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Una scuola parallela
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Una scuola parallela

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About this ebook

Tra gli anni Sessanta e Settanta un gruppo di liceali vive sulla propria pelle l’improvviso tsunami del Sessantotto, ritrovandosi a fare i conti con la realtà provinciale di un’Italia ancora addormentata, restia alle nuove istanze di rinnovamento sociale e culturale.

Per il narratore e il suo inseparabile amico Did, vero e proprio nomen omen, il cambiamento deve partire da dentro, dalla volontà individuale a cambiare se stessi prima del mondo. Tutti i punti fermi delle loro giovani esistenze - la famiglia, la scuola, la Chiesa, la politica - si rivelano a poco a poco inadeguati, incapaci di leggere a fondo la vita e di proporre un cammino autentico, valido per il futuro. Per chi, come loro, desidera accedere a una conoscenza libera da qualsiasi condizionamento, l’unica via possibile è la creazione di una vera e propria “scuola parallela”, corsara, che ruba il tempo a quella ufficiale. Ed ecco che Did, con la sua straordinaria abilità nell’ipnotizzare le persone, aprirà il varco a una sperimentazione dell’inconscio, delle verità più arcane dell’essere umano: grazie al contributo delle scienze occulte, dell’esoterismo, della filosofia orientale e dello yoga, sarà possibile accedere a un grado di consapevolezza superiore, capace di accogliere al suo interno tutti gli insegnamenti positivi delle varie “scuole” della vita.

Roberto Provana è nato il 28/12/1953 a Izano (Cremona), vive e lavora nella Svizzera Italiana.

Laureato in Psicologia e specializzato in Psicoterapia Clinica, lavora in qualità di formatore del personale e di consulente nell’ambito della comunicazione e della creatività presso importanti imprese e istituzioni. Svolge attività di ricerca indipendente nel campo dell’ipnosi sperimentale. È autore di molti testi e saggi, tra cui: Apprendimento Corsaro, La Vendita Perfetta, La Mente Arcobaleno, Come una Ferrari, pubblicati da Edizioni Anteprima-Lindau, Torino. Ha collaborato attivamente alla stesura del testo pubblicato dall’astronauta italiano Ing. Paolo Nespoli: Dall’alto i problemi sembrano più piccoli (Mondadori 2010).

È Direttore della Divisione Innovation della Biolife SA di Lugano.
LanguageItaliano
Release dateAug 13, 2014
ISBN9788863965254
Una scuola parallela

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    Book preview

    Una scuola parallela - Roberto Provana

    Borges

    Prefazione

    È un libro curioso Una scuola parallela, di Roberto Provana. La formula narrativa è semplice: è la storia di quattro anni di liceo, con i suoi eventi scolastici ed extrascolastici e i suoi personaggi (studenti e professori).

    Siamo agli inizi degli anni Settanta e la vita della scuola italiana è sconvolta e movimentata dalla contestazione che nelle pagine di Provana conosce una trascrizione cronachistica straordinariamente dal vivo, partecipe, ma anche distaccata: credo di non esagerare dicendo che, chi non conosce quella storia (penso in particolare ai giovani di oggi) dovrebbe leggere il libro di Provana per capirla dall’interno, senza formule ideologiche e senza schemi precostituiti. Anche la cultura di quegli anni, con i suoi miti e le sue figure di riferimento, è affrescata dal libro con grande vivacità.

    Ma a latere della storia scolastica e politica si svolge una misteriosa storia parallela. È la storia di una educazione altra, alternativa, iniziatica, vissuta da ragazzi di quel liceo con straordinaria e coraggiosa serietà. Tutto ruota intorno al personaggio di Did, di cui l’Io narrante del libro si costituisce come storico e mentore, un discepolo, un alter ego.

    E attraverso la narrazione entriamo così in contatto con una vicenda che ha dell’incredibile: è la storia di un ragazzo di paese strano e solitario che sin dalla fine degli anni Sessanta, anni nei quali quasi nessuno sapeva di esoterismo, yoga e Oriente, avviò una ricerca personale strabiliante. Alcune tappe e alcuni exploit di tale ricerca vengono vivacemente raccontate nel libro. Lo stesso avviene per alcune delle tante letture e suggestioni culturali che nutrirono e animarono quella ricerca e che danno voce, nel testo, a spunti dialogici e di pensiero affascinanti.

