran vento; si era alzata alle sette, giusto in tempo per mandare Giada a scuola, fare una frugale colazione con quel che restava di una confezione tre per due di muesli - con del latte che sospettava avesse iniziato ad inacidirsi -, per poi uscire per andare in comune a prendere le chiavi del teatro e arrivare, puntuale, davanti alla porta della casa del guardiano del vecchio faro, ad aspettare il Maestro.

    Per arrivarvi aveva seguito una mulattiera, all’inizio della quale l’amministrazione aveva pensato di mettere un cartello che indicasse al turista disperso quel retaggio del passato marinaresco del paese. Così il turista disperso che si fosse sobbarcato i tre chilometri di strada impervia per arrivare al vecchio faro e ammirare il panorama di un mare, magari tempestoso, avrebbe scoperto che neanche a duecento metri dall’arrivo la strada era interrotta e sbarrata, perché un cartello messo dall’amministrazione comunale avvertiva il sempre più disperso turista che l’accesso al vecchio faro era interdetto perché lo stesso era pericolante e rischiava di crollare da un momento all’altro. Se si era meritata la definizione di vecchio un motivo ci sarà pur stato.

    Il problema è che per l’ufficio cultura e promozione turistica l’aggettivo vecchio - specie se messo davanti a parole evocatrici di mesti tramonti e mari in tempesta come faro - esercita un fascino tutto particolare che i responsabili dell’ufficio tecnico proprio non riescono ad afferrare. Magari i geometri hanno un’idea del fascino - del romanticismo propriamente detto - che non differisce molto da quella dei loro colleghi del turismo. Magari anche per loro la parola vecchio messa davanti a faro fa venire in mente sciabiche in lotta con gli elementi, pescatori bruciati dal sole stringere gomene annusando l’aria del ritorno. È solo che il geometra, se si tratta di un faro in disuso posto sotto la sua tutela e responsabilità, l’aggettivo vecchio preferisce metterlo dopo il sostantivo, trasformando il richiamo per turisti in un immobile pericolante di proprietà dell’amministrazione comunale. Pericolante meglio metterlo subito dopo immobile. Per evitare confusione.

    Tutta qui la breve storia dei due cartelli messi l’uno a poca distanza dall’altro e l’un contro l’altro armati. Il tutto per una banale discordanza della sintassi burocratica. L’accesso al faro era stato riaperto, senza troppa pubblicità, solo per consentire il passaggio del Maestro e sarebbe stato richiuso non appena se ne fosse andato.

    Chi la sintassi riusciva a metterla d’accordo era il Maestro che, alle dieci e cinque minuti, si chiuse alle spalle, con molta delicatezza, la porta della casa del guardiano del vecchio faro (vecchio). Il Maestro scese lo stretto viottolo che arrivava alla mulattiera, mentre l’assessore lo guardava con l’indulgenza di una madre che osserva il figlio muovere i primi passi.

    Scendeva il viottolo con la sua camminata incerta accompagnata da movimenti, impercettibili ma consapevoli e controllati, del tronco e da un gioco circospetto di sguardi. Di tanto in tanto si fermava per controllare dove si trovasse, con il fare di chi fosse capitato in un luogo a lui vagamente familiare ma che non riuscisse a riconoscere. E questa era senz’altro la sensazione che più di ogni altra si sentiva di comunicare: il disagio di uno straniero in patria, di qualcuno che prima di essere rifiutato dai suoi stessi concittadini, che ancora non aveva neppure incontrato, lo è dall’ambiente, dagli alberi, dai fiori, dalle pietre, dai mattoni, dalle radici che si insinuano subdole sul suo cammino, come a volerlo far inciampare per un proposito imperscrutabile. Tornare in quei luoghi dove da piccolo andava a giocare era stato come tornare a casa dopo una lunga vacanza e accorgersi che qualcuno, nel frattempo, aveva spostato tutti i mobili, cambiato la tappezzeria, forse addirittura la serratura della porta d’ingresso.

