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Famiglie
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Famiglie

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Famiglie, cui l’Autore ha dedicato anni di ricerche e di documentazione per dare uno spessore di maggiore autenticità ai personaggi e all’ambiente, è qualcosa di più di una saga. E’ un’opera che, a buon diritto, si ricollega alla grande tradizione romanzesca, con una solida impalcatura narrativa e cento storie, talvolta epiche, spesso allegre o struggenti, ma tutte disperatamente umane, che resteranno nel lettore come ricordi personali, perché ciascuno vi ritroverà un pezzo della propria famiglia, della propria esperienza, e la memoria di tutto ciò che si era disposti a sacrificare per essa. Un grande e appassionante romanzo, dunque, che doveva essere scritto anche in Italia, dove la letteratura è spesso avara di opere di questo tipo. Senz'altro uno dei libri più suggestivi di questi ultimi anni, nel quale ognuno di noi non faticherà a riconoscere la tenera suggestione delle cose che un giorno avrebbe voluto raccontare.
LanguageItaliano
Release dateMay 18, 2011
ISBN9788863690972
Famiglie

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    Famiglie - Vittorio Schiraldi

    madre

    Parte prima

    I

    Erano tempi stretti e il paese respirava ancora i ricordi della carestia, quando di giorno la gente rubava il pane per le strade e la sera diceva la novena nelle case. In chiesa si accendevano ceri a San Sabino e i contadini si percuotevano la schiena con le funi che martoriavano la carne, chiedendo perdono a Dio delle proprie disgrazie.

    Si susseguivano stagioni senza speranza, il raccolto diventava più magro, pioveva poco, la campagna non dava quasi più niente, soldi non ce ne stavano, lavoro non se ne trovava e chi non voleva fare una cattiva azione non sapeva nemmeno dove sbattere la testa. Cosi tanti se ne scappavano senza voltarsi indietro, emigravano nei posti più lontani da casa dove sembrava che non potessero più giungere voci disperate, le famiglie cominciavano a sfasciarsi e a Canosa restava soltanto la miseria.

    A quell’epoca, due anni prima che scoppiasse la Grande Guerra, il paese aveva poco più di cinquemila abitanti e cinque o sei famiglie di proprietari che amministravano la rassegnazione degli altri. Le strade erano corridoi senza sole, con le pietre levigate dall’acqua che si prendeva dai pozzi e si scaricava dagli usci dei sottani; la luce elettrica, che era arrivata già da dieci anni, non entrava nemmeno in tutte le case, figli se ne facevano tanti, per dare ad alcuni la certezza di poter sopravvivere, i bambini morivano come mosche, appena nati, di grippa o con la malaria che giungeva dal fiume.

    Fu in quella estate che se ne andò Tomasino, il penultimo dei dodici figli di Antonio il Salatore.

    All’alba doveva partire da piazza Colonna, che adesso si chiama piazza della Repubblica, dove al tramonto c’era il mercato delle braccia e i contadini aspettavano un padrone che li prendesse a otto soldi a giornata, davanti al teatro Lembo, dove ora c’è la Camera del lavoro.

    Tomasino era arrivato prima degli altri e attendeva sulla scalinata della chiesa Oronzo e Tatonno, i cugini che dovevano portarselo insieme. Peppino, che si era alzato per accompagnarlo, sedeva due gradini più in alto e osservava la testa del fratello, pensieroso e distante, come se invece di prepararsi a partire se ne fosse già andato all’America. Ogni tanto ingoiava uno sbadiglio, perché era ancora presto e tutta la notte non aveva chiuso occhio pensando a Tomasino che lo lasciava e al viaggio che dovevano fare sul carro del cognato per andare a prendere il treno a Barletta.

    A quell’ora in piazza non si vedeva anima viva. Gli uomini erano già andati in campagna rinserrando le case. Tomasino si girò, sorprese il fratello più piccolo che guardava per aria, come quando aveva qualcosa da dire e non trovava il coraggio, Peppino parlò finalmente.

    Potevi almeno farti la festa di San Sabino disse.