    Chi qui scrive e un po’ conobbe quella vicenda, non può non essere colpito dal constatare come ciò che vent’anni dopo sarebbe diventato facile moda consumistica per costosi week-end esoterici, nella vita di Did fu solitaria sperimentazione quotidiana, orgoglioso lavoro indefesso su di sé, avventura e rischio.

    Potremmo dire che il libro è anche una storia di iniziazione; leggerlo può iniziare il lettore a uno sguardo diverso sul mondo e risvegliare in lui la curiosità per il mistero, suscitando uno sguardo mentale che un po’ si sottragga alla omologazione di questi ultimi anni di storia della scuola e della società italiane.

    Prof. Secondo Giacobbi

    Docente presso la Scuola di Psicoterapia Clinica presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università Statale di Milano

    I

    L’altro - Dietro la nostra maschera ufficiale uno straniero sa e forse ci osserva

    Quante scuole esistono?

    Si può, durante l’adolescenza, frequentare una scuola invisibile e proibita, dove accadono fatti che la ragione stenta a comprendere ma fanno esultare l’anima?

    Vi sono segreti che la scuola ignora e non è in grado di insegnare?

    Qual è la vera conoscenza? È possibile osservare le manifestazioni della psiche, entrare nei suoi oscuri labirinti e uscirne indenni o diversi, mutati?

    All’inizio di questa storia non sapevo rispondere a queste domande che mi inquietavano. Così questo racconto inizia con un punto interrogativo.

    E tu da dove vieni, dalla luna?

    Il cielo, terso come non mai, invitava a chiedersi che senso avesse passare la giornata chiusi in una fredda e anonima aula scolastica.

    Vai al diavolo! rispose la voce alla domanda del compagno, seduto al banco alla sua destra.

    Seconda liceo scientifico: la risposta era il biglietto da visita di Did, il bocciato finito lì, nella sezione B, a ripetere l’anno.

    Did era il nuovo marchio di battesimo che si era guadagnato con le disastrose performance in lingua inglese dell’anno prima.

    "Did!; Did!" gli gridava la professoressa. Si dimenticava sempre, sbagliando, nella costruzione grammaticale delle espressioni anglosassoni, il passato dell’onnipresente verbo to do.

    Quel richiamo era diventato la sua nuova identità, tanto che nemmeno gli altri insegnanti lo chiamavano più con il suo vero nome. Per tutti era Did e nessuno ricordava il suo nome di battesimo.

    Filippo Bosiani rimase secco nel sentirsi rispondere da Did, di andare al diavolo. La sua intenzione era innocente: mettere a suo agio il nuovo ospite.

    Essere respinti significava essere emarginati o compatiti.

    La nostra era una classe abbastanza democratica e non avevo dubbi sulla buona fede di Filippo, anche se l’incazzatura di un bocciato era comprensibile.

    Eccoci di fronte a un irascibile frustrato che avrà difficoltà a inserirsi nella vita della seconda B, pensai.

    Il suo profilo asciutto e longilineo, ascetico, trasmetteva un senso di inquietudine rarefatta, un’atmosfera internamente aristocratica e fredda, lontana. Non aveva l’aspetto bonario e pasciuto della maggior parte dei figli della buona borghesia cittadina.

    Fin dai primi giorni notai che si muoveva raramente dalla sua postazione, come per occultare una qualche difficoltà a spaziare nel perimetro di un’aula che non sentiva affatto sua. Il banco era una trincea nella quale sembrava condannato a scontare una quotidianità scolastica fatta di noia mortale, alla quale reagiva con una forma di catatonia posturale che sfiorava la paralisi. La sua andatura lenta e pensosa, rivelava una indole austera e rassegnata.