    L’assessore lo guardava, bonariamente rassegnata e forse consapevole del senso di sperduto straniamento di cui era preda.

    Dai, sbrigati. Siamo in ritardo.

    Il Maestro girò di scatto la testa. Era entrato in scena un nuovo personaggio. La rappresentazione del nuovo giorno poteva iniziare. Il suo sguardo accolse con piacere l’irrompere della voce della donna. Era una voce conosciuta e spazientita, proprio quello che si aspettava a quell’ora e in quel luogo che ancora non riconosceva. Si diresse deciso verso la macchina. L’assessore gli aprì lo sportello, solo per farsi vedere meglio e meglio rimproverarlo con gli occhi. A quello sguardo accelerò il passo. Si chinò per quanto poteva, in modo da riuscire a far entrare dentro l’abitacolo tutta la sua altezza, sormontata dai sempre più radi capelli bianchi. Chiuse la portiera con forza, facendo sobbalzare l’assessore. La sua entrata - quanto di più teatralmente studiato si potesse immaginare a quell’ora del mattino e in quel luogo - fu accompagnata dall’ingresso del cattivo odore del suo dopobarba.

    Buongiorno Maestro, disse la donna, declinando il saluto con quel tanto di sarcasmo che, pensava, avrebbe fatto rizzare le antenne dell’autocritica a qualsiasi persona ma che, sapeva, non avrebbe scalfito la corazza dell’autostima del Maestro.

    Buongiorno a te, Michela. Lo sai che quasi non ti riconoscevo, smarrita com’eri in mezzo a questo luogo amenamente sperduto che stento a ricordare?

    Michela sorrise. Non poteva far altro nel rivedere il viso beato, rilassato e indolente del Maestro, una delle poche persone che, con il passare degli anni, era stato capace di mettere d’accordo sintassi e realtà. Con lui poco importava la posizione degli aggettivi, perché il suo lavoro consisteva proprio nel sintonizzare le parole degli autori con i movimenti degli attori, e in questo era stato capace di ritagliarsi la sua nicchia di notorietà artistica, tanto che nell’ambiente era anche, e a ragione, considerato un grande regista, oltre che un regista grande del suo metro e novantacinque.

    Per Michela, comunque la si volesse mettere, il Maestro era il vecchio amico per antonomasia. Ma siccome anche le antonomasie invecchiano - come ti invecchiano i radi e bianchi capelli o la vista che ti fa allungare le braccia - anche per lui l’aggettivo vecchio era diventato intercambiabile e, a seconda dei casi, poteva essere messo anche dopo amico, senza offendere l’ego sensibile dell’artista.

    Michela aveva una decina di anni meno del Maestro, anche se il suo abbigliamento trasandato, il volto volutamente senza trucco e i capelli in disordine avrebbero potuto trarre in inganno. Bastava però avvicinarsi e osservare meglio per ritoccare subito al ribasso la sua età. La pelle era sì un po’ sfiorita, ma le piccole rughe intorno agli occhi avevano l’aria di sentirsi giovani e sole. I pochi capelli grigi, mischiati alla folta e crespa chioma corvina, sembravano più segnali di un non tanto prossimo futuro, piuttosto che veterani di un lontano passato. Anche il suo abbigliamento, coscientemente sciatto e un po’ antiquato, non era il sintomo di un presente rassegnato, ma di un presente che sarebbe forse giusto definire affettuoso. Sì, perché Michela non sopportava l’idea che il Maestro, il suo vecchio amico, sentisse accanto a lei tutto il peso degli anni. Era una questione di sensibilità: meglio sembrare più vecchie di quel che si è in realtà per una mattina, piuttosto che ferire un uomo con il quale si è condiviso tanto e che non è mai riuscito a scendere a patti con la propria vanità.

    Dormito bene?

    Benissimo. È un posto meraviglioso questo. Pace, tranquillità. Proprio quello che mi ci voleva.

    Michela passò al Maestro una sigaretta, che lui osservò a lungo prima di mettere in bocca e aspirarla, spenta, a pieni polmoni.