    Tomasino sorrise, aveva una serenità consapevole che dominava l’angoscia di quel distacco. Gli dispiaceva partire, non tanto per la famiglia quanto per quel fratello che non era solo un fratello ma un compagno che sopportava la pena di vederlo andar via tentando di restargli vicino fino all’ultimo. Aveva voglia di parlargli ma sarebbe stato lungo spiegare e forse non ci sarebbe stato tempo, Michele doveva essere per strada. Pensò a Tatonno che in America c’era stato e la paura che aveva inutilmente tentato di dargli il cugino, per convincerlo a non andare, lo afferrò all’improvviso. Tatonno gli aveva raccontato tutto del piroscafo a Napoli, la gente ammassata sul ponte con fagotti e bambini, i vecchi che non si sapeva più a quali speranze andassero appresso, le donne scalze con i figli appesi al collo, i pianti e i pidocchi che non davano pace per tutta la traversata. Mai, però, era riuscito a spaventarlo. In paese i più grandi sapevano già quelle storie e persino altre peggiori, come quelle che ripeteva al caffè il compare Minerva che aveva sposato una siciliana con un parente disperso, forse buttato a mare da una barca, lontano dalla costa, mentre cercava di partire clandestino. Se l’erano portato via dei mascalzoni che andavano nei paesi a caccia di emigranti senza permesso, promettendo l’imbarco e poi non facendosi scrupolo di ammazzarli, al buio in mare aperto, dopo avergli tolto ogni cosa e l’illusione di vederlo persino da lontano il bastimento. Fatti di questa specie per fortuna a Canosa non se n’erano mai verificati ma la gente aveva imparato a non temerli, tanto si sapeva comunque di rischiare, sempre meglio che fare la fame a casa propria.

    Si alzò in piedi, con la scusa di guardare la strada, e adocchiava il fratello che se ne stava zitto zitto e non si decideva a dire niente e gli sembrava che non fosse venuto per fargli compagnia ma per rimproverarlo col silenzio. Peppino invece aveva altri pensieri e i ricordi gli si affacciavano alla mente come fazzoletti sventolati da un treno in fuga. Tomasino sorrise ancora, parve giustificarsi che nessuno fosse ancora arrivato, si strinse nelle spalle chiedendo pazienza.

    In casa era chiamato il filosofo, perché era taciturno, a differenza dei fratelli non amava scherzare. Troppo serio per la sua età, diciotto anni nemmeno compiuti. Era molto buono, forse il più buono della famiglia, ma anche se tanti se ne approfittavano, e i compagni lo mettevano in mezzo per sfotterlo, lui non se ne rammaricava. Sembrava che non chiedesse altro che starsene in pace, cercando una tregua costante con la vita. I fratelli non riuscivano a capirlo ma lo sentivano diverso. Si erano convinti che fosse uscito fuori razza e se n’erano fatta una ragione, ma non gli avevano perdonato quello che era successo qualche anno prima al Castello.

    Laggiù, nella spianata in mezzo alle rovine dove si vedeva l’Ofanto riflesso contro il sole nelle giornate d’estate, i ragazzi del paese si riunivano per scontrarsi tra bande. Imparavano anche a tirare di coltello, e sapevano fare scivolare la giacca dalle spalle con un movimento repentino avvoltolandola con un paio di giri intorno al braccio sinistro, per parare i colpi, mentre col destro fronteggiavano l’avversario. Fra i più grandi e i più prepotenti c’era il figlio di zu’ Nicola attantaculo che aveva un vizio vigliacco. Prima di salutarsi coi compagni, quando si faceva buio e bisognava tornare a casa, sputava in faccia a qualcuno, all’improvviso, senza nemmeno una ragione, mentre ancora si giocava tutti insieme. Subito dopo, appena intuiva una reazione, scappava e restava lontano qualche giorno.

    La prima volta che fu preso di mira Tomasino non reagì, come se non avesse saputo capacitarsi. Lacrime mortificate e sorprese spuntarono di fronte a un gesto così inaspettato e cattivo, abbassò la testa. Da quel momento il figlio di zu’ Nicola, che era più grande e robusto e aveva una faccia coperta di foruncoli che facevano schifo a vedersi, imparò a non risparmiargli gli sputi.