    Durante gli intervalli, mentre il resto della classe si precipitava a sgranchirsi le gambe e a stirarsi i muscoli, lui rimaneva bloccato, serrato tra la sedia e la pila di libri che sul piano di un banco progettato per dei nani gli chiudevano le lunghe gambe e braccia in una morsa impietosa. Pareva affetto da una strana forma di sonnambulismo. Non dava affatto l’impressione di essere lì con la testa, ma altrove, da un’altra parte, in un luogo che non sapevo ancora dire, nel quale nessuno era mai stato. Mi suggeriva l’idea di un naufrago capitato lì per caso e che aveva perso tutto e quindi non aveva più nulla da salvare. Eppure dai suoi silenzi e dalle sue rare parole, ridotte a un livello di pura sopravvivenza relazionale, trapelava qualcosa di non totalmente vinto, domato.

    Ottobre era un bel mese per ricominciare a vivere.

    Dopo la pausa estiva il ritorno sui banchi di scuola creava una situazione di apparente uguaglianza sociale che le vacanze avevano contribuito a cancellare.

    Se la scuola era pubblica, le vacanze rimanevano tenacemente private. I ricchi ammazzavano il tempo tra una seconda casa e l’altra, alternando sapientemente i sollazzi del mare alle ricreazioni della montagna, esplorando i villaggi esclusivi degli anni Sessanta. Ma le abbronzature estive guadagnate in provincia erano più tenaci e alla lunga era il sole nostrano preso nei campi o sulle rive dei canali a vincere le fragili tintarelle agostane dei figli e delle figlie di papà.

    All’inizio del nuovo anno la piccola comunità scolastica della seconda B si portava dentro gli umori dell’estate. Così era fatale, soprattutto per i parassiti, saltare sul treno trainato da qualche locomotiva umana capace di stimolare lo studio o di renderlo almeno più facile.

    La più potente di queste locomotive didattiche si chiamava Carla: dolce, materna, disponibile, non aveva niente della secchiona altezzosa che teneva a bada i poveri cristi per distinguersi e svettare, in tutta la sua gloria, sulle miserie scolastiche altrui. Traduceva per tutti i concetti astratti della matematica e del latino in appunti ordinati, giudiziosi, commestibili anche per cervelli come i nostri che trovavano coriacee perfino le lezioni di disegno. I suoi quaderni erano più ricercati dei Bignami. Riuscire a entrare alla sua corte, far parte del suo gruppo di lavoro dove lei sgobbava e gli altri si facevano trainare, era un gran colpo di culo.

    Vado da Carla, era un lasciapassare per garantirsi ripetizioni gratis e il facile consenso da parte dei genitori per passare il pomeriggio fuori casa. I più diffidenti si limitavano a fare una telefonata di controllo per sapere se il figlio o la figlia stavano proprio lì a studiare da Carla, che a volte assicurava anche una efficace copertura in caso di assenze ingiustificate dai compiti pomeridiani. Il più delle volte trovarsi a studiare era un alibi stupefacente per vagabondare qua e là nel limbo delle aspirazioni adolescenziali, ma Carla era una garanzia: ti inchiodava al testo da tradurre o alla equazione da risolvere e se non riuscivi a starle dietro, era peggio per te. Se invece si reggeva il ritmo della locomotiva, si imparava insieme, senza dover più sacrificare altro tempo allo studio. Studiare da soli infatti era una pesante condanna mentre apprendere e ripassare con altri era meno gravoso e persino divertente.

    Alle 15.30 di un giorno fatidico, alla metà di ottobre di quell’anno 1969, l’anno della conquista della luna, da Carla si celebrava in pompa magna il primo incontro degli scansafatiche più incalliti della classe. C’erano Alberto Biondi, figlio di un noto agente immobiliare cittadino; Claudio Campari, destinato a ereditare la farmacia di famiglia; Lella Pastori, che si comportava da gran figlia di giudice qual era, e Livio Tatti, di famiglia operaia, che sognava di diventare architetto.

    Si presentò anche Did che solitamente dopo le lezioni mattutine ritornava a casa in bicicletta, in un paese che distava cinque chilometri. Quel giorno, imprevedibilmente, era rimasto a vagabondare nelle vie del centro.