    Ti ricordi quante storie feci quando mi dicesti che sarebbe stato meglio se avessi smesso di fumare? chiese il Maestro con aria vagamente malinconica.

    La malinconia era una costante del suo rapporto - con gli anni diventato estremamente saltuario - con Michela. Lo assaliva quando lei gli porgeva sigarette che non avrebbe mai acceso; quando lo guardava inclinando la testa su un lato, gesto che una volta, quando il loro rapporto era più intenso e - spesso - senza convenevoli, era preludio a solenni incazzature; quando lei gli parlava delle cose che avrebbero dovuto fare durante la giornata. Lo faceva allora come adesso, dopo tanti anni.

    A Michela era sempre piaciuto pianificare ogni piccola azione; era una pianificatrice a breve termine ma di una precisione maniacale. Chiederle che cosa avesse fatto significava sentirla raccontare in ogni più piccolo dettaglio ogni sua azione della giornata, con divagazioni su particolari irrisori - un nuovo dentifricio, un ritardo di due minuti per l’impossibilità di superare una macchina che procedeva a passo d’uomo, un capriccio di Giada. Il Maestro ricordava benissimo come questa particolarità lo facesse spazientire; ora lo immalinconiva.

    Michela non rispose alla sua domanda, peraltro retorica. Teneva lo sguardo incollato sulla strada e il piede sul pedale del freno. Meglio non parlarle quando era alla guida: non perché fosse facilmente distraibile, ma piuttosto perché se c’era una cosa che non sapeva fare era guidare. Una volta arrivati sulla statale, Michela ricominciò a respirare e a parlare.

    "Inutile che ti dica che le audizioni di oggi sono veramente pro forma."

    Il Maestro annuì distrattamente, mentre con gli occhi scorreva velocemente le righe del testo teatrale che avrebbe dovuto mettere in scena.

    La tua presenza sicuramente li condizionerà. Quando ho detto loro che saresti stato tu a dirigerli non sapevano se urlare di gioia o di paura.

    Paura? ripeté un po’ stupito il Maestro, Perché mai dovrebbero aver paura. Molti di loro li conosco, ci sono andato a scuola insieme. Sicuramente troverò qualcuno che mi picchiava quand’ero piccolo.

    Appunto per questo hanno paura.

    Temono la mia vendetta, per caso? disse, divertito più dall’idea che qualcuno potesse aver più paura di un così remoto pericolo che della parte del testo che stava esaminando. Una parte che, almeno nelle intenzioni dell’autore, doveva essere divertente e concitata, visto l’enorme numero di punti esclamativi che si era curato di mettere alla fine di ogni battuta.

    Non sottovaluterei troppo la sensibilità dei tuoi concittadini. Molti di loro ti conoscono di persona, è vero. Ma è anche vero che gli anni passati sono tanti.

    L’ultima considerazione sul tempo passato gli fece sollevare lo sguardo dalle pagine dattiloscritte. Gli era parso di notare un accento polemico in quella parte della frase. Conosceva troppo bene Michela per poter solo sospettare che quel tono di voce potesse essere stato casuale. Si voltò verso di lei con la solennità compostamente teatrale delle scene madri e disse con malcelata artificiosità: Allora, tu credi che la loro paura dipenda esclusivamente dal tempo.

    Dal tempo e da tutto quello che c’è stato nel mezzo, tagliò corto Michela, senza troppi convenevoli.

    Quando il Maestro si prendeva un minuto intero per dire certe frasi con tanta impostazione non era perché voleva prima pensare a cosa dire; piuttosto rifletteva su come dire ciò che voleva dire. Era fatto così: a lui le parole non erano mai mancate e, di solito, riusciva anche ad accompagnarle con una buona dose di significato. Alla lucidità di un filosofo univa la velocità di pensiero di un rapper; quel che gli mancava era un’uguale rapidità nello scegliere il come esporle, le proprie idee. Michela aveva imparato a riconoscere queste sue idiosincrasie. E a interpretarle come un chiaro segnale: la volontà da parte del Maestro di portare il discorso verso terreni minati e, nel caso specifico, comuni.