    Quando seppe il fatto il primo impulso di Peppino fu di rabbia verso il fratello che non solo non sapeva difendersi ma non aveva più il coraggio di andare al Castello. Poi ne parlò con Cenzino, che era il maggiore e il più forte della famiglia, perché ci trovasse un rimedio, come se si fosse trattato di una malattia. Tomasino venne bastonato. Vedendolo disprezzato come un pauroso, forse con la speranza di suscitargli l’orgoglio, Peppino ne restò amareggiato. Non aveva chiesto una condanna, dai discorsi del padre aveva sempre immaginato che un aiuto, da un fratello a un altro fratello, dovesse essere cosa diversa. Era certo, infine, che Tomasino non avesse paura; era solo incapace di far male. Bisognava solo dargli coraggio e questo toccava a lui, che ne aveva più del fratello nonostante fosse più piccolo. Da allora, per tutta una settimana, se lo portò in campagna per insegnargli la lotta, provocandolo, facendo a botte per eccitarlo, ripetendogli in continuazione che avrebbe dovuto tornare al Castello e vendicarsi davanti a tutti, picchiando per primo il figlio di zu’ Nicola, senza nemmeno aspettare lo sputo.

    Tomasino non riusciva a convincersene. Diceva: Io posso cercare altri compagni, non debbo fare a botte tutta la vita, ma continuava a battersi col fratello. Una volta che per sbaglio lo colpì più forte facendogli male, incredulo vide la soddisfazione di Peppino che si asciugava il sangue sulla bocca e sembrò finalmente rassegnarsi. Se è questo che si deve fare facciamolo, così non vi dovrete più vergognare di me disse con una stanchezza profonda, come se con quella decisione avesse ormai finito di patire.

    La mattina dopo Peppino fece sapere ai compagni che Tomasino sarebbe andato al Castello a cercare il figlio di zu’ Nicola attantaculo e il pomeriggio lo accompagnò. Prima di arrivare allo spiazzo si fermò vicino a un muretto di pietra e incitò il fratello a proseguire da solo. Tomasino era bianco come una tovaglia ma avanzò fino alle rovine andando verso i compagni. Nascosto dietro il muretto Peppino scorse il figlio di zu’ Nicola farsi incontro al fratello e parlargli ma non poteva sentire le parole anche se intuiva che lo stava sfottendo. Aveva la faccia del sorriso e girava attorno attorno a Tomasino, immobile, con i pugni stretti lungo i fianchi. Si divertiva a modo suo. Quello era il momento di reagire, pensava Peppino, menandogli un cazzotto sulla faccia a cancellargli la boria, e invece Tomasino sembrava prendere tempo e aspettare. Improvvisamente Peppino vide il figlio di zu’ Nicola girarsi, sputare dritto in mezzo agli occhi di suo fratello e scappare a perdifiato giù per il sentiero mentre intorno scoppiava una risata. Gli uscì un urlo inumano e sbucò dal muretto, sbarrò la strada all’avversario, la vista si annebbiò. Gli si buttò addosso, travolgendolo con il peso, mettendolo sotto, nonostante fosse più minuto, tempestandolo di pugni come un forsennato. Continuò a colpirlo, prendendo botte, urlando e sputandogli in bocca, liberandosi dal fratello che cercava di trattenerlo. Ci volle l’aiuto degli altri per togliergli dalle mani il figlio di zu’ Nicola che per la prima volta sembrava spaventato. Quando li separarono Peppino gridò: La prossima volta ti do una coltellata! e intanto tirava su col naso il sangue che gli sgocciolava sulla camicia. Più tardi, mentre tornavano a casa, Peppino tremava ancora per l’ira e la voglia di piangere e guardava fisso per terra. Aveva perso il berretto, un occhio gli si stava tingendo di nero, la manica della giacca era piena di striature di sangue a forza di strofinarsela sul naso. Tomasino non aveva ancora detto una parola. Ad un certo punto gli si mise davanti e lo costrinse a fermarsi.

    Che c’è adesso? disse Peppino.

    Io non avevo paura. Solo che non lo volevo colpire a tradimento. Gli sarei corso appresso fino al paese, te lo giuro fece Tomasino, e aveva uno sguardo pulito e disperato. Peppino lo abbracciò e mormorò con uno strappo di commozione nella voce:

    Dovevi essere più svelto.