    Prima di suonare il campanello aveva camminato per un’ora su e giù per via Mazzini, la strada principale della città. Non aveva guardato i negozi ultra cari che vi si affacciavano, né abbordato ragazzine o mangiato gelati che si vantavano d’essere i migliori della Lombardia. Era preso dall’idea di provare a ipnotizzare il primo che gli capitasse a tiro. Invitato da Carla, non aveva nascosto la sua orgogliosa timidezza, nonostante i tentativi della nostra più amabile compagna di mettere tutti gli ospiti a loro agio.

    Carla ci rifornì di tutto punto: penne a sfera che reclamizzavano banche locali e block notes con lo stemma del Vescovo. Inoltre aveva preparato la merenda delle cinque a base di biscotti vari, aranciata, cedrata e chinotto. Il programma del pomeriggio prevedeva quel ripasso generale che la Dragoni, una prof. spiritata e umorale in piena menopausa, aveva appioppato senza tanti complimenti. Seccata perché il mite Giorgio Zuccardi, figlio del panettiere, un suo pupillo dell’anno precedente, non aveva saputo ricordare alla prima lezione la regola di Cramer, se n’era uscita con una delle sue vendicative improvvisazioni: revisione generale delle definizioni e delle regole del primo anno!

    La regola di Cramer era una delle formule risolutive di un sistema algebrico. Apparteneva al programma della prima liceo, ma Giorgio non aveva trovato alcuna traccia della definizione, nei meandri della sua memoria scolastica infiacchita da una estate piena di svaghi voluttuosi. Offesa dall’oblio negligente dello studente, la prof. aveva voluto testare l’efficienza di Carla che non si era lasciata sorprendere e aveva subito risposto: Nella soluzione di un sistema di due equazioni di primo grado a due incognite, ridotto in forma normale, il valore di ciascuna incognita è espresso da una frazione, avente per denominatore il determinante da esso ottenuto sostituendo alla colonna dei coefficienti della incognita considerata quella fornita dai termini noti.

    Anche se per il resto della classe la definizione fosse arabo e per me Cramer al massimo poteva ricordare il nome di un direttore d’orchestra, la regola era stata espressa in forma impeccabile, ma non bastò a quietare la professoressa Dragoni che anzi sembrò ancor più irritata.

    Risultato: reimparare a memoria tutte le regole e le definizioni precedenti, a cominciare da quelle di monomi, binomi, polinomi, espressione algebrica e così via.

    I partecipanti al ripasso generale arrivarono alla spicciolata. L’appartamento era situato in una palazzina moderna che si affacciava sul Bar Verdi e un grande giardino pubblico che divideva l’area delle palazzine dal liceo. Sporgendosi un po’ oltre il terrazzino dell’appartamento, attraverso gli alberi quasi si poteva scorgere l’edificio scolastico in tutta la sua imponenza.

    Si studiava nel soggiorno.

    Fui il primo ad arrivare, mentre Did arrivò penultimo e, dopo essersi seduto accanto alla finestra ci guardò con una calma surreale. Il suo sguardo si fece tenebroso, i pettegolezzi cessarono e in una atmosfera pervasa da un vago ma oscuro presagio, pronunciò lentamente queste parole: L’ultimo che arriva lo addormento, lo ipnotizzo!

    Carla, sopraffatta da una proposta così imprevedibile, tacque.

    L’ultimo ad arrivare, con un’aria di inconsapevole sufficienza che avrebbe presto pagato, fu Livio Tatti. Si faceva chiamare Tatus.

    Appena Tatus mise piede in soggiorno, Did sussurrò: Siediti… Poi chiese a Carla di abbassare tutte le persiane e chiudere le imposte per creare una atmosfera suggestiva. Il resto del gruppo si era disposto a semicerchio intorno ai due per poter osservare da vicino lo svolgersi dell’esperimento che assunse le sembianze di un teatro di ombre.

    Inaspettatamente, dalla porta della stanza si affacciò il padre di Carla.

    Che state combinando? domandò sorpreso.

    Ci fu un attimo di imbarazzo da parte di Carla e di noi tutti.

    Did esclamò: Ci sta raccontando una storia!, indicando Tatus che aveva le spalle girate verso l’intruso. Il messaggio era: Ci lasci fare e vada per la sua strada!

    Aveva avuto pane per i suoi denti. La preoccupazione dell’uomo si placò all’istante. Fece un cenno di assenso con la testa, chiuse la porta e se ne andò confuso.