    Il tempo da solo non è un valore assoluto. Almeno per gli uomini, disse sospirando il Maestro, quasi a voler chiosare con un aforisma a effetto il cortese ma deciso rifiuto di Michela.

    Il tempo è un valore assoluto se viene usato bene. Tu, senza dubbio, lo hai fatto, almeno agli occhi di una filodrammatica di provincia. Da quando sei andato in televisione non si è fatto altro che parlare di te, di come e quanto sei bravo. Il comune aveva anche organizzato un pullman per andare a vedere il tuo spettacolo a Roma lo scorso inverno, solo che poi gli iscritti erano troppi e abbiamo preferito organizzarci con le macchine.

    Me lo ricordo. Eccome se me lo ricordo. Siete rimasti incastrati in un ingorgo a largo Argentina e siete arrivati in ritardo.

    Beh, per una prova d’amore così grande potresti anche cercare di rimuovere i ricordi spiacevoli e tenerti quelli piacevoli.

    Il Maestro sorrise e tornò a leggere il copione, Michela continuò a guidare e a stare in un silenzio rilassato ma dalle venature ostili.

    Arrivarono in paese proprio mentre cominciava a scendere una pioggia leggera ma fastidiosa. Il teatro si trovava all’interno delle mura del centro storico, luogo irraggiungibile per Michela con l’auto.

    Parcheggiarono subito fuori le mura e si avviarono con passo svelto per la via che conduceva alla porta principale. Il Maestro si era adattato a stare con almeno parte della sua altezza sotto l’ombrello offertogli da Michela. Camminarono in quella scomoda posizione fino all’ingresso del piccolo teatro.

    Una volta varcata la soglia della porta, il Maestro cominciò a sentirsi meno sperduto.

    Era una sensazione che lo aveva preso fin dal giorno prima quando aveva fatto solenne ritorno nel paese natio, accolto in pompa magna nelle stanze del palazzo del comune dall’intera giunta, qualche consigliere d’opposizione e tutta l’intellighenzia locale al gran completo. Unica assenza di rilievo, il parroco, don Serafino, al quale il Maestro non andava a genio per alcune sue supposte blasfemie, e anche perché era stato scelto per la rappresentazione di quell’anno un testo a lui non gradito, soprattutto perché aveva il grande torto di essere un testo non suo.

    Don Serafino, infatti, oltre a curare tutte le anime del paese, curava anche le battute delle povere anime della Filodrammatica con i suoi testi, in genere commediole edificanti, alla fine delle quali si celebrava sempre un casto matrimonio o il ritorno a casa di un contrito figliol prodigo.

    Quell’anno il testo scelto era quello del vecchio Farmacista, morto alcuni mesi addietro di vecchiaia e, secondo don Serafino, di ateismo, malattia pressoché incurabile. Era stato uno dei fondatori della Filodrammatica e della locale banda musicale; era stato consigliere comunale, assessore e sindaco e, raggiunta un’età che lui riteneva veneranda, si era messo a scrivere testi teatrali per i suoi compagni di viaggio, come amava chiamare gli altri membri della Filodrammatica.

    Il suo grande cruccio però era che, nonostante fosse stato fondatore della Filodrammatica e della banda musicale, consigliere comunale, assessore e poi sindaco; nonostante un cursus honorum civico degnissimo e nonostante l’articolo 2 dello statuto della sua associazione asserisse che "l’associazione si prefigge lo scopo precipuo di valorizzare e rappresentare nelle forme e nei modi più consoni i talenti teatrali locali, nello sforzo comune di creare una tradizione teatrale, in vernacolo e non, che possa competere con le emergenti realtà a livello provinciale", nonostante fosse stato lui a pensare e a vergare di suo pugno quell’articolo con la speranza di poter essere lui uno dei talenti teatrali locali; insomma, nonostante la Filodrammatica fosse stata una creazione a suo uso e consumo i suoi testi erano davvero troppo brutti.