    Da quel giorno mai più nessuno si era permesso di sfottere il fratello e Peppino gli si era attaccato come una pianta.

    La piazza ormai si andava popolando, arrivarono Oronzo e Tatonno, la giacca piegata sulle spalle, infilata sotto la corda che legava le due valigie messe a tracolla come some. Avevano la faccia corrucciata e nessuna voglia di parlare. Presero anche loro a spiare la strada aspettando di vedere apparire in fondo al corso Michele con il suo carro. Ogni tanto si scambiavano sguardi preoccupati, ciascuno confrontava l’angoscia nel silenzio.

    Tatonno sembrava il più dispiaciuto all’idea di partire. In America non tornava dal tempo in cui era andato con i figli di don Sabino Pastore per aprire un salone a Brooklyn, poi avevano rotto l’amicizia per questioni delicate, sicché teneva un brutto ricordo. Questa volta non avrebbe lasciato la famiglia ma era stata proprio la moglie a convincerlo, promettendo che lo avrebbe raggiunto non appena avesse avuto l’atto di richiamo. Oronzo, il fratello più piccolo, era emozionato come fosse stato chiamato alla guerra. Ad un certo punto si avvicinò a Peppino e gli mise in mano una lettera, cercando di non farsi scorgere dagli altri, quasi fossero state le ultime volontà.

    Questa la devi dare alla figlia di zu’ Giacomino Anetta, a Filomena fu la raccomandazione. Peppino prese la busta, osservò la faccia del cugino, gli parve di leggere un addio.

    I cugini passeggiavano inquieti, Tomasino si era rimesso seduto, Peppino non smetteva di osservarlo. Ora che se ne andava, pareva fuggisse portando via una colpa, senza rammarico, prima che il paese si svegliasse. Il suo commiato aveva lasciato in casa un desolato pudore, come di fronte all’ultima defezione di un figlio. La sera avanti, mentre lo aiutava a prepararsi la valigia, a Peppino era venuto un nodo in gola ed era scappato nella stanza dove tenevano il mulo. Poi era sopraggiunta ma’ Lucia, a prendere la pezzetta del formaggio per il viaggio sulla nave. Lui si era fatto di spalle per non farsi guardare, la madre gli aveva messo una mano sulla testa.

    Chi perde un fratello, perde il meglio lato aveva sentenziato, come se lui l’avesse già perduto il fratello, l’altra metà di se stesso, e gli fosse toccato di accompagnarlo al funerale, invece che a Barletta a prendere il treno per l’imbarco. Niente altro aveva detto sua madre, che non era mai generosa di parole. Non aveva parlato nemmeno alla partenza di Colino, quando era stato cacciato di casa dal padre perché si teneva la vedova della guardia municipale e rubava alla famiglia le provviste per portarle all’amante, né aveva parlato due anni prima, quando Fedele era andato in Tripolitania a fare la guerra e poi i carabinieri erano venuti a casa per dire che il corpo non si trovava, doveva essere rimasto nella sabbia. Sembrava che ma’ Lucia fosse capace di gioire e di morire per suo conto, con l’identico sottomesso pudore nel quale celava la fede.

    L’indomani mattina, all’alba, quando per Tomasino era arrivato il momento di andarsene, finalmente aveva smesso di impastare la farina per abbracciarlo, tenendolo stretto un po’ più a lungo, quasi a lasciargli lo scrupolo di aver voluto staccarsi dalla famiglia. Gli altri dormivano ancora, come se nessuno si fosse dato la pena di svegliarli perché quella partenza potesse avvenire senza contagiarli, di soppiatto e senza testimoni, dopo una zuppa di latte mangiata in silenzio in cucina. Tomasino non aveva rivolto domande. Il buio sonnolento della casa pareva scacciarlo, le assenze si erano fatte rimprovero, muta la madre di nuovo versava acqua nel cerchio della farina sul tavoliere. Peppino allora si era caricato la valigia dando l’avvio. Uscendo aveva visto suo padre, a cavalcioni sulla sedia, vicino alla porta di casa, col petto appoggiato alla spalliera e gli occhi a terra, a fissare la punta del bastone. Gli era passato accanto senza turbarlo, dietro le spalle aveva udito il passo di Tomasino arrestarsi sulla soglia.