    Dopo alcuni istanti, dalla gola di Did uscì una voce che in seguito avrei imparato a conoscere bene. Era imperiosa, e al tempo stesso morbida e dolce. Sentii un brivido freddo lungo la colonna vertebrale. Quel timbro sembrava così profondo da riuscire a toccarci in profondità, evocando stati d’animo sconosciuti. Era un invito suadente e irresistibile a lasciarsi andare.

    La voce intonò un ritornello cantilenante: Ascoltami… sei stanco, hai sonno… il tuo corpo è pesante, i tuoi occhi si chiudono, finalmente ti puoi riposare e rilassare totalmente, fino in fondo… fino in fondo.

    Sembrava di assistere a una battaglia misteriosa. Nella penombra distinsi la faccia di Tatus che si contraeva in smorfie mai viste. Intanto la voce di Did, come una marea silenziosa seguitava a sommergere ogni sua resistenza. Il tono mutava in progressione, volume e ritmo, evocando sensazioni, sentimenti e pensieri che diventavano anche i miei. Feci uno sforzo per riuscire a rimanere fedele al mio ruolo di osservatore e a non precipitare nella spirale di quel vortice magico.

    A dieci minuti dall’inizio della seduta, l’affondo ipnotico era quasi compiuto: Tatus giaceva con il capo all’indietro, vinto da un irresistibile sopore. Non deglutiva quasi più, gli occhi ormai chiusi erano pesanti serrande metalliche e al tocco le palpebre si presentavano insensibili.

    Notai il mignolo della mano destra di Tatus fremere impercettibilmente, prima di cedere definitivamente alla cantilena ipnotica di Did, che si diffondeva nella stanza come il sibilo di un serpente.

    Ancora non sapevo che il ritmo soave di quella canzone apparentemente innocua, mi avrebbe cambiato la vita e segnato irrimediabilmente l’adolescenza.

    Lo spettacolo si prolungò ancora qualche minuto finché le parole di quella nenia greve non ci avvolsero in un incantesimo.

    I tuoi occhi ora son chiusi e si apriranno solo quando te lo dirò…

    La trance scavava un solco nelle pieghe stesse del corpo e della psiche di Tatus. Mai prima di allora avevo considerato il potere della voce e delle parole. Non c’era grammatica o letteratura che potesse esprimere il fascino di quella seduzione. La progressione inesorabile di quel processo suggestivo mi ricordava il Bolero di Ravel, ma anziché assistere a un incalzante aumento di intensità, il ritmo si stemperava in una marcia indefinibile, appena sussurrata.

    Did aveva suggerito i segnali inequivocabili dell’abbandono psicofisico: "Ascolta… ora il tuo corpo è addormentato, tutti i muscoli sono stanchi, non ti vuoi svegliare, lo farai solo quando te lo dirò".

    Tatus ebbe un ultimo sussulto, un estremo tentativo di resistenza per cercare di scuotersi da quell’invadente torpore delle membra e della mente. La deglutizione ritornò per un attimo a farsi semicosciente, poi meccanica e regolare, governata da un automatismo riflesso, finché si spense del tutto…Senti solo il suono della mia voce, nessun altro suono o disturbo ti potrà svegliare…La suggestione avanzava con la cadenza di una antica ninna nanna. Infine arrivò l’ordine definitivo: Tu dormi, tu dormi, tu dormi…

    Alberto aveva gli occhi spalancati sul volto di Tatus trasformato in maschera di Morfeo. Lella teneva la bocca aperta. Claudio esibiva un’aria catatonica e assorta. Carla era ammutolita. Stupefatto, io osservavo immobile e lottavo per rimanere lucido. I silenzi e le pause rendevano irresistibile la suspense.

    Pensai che se avessi potuto narrare con quella voce il racconto più noioso, avrei potuto incantare i miei compagni, per cui invidiai a Did il talento che aveva avuto in dono. Ma l’idea di cadere nel gorgo di quell’incantesimo e la paura di perdere la mia consapevolezza, mi ridestarono. Sentii più intensamente il brivido freddo che avevo avvertito poco prima.