    E siccome il luogo non pullulava di talenti teatrali, la scelta cadde giocoforza su don Serafino, i cui testi avevano almeno il pregio di avere una trama intelligibile e un inizio e una fine ben definiti.

    Quell’anno, però, don Serafino si vide scavalcare dall’incalzare degli eventi.

    La morte di un cittadino così importante non poteva lasciare indifferente la comunità tutta.

    È la comunità che ci chiede che sia una delle sue opere a venir rappresentata, per poter ricordare degnamente la memoria di un uomo che tanto ha fatto per il paese.

    Il sindaco - o, come la chiamavano tutti, la Sindachessa - comunicò così alla Filodrammatica la decisione di subordinare la concessione dei fondi ordinari per lo spettacolo annuale alla scelta di un testo concepito e scritto dall’illustre scomparso.

    I soci non opposero molta resistenza. Dalle file di fondo del teatro dove si svolse la piccola assemblea, a dire la verità, si levò un Ma siamo sicuri che sia la comunità a chiedercelo? Fu però un attimo di sbandamento, dettato forse dalla consapevolezza di alcuni dei soci anziani a cosa si andasse incontro.

    Don Serafino si limitò solo a bollare la scelta come blasfema: per lui onorare la memoria di un defunto con quanto di peggio avesse fatto in vita sua era senza dubbio blasfemo, un atto contrario alla carità cristiana. Ma il parroco, in cuor suo, sapeva che al vecchio avrebbe fatto davvero piacere, anche perché era un ateo incallito.

    La scelta del testo fu facilitata dal fatto che il Farmacista, nel suo testamento, aveva indicato il titolo della commedia che avrebbe voluto mettere in scena. Una copia era stata addirittura allegata al testamento, con tanto di indicazioni sulla scelta degli attori cui far impersonare i vari personaggi de L’Itaca Liberata. Quello che l’autore non aveva proprio considerato era il fatto che, per una serie di sfortunate e fortunate coincidenze - la sua morte era fra le coincidenze sfortunate - L’Itaca Liberata sarebbe stata diretta nientemeno che dal Maestro in persona.

    Don Serafino pensò che il Farmacista avrebbe fatto salti di gioia dentro il calderone infernale nel quale stava bruciando, se non altro per allontanarsi dalle fiamme per alcuni secondi (che, paragonati all’eternità, sono ben poca cosa anche per chi vive di attimi come fanno gli atei).

    La platea del piccolo teatro era piena: la Filodrammatica al completo era venuta ad accogliere il Maestro, fino ad allora celebrato dalle sole autorità locali. I soci avevano quasi tutti passato una notte insonne aspettando quel momento. Ci fu un fitto bisbiglio che accompagnò l’incedere del Maestro lungo il corridoio centrale fino al palcoscenico, sul quale era stata preparata una sedia e un piccolo tavolo illuminati da una luce bianca perpendicolare, come da sua richiesta. Il Maestro salì sul palco, posò con gesti studiati gli occhiali, la sigaretta, il copione e un moleskine sul tavolo e si mise seduto. Osservò la platea immersa nel buio, fino a quando il bisbiglio non si spense lentamente, come una candela senza più cera. Si schiarì la voce con un colpo di tosse.

    Non è che non abbia fiducia in voi. Ma se sono stato chiamato qui è per compiere un lavoro. E per compierlo devo iniziare con quelle che noi uomini di teatro chiamiamo audizioni.

    Alla parola audizioni il Maestro poté ancora una volta percepire quel brivido fugace ma palpabile che attraversò le prime due file della platea del piccolo teatro. Era come se la parola in sé esercitasse un fascino misterioso e sconosciuto.

    Audizioni, provò a ripetere, tanto per vedere se era quella e solo quella la parola di cui tutti avevano paura. Una verifica superflua, come anche gli confermò lo sguardo per metà rassegnato e per metà divertito di Michela.

    E dire che era iniziato tutto nel migliore dei modi: i saluti, i convenevoli con le facce che

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1