    Finalmente in mezzo alla strada apparve Michele con la retina, il traino con tre cavalli, Morello al centro, un puledro che aveva comprato l’estate prima alla fiera di Spinazzola, e ai lati il sauro e la giumenta. Il giorno prima, Manetta gli aveva chiesto di accompagnare il fratello e Michele non aveva saputo dire di no alla fidanzata. Pochi minuti dopo presero la strada di Barletta attraverso la scorciatoia che passava dietro il campo santo.

    Tomasino se ne stava accucciato, con i gomiti puntati sulla valigia e fra le mani la testa che gli ciondolava ad ogni sussulto del carro, come se dormisse. Peppino continuava ad accarezzare in tasca il coltello col manico d’osso che aspettava di consegnare al fratello. Si era ripromesso di darglielo davanti al treno, al momento di salutarlo alla stazione: quello gli pareva il momento più importante. Invece, dopo un’ora di strada, non seppe attendere oltre e glielo passò, cercandogli una mano di nascosto. Proprio allora udì Michele parlare.

    Beato te che te ne vai con lo stesso tono con cui suo padre diceva povero a chi muore, e la frase gli suonò inopportuna. Michele, non poteva saperne niente di quelli che restavano, era cresciuto al ventre della vacca, andava alle fiere dei cavalli, si comprava il cappello a Bari, e usava il traino ogni giorno, la mattina alle quattro, per portare in campagna gli uomini che lavoravano la roba sua, la terra dei Colasuono. Nessuno quindi gli rispose e Michele tornò a concentrarsi sui cavalli.

    Ciascuno custodiva pensieri segreti e a Peppino ogni giro di ruota portava sonnolenza e ricordi. Era l’inizio dell’estate, stavano alle fanti, a fare il bagno, da lontano si vedevano gli uomini che mietevano alla Piana e avevano la faccia colore del rame. A un certo punto Tomasino aveva detto serio serio, raccogliendo le pietre sull’argine:

    Me ne voglio andare all’America.

    A che fare?

    Niente, mi trovo un lavoro, magari mi sposo una di là, non porto altre speranze. L’hai visto pure tu che non tengo voglia di lottare, mi basta una vita tranquilla.

    Quando era bambino, e nei discorsi dei grandi cominciava a intuire le necessità della famiglia, Tomasino era atterrito all’idea che le conseguenze finissero per ricadere su di lui, che s; sentiva il più indifeso. Temeva di venire affidato ai caporali che raccoglievano ragazzini nei paesi e li portavano al mercato di Altamura dove li vendevano bene, perché potevano lavorare come uomini e si accontentavano di vivere da bestie. I caporali talvolta venivano anche a Canosa, si presentavano alle case dove c’erano troppi figli e convincevano i genitori a sbarazzarsene per alleggerire la famiglia, come una barca che sarebbe colata a picco per l’eccessiva zavorra. Il loro passaggio lasciava i fantasmi di una paura disperata. Non si sarebbero mai rivolti al Salatore, eppure Tomasino per lungo tempo si era terrorizzato al pensiero che potessero portarselo via. Col crescere, finalmente la paura era cessata, intuiva che i caporali ormai non l’avrebbero voluto, ma gli era rimasta un’angoscia più misteriosa e struggente. La fissazione che mai più, comunque, avrebbe potuto disporre del suo destino e di un avvenire che non dipendesse da un padrone. Cosi dapprima aveva cominciato a sognare di mettersi in salvo, poi aveva sentito parlare dell’America.

    Quel giorno, al fiume, Peppino aveva riconosciuto sul volto del fratello i segni del timore antico. Era stato come vedergli prendere senza reagire un altro sputo in faccia dal figlio di zu’ Nicola con la tristezza di non potervi più porre rimedio.