    Per testare la profondità della trance, Did suggerì al soggetto che il suo braccio destro non avrebbe potuto opporre alcuna resistenza mentre si alzava verso l’alto: Ascoltami… il tuo braccio è leggero, sempre più leggero… è un palloncino che si alza, si alza verso l’alto… ecco, sale, sale, sale!… sale sempre più verso l’alto, non puoi fermarlo, è trascinato dal vento e dalla sua leggerezza… è leggero, leggero come una piuma.

    L’arto destro si alzò lentamente dal bracciolo della sedia sulla quale Tatus era sprofondato in un così strano letargo. Continuò ad alzarsi fino a quando il polso si trovò all’altezza della fronte.

    A questo punto Did invertì l’ordine: Ora ascolta bene… il tuo braccio destro è diventato pesante… pesante… pesante… ossa e muscoli sono pesanti come macigni e il tuo braccio cade, scivola verso il basso, non lo puoi fermare… è troppo pesante!

    Il braccio cadde sbattendo sul bracciolo, ma Tatus parve insensibile al colpo che aveva rimediato.

    Did proseguì: Ora potrai parlare con me senza svegliarti… risponderai alle mie domande senza svegliarti… i tuoi occhi rimarranno chiusi, non potrai riaprirli… sono ancora troppo pesanti… ma potrai rispondere alle mie domande… promettilo… rispondimi con un cenno del tuo capo… dimmi di sì con la testa…

    Il capo di Tatus si chinò in avanti in una specie di inchino.

    Ora raccontami perché sei arrivato in ritardo…

    Il suo sorriso si distese in una espressione beata: Sono stato con Elisa, accennò vagamente.

    Racconta, racconta… fu la richiesta corale. Ma non fece una piega finché Did non rinforzò il comando: Racconta, racconta…

    Sono stato con Elisa e ho fatto tardi… ammise compiaciuto.

    Pensai che doveva essere bello rivivere certi momenti, liberi dai sensi di colpa e dagli obblighi che abbiamo introiettato per poter essere accettati nel mondo degli adulti.

    Lei non ci vuole venire con me stasera…non so più come prenderla, io credo di piacerle ma non so come convincerla. Forse sono stato troppo timido…

    Did gli ingiunse di continuare.

    Ci siamo incontrati un’ora fa, qui fuori, al solito angolo dei giardini pubblici, abbiamo parlato di noi… poi non ho più guardato l’orologio… ho fatto una corsa per essere puntuale…

    Non sei stato puntuale, sbottò acidamente una voce.

    Un altro suggerì a Did di chiedere cosa aveva combinato con la sua ragazza. Tatus non sentiva le nostre voci e per lui Did era l’unico interlocutore possibile.

    Cosa hai combinato con Elisa…? ripeté divertito il nostro improvvisato ipnotizzatore.

    Le ho toccato le tette…!confessò estasiato il nostro compagno, finché non ci accorgemmo che Tatus, nell’arricchire la sua cronaca di nuovi particolari, non stava semplicemente ricordando, ma piuttosto rivivendo con straordinaria intensità i momenti appena passati con Elisa.

    A un certo punto notammo un rigonfiamento repentino sotto i pantaloni, all’altezza del pube.

    Adesso gli si rompono i bottoni dei pantaloni…! gridò uno di noi.

    L’atmosfera si fece boccaccesca…

    Vai avanti, vai avanti… incitò a sorpresa Lella.

    Ma Did non voleva che l’esperimento si trasformasse in un fenomeno ridanciano e insulso.

    Ora basta! ordinò. Elisa non è più con te, dimenticala… Tra poco ti sveglierai e ti sentirai bene e rilassato. Ora conto fino a dieci e al dieci aprirai gli occhi, sveglio e riposato…

    Così accadde, senza che Tatus riuscisse a ricordare il benché minimo particolare dell’esperienza.

    Quel giorno nessuno di noi riuscì più a studiare, nemmeno Carla.

    Rimanemmo a mangiare biscotti, a bere aranciate e chinotti fino alle sette, commentando lo spettacolo.

    Mentre tornavo a casa, feci alcune considerazioni:

    Come era riuscito Did a indurre la trance, in base a quale facoltà?

    Nessuno di noi, a seguito all’ordine impartito, poteva più comunicare con il nostro compagno; come faceva il cervello del soggetto a escludere dalla coscienza la percezione dei suoni?

    La realtà evocata da Tatus era veramente quella che egli riviveva? Potevamo escludere dalla nostra percezione soggettiva i fenomeni oggettivi? Siamo ciechi e sordi a suoni e immagini che i nostri sensi non sono stati istruiti a captare? Anche noi, senza saperlo, siamo ipnotizzati, addormentati?

    Il nostro amico era veramente in trance o si trattava di una burla magistrale messa in atto per compiacere, sebbene inconsapevolmente, una sua vena esibizionistica o le aspettative di Did?

    Il pomeriggio del 26 ottobre era una bella giornata di sole.

    Quattro compagni della seconda B si erano dati appuntamento nello studio - una grande mansarda - di uno dei pittori più importanti della città. Dagli abbaini si poteva vedere gran parte della campagna circostante.

    C’eravamo io, Did, Alberto e Tatus.

    Ce ne stavamo per conto nostro, mentre in un angolo il figlio del pittore e il suo amico Angelo, entrambi ventenni, fingevano di studiare confabulando di donne.

    La luce fioca che entrava dall’alto cadeva sul parquet e sui tessuti damascati di poltrone, divanetti, poltroncine e sofà, cuscini giganti sui quali ci si poteva sdraiare all’orientale per fumare il narghilè o sorseggiare il tè. Più che un laboratorio di pittura o ritiro per lo studio, quel rifugio era perfetto per incontri clandestini perché a ogni angolo si poteva ricavare una alcova.

    Avevamo appena aperto i libri quando Did si alzò dalla sedia e si rivolse a me, bisbigliando: Vorrei fare un esperimento…

    Quale esperimento?

    Un esperimento di memoria… rispose.

    Io e Alberto lo tempestammo di domande alle quali reagì guardandoci negli occhi: Non saprete niente se non provate… chi si presta?

    Tatus fu lesto nel rispondere: Proviamo… son io la cavia, che devo fare?

    Pensammo tutti che in fondo a Tatus non dispiaceva essere di nuovo al centro dell’attenzione.

    Tu proprio niente, tocca a me addormentarti…

    Did mi disse di andare in un angolo della mansarda a scrivere un elenco di trenta sostantivi. In due minuti, sul mio quaderno scrissi in bell’ordine una serie di parole a caso:

    Quando tornai al tavolo, Did disse a Tatus di ascoltare con attenzione l’elenco che io avrei letto una sola volta. Quando ebbi finito, chiese alla cavia di ripetere le parole che ricordava, possibilmente in sequenza.

    L’esito fu disastroso. Le parole ricordate furono otto su trenta e in quest’ordine: ruota, nuvola, scarpa, treno, scoiattolo, lattuga, maschera, banca. Dopo banca disse perfino una parola che non c’era nell’elenco: fumo.

    "Che c’entra fumo?" sorrisi divertito.

    Una voce si staccò dal gruppo e sparò la sua cazzata: "Perché non arrosto?"

    Tatus aveva dimostrato quel che tutti già sapevano: aveva la memoria più corta dei suoi capelli rasati e quindi non ci si poteva aspettare di più dalle sue prestazioni mnemoniche.

    Bene, mi chiese Did, che non aveva voglia di scherzare, hai scritto tutte le parole che Tatus ha cercato di ricordare? L’avevo fatto.

    Con un sorriso di approvazione ci comunicò allora che si poteva cominciare.

    Intimò di non fiatare e invitò Tatus ad accomodarsi su un divano. Spense la luce affinché rimanesse solo quella proveniente dagli abbaini, si avvicinò a Tatus e guardando in un punto indefinito oltre il suo capo, sussurrò, secondo il copione che gli avevo sentito recitare a casa di Carla: Ascolta…. ascolta il suono della mia voce, il timbro delle mie parole…

    Quando Tatus chiuse gli occhi, noi tutti avevamo lo sguardo fisso sul volto del nostro compagno che si stava rilassando.