    Si stava facendo buio e da un pezzo la retina seguiva la via del ritorno. Le cortecce degli alberi erano color della pece e gli ulivi, con i loro tronchi sbilenchi stravolti dalla natura, avevano forme strane e sembianze di mostri terrificanti, all’uno e all’altro lato della strada. Tomasino, Tatonno e Oronzo si erano fatti lasciare alla stazione ad aspettare il treno per Bari, con un saluto pieno di ritegno, così diverso da come Peppino si era immaginato quell’addio. Nemmeno il tempo di farsi una promessa e dirsi le ultime cose, Michele aveva fretta di tornare indietro. Mentre riempiva la bottiglia dell’acqua alla fontanella della stazione aveva detto severo, quasi avesse già avuto il diritto:

    Adesso non cercate di andarvene via tutti, altrimenti a casa non ci rimane più nessuno.

    A lui intanto l’hanno fatto partire aveva risposto Peppino, indicando il treno ancora fermo sui binari.

    Di lui non tenevano necessità.

    Le parole di Michele gli avevano messo tristezza, quasi Tomasino fosse stato respinto e partendo gli avesse lasciato la sua parte di sogni come un peso ingombrante che all’ultimo momento non fosse riuscito a ficcare nella valigia. Questa certezza gli dette voglia di piangere e i rumori del traino lo aiutarono a non farsi sentire.

    Nei pressi di casa sentirono la tromba di Spadacci e lo videro, fermo accanto al suo carro, in cima alla strada, che lanciava il suo richiamo notturno perché gli ultimi pitali fossero lasciati contro al muro.

    Donne solerti dietro le porte socchiuse dei sottani uscirono sulla strada. Con le teste chine per non incontrare altri sguardi poggiavano il priso vicino agli usci, scomparivano prima che l’uomo si avvicinasse per vuotare sul carro municipale quei fetidi vasi.

    Peppino avverti il disgusto di sempre, lo stesso di ogni notte quando sentiva il cigolare delle ruote davanti casa e percepiva il passo di sua madre che si alzava in punta di piedi. La retina girò l’angolo, di nuovo si udì la tromba di Spadacci. Michele tirando le redini sul collo di Morello, soggiunse brusco:

    Domani vieni a faticare. Adesso è meglio che non fai più il vagabondo.

    Poi gli dette appuntamento all’alba, davanti alla Colonna e Peppino entrò in casa, con la stanchezza di sprofondare in un buio senza fondo.

    II

    Peppino sperava di non restare contadino ma la vita in paese ogni giorno gli toglieva speranze. Andava a lavorare in campagna, dovunque lo mandassero, per obbedienza e senza amore, portando a casa ogni soldo quasi avesse voluto pagare più in fretta un riscatto, comprarsi la libertà pezzo a pezzo. Non voleva che la partenza da casa fosse una fuga disperata che trasferisse la miseria da un posto a un altro posto, come succedeva a quelli che emigravano. Contava invece su un distacco dalla famiglia suggerito da eventi destinati a maturarsi col tempo. La prima occasione sarebbe stata quella di andare soldato ma quando aveva parlato di arruolarsi nella Regia Guardia, per non tornare a casa dopo il servizio militare, suo padre gli aveva spaccato la testa con una bastonata. Da allora non aveva più manifestato propositi, rinviandoli dentro di sé alla loro naturale scadenza.

    Si sentiva come un fiore abbandonato su una tomba e il timore di dovervi appassire gli aumentava malumore e disagio. Amava la famiglia ma non riusciva a convincersi che in casa si accontentassero di lottare contro la povertà solo con il pudore, affrontandola serenamente, rassegnandosi alla sorte come a una condanna voluta da Dio. Intuiva che bisognasse cercare una soluzione alla sfortuna, senza che ciò significasse ribellarsi o rifiutare il legame che li teneva tutti uniti, ma non sapeva come meritarsi una vita migliore.

    Aveva frequentato fino alla sesta classe ma fra tutti i fratelli era stato l’unico a piangere quando il padre gli aveva detto che non avrebbe più continuato. La voglia di apprendere gli si era scatenata più violenta, come un impegno a non lasciarsi travolgere, e cercava di saziarla divorando tutto ciò che trovava da leggere, dapprima con rabbia poi con una gioia che si sforzava di custodire nell’intimo.

    I libri li aveva scoperti, nel loro solenne richiamo, a casa del professor Serpieri, una volta che per conto del padre era andato a portare una fuscella di ricotta. Si era incantato a guardarli, uno addosso all’altro, per file e file nello scaffale. All’improvviso era entrato il professore, gli aveva chiesto se voleva leggerne uno. Peppino non aveva saputo rispondere quale, come se prima di invitarlo a una tavola gli avessero domandato in che modo avrebbe preferito sfamarsi. Di fronte a quegli occhi che ardevano Serpieri aveva sorriso mettendogli in mano la storia di Canosa. Da quel giorno non aveva mai smesso di dargliene a prestito, purché non facesse le orecchie alle pagine o ci lasciasse le ditate, così che gli toccava leggerli con cura, lontano da casa, dove non poteva farsi vedere a sprecare la luce. Per lo più si trattava di romanzi, per Peppino contava che fossero libri e si rammaricava di non potere sottolineare tutte le parole che gli piacevano, le frasi che dicevano bene tante cose pensate.

    Quei favori li ricambiava sorvegliando la strada, se per caso arrivavano i carabinieri, quando il professore si incontrava con gli amici nel retro del caffè Giovanni Bovio. Una mattina, però, si distrasse, i carabinieri arrivarono, lui se ne accorse troppo tardi, mentre stavano per entrare al caffè. Di colpo rovesciò un tavolino, si mise a scappare come un ladro e i carabinieri gli andarono dietro. Li fece correre fino all’Ofanto, quelli gli gridavano di fermarsi, tenendosi la bandoliera e imprecando. Sull’argine si fermò tirandosi giù i pantaloni, i due gli arrivarono addosso col fiatone. Un milite lo afferrò per le orecchie, chiedendogli perché fosse scappato. Peppino azzardò a rispondere:

    Mi sono preso la purga e mi teneva da fare un bisogno.

    Buscò un paio di schiaffi ma impedì che i carabinieri facessero la sorpresa al caffè.

    Il giorno stesso il professore, dopo avere ascoltato l’episodio, invece di mettersi a ridere, disse:

    Da questo momento non devi fare più niente. Adesso che ti hanno conosciuto non voglio farti passare un brutto guaio.

    Aveva una cera strana, Peppino era mortificato, come se gli fosse stata tolta la fiducia. Lo zio Michele Ditunno gli aveva detto che il professore giocava d’azzardo, non sapeva quindi spiegarsi perché una persona come lui si esponesse a quel rischio.

    Scusate, ma non potete giocare a casa vostra, con tutte le comodità? Almeno non vi vede nessuno…

    Misteriosamente il professore sorrise, voltò le spalle per scegliere un altro libro sui ripiani.

    Tu non devi preoccuparti disse. Continua a leggere, che è la cosa importante per capire. I libri te li darò lo stesso, fino a quando me li chiederai.

    Soltanto molto tempo dopo, per caso, Peppino seppe che il professor Serpieri era un anarchico e faceva le riunioni con gli amici per parlare male del governo.

    Quei giorni lontani davanti al caffè, l’aria scanzonata con la quale passava in mezzo alle fatiche degli altri, il suo misterioso appartarsi per leggere romanzi, gli avevano lasciato triste fama. In campagna non sempre riusciva a guadagnarsi la giornata. A volte non lo pagavano nemmeno, vedendolo attaccato agli alberi a farsi una scorpacciata di frutta o appiccicato alle donne che sapeva far ridere. Era uno zappa in pizzo e ormai lo prendeva a lavorare solo il cognato Michele. Nessuno si meravigliava che il più giovane dei figli del Salatore fosse un vagabondo, sapevano che era fatto a quel modo, solo gli anni lo avrebbero cambiato. A casa preferivano ignorarlo, era l’ultima ruota del carro, ma Peppino faceva sforzi per apparire uguale ai fratelli e dimostrare di tenere costante il pensiero alla famiglia.

    Una domenica che andava in giro per il paese come un’anima persa, con l’immagine della madre che si asciugava rapida gli occhi con il grembiule, nel gesto che tante volte aveva respinto la stanchezza di non poter tirare più avanti, si sentì chiamare da Giuditta Colasuono, la sorella di Michele, che gli chiedeva di