    I muscoli del suo viso si sgonfiarono in uno stato di abbandono totale, le palpebre si chiusero dolcemente come petali sensibili all’arrivo della notte, la sua espressione divenne placida, assorta.

    Dopo alcuni minuti, in una atmosfera crepuscolare fu emesso l’ordine: Dormi, dormi profondamente…

    Did ripeté ora dormi, e si mise a spiare ogni micro contrazione cutanea che traspariva dal volto di Tatus.

    Non fu necessario rinforzare l’invito a chiudere gli occhi: Tatus l’aveva già fatto spontaneamente.

    Affinché li tenesse chiusi per tutto il tempo necessario, Did rinforzò la trance con una suggestione mirata: I tuoi occhi si sono chiusi e lo rimarranno fino a che ti dirò di riaprirli… sono pesanti, troppo pesanti, sono come due grandi botole che si son chiuse silenziosamente sopra di te, e ora te ne potrai stare tranquillo qui all’ombra, al riparo dalla luce… sono così pesanti che se anche tu volessi, ora non riusciresti a riaprirli, sono troppo pesanti! Ecco, prova: tu cerchi di sollevare le tue palpebre ma non ci riesci! Tu credi di riuscire ad aprire ancora i tuoi occhi ma non è possibile perché sono stanchi e pesanti, lasciali riposare… totalmente, completamente, completamente addormentato… dormi, tu dormi, tu dormi…

    Venne il momento della domanda diretta, che serviva a confermare l’avvenuta trance: Ascolta… confermami con un cenno del capo se sei profondamente addormentato…

    Sussurròancora: Potrai rispondermi senza svegliarti, potrai parlare senza essere disturbato da niente, promettilo! Dimmi di sì… senza svegliarti… promettilo!

    Dalle labbra di Tatus uscì un lieve che tutti udirono, a cui seguì un’ulteriore istruzione di Did: Ora, sempre senza svegliarti, potrai parlare con me e provare a ripetere l’intero elenco che hai sentito poco fa, parola per parola…

    Ci furono alcune contrazioni alla gola, piccoli spasmi che anticiparono una serie di faticose deglutizioni, finché Tatus con sempre maggiore fluidità pronunciò senza esitazioni la sequenza dei termini che aveva udito prima della trance: Nuvola, ruota, scarpa, fiore, gemello, radicchio, borsa, treno, orologio, maschera, anguilla… bicicletta, fiume, scoiattolo, cavallo, pomodoro, orecchino, nave…

    A questo punto il figlio del pittore e il suo amico Angelo si avvicinarono increduli a Tatus che riprese fiato e finì la serie dei nomi in un ordine impeccabile, senza esitazioni: …aria, banca, lampada, film, penna, freccia, pila, lattuga, riccio, calza, colibrì, asciugamano.

    Did non pareva affatto sorpreso, ma sorrise soddisfatto verso di me che, in qualità di notaio, stavo controllando, sbalordito dalla performance, la sequenza delle parole. Alle mie spalle Angelo esclamò: Ripetile di nuovo! Tatus non si mosse, sordo all’invito.

    Did fulminò l’invadente con un’occhiata e chiese a Tatus se avesse udito qualcosa.

    No, rispose calmo.

    Ora ripeti nuovamente in ordine l’elenco… lo invitò Did. Mentre tutti scrutavano le parole sul foglio come se fosse la pagina di un messale, l’elenco fu ripetuto.

    Non contento della doppia dimostrazione ottenuta o forse proprio per questo, Did chiese: "Cosa c’è dopo orologio?"

    "Maschera!"

    "E prima di orecchino?"

    "Pomodoro."

    "Prima di lattuga?"

    "Pila."

    "Dopo calza?"

    "Colibrì!"

    Si andò avanti così per altri dieci minuti buoni. Era chiaro che Tatus, in quello stato, aveva memorizzato benissimo l’elenco.

    "Prima di corsaro?"

    Niente.

    Fu l’ultima verifica.

    Did ringraziò Tatus e gli disse che avrebbe potuto addormentarsi e ritornare in quello stato istantaneamente, non appena avesse udito da lui in persona e solo da lui la parola fattish. Ottenuta questa promessa, contò fino a dieci e lo svegliò: Tatus non ricordava nulla di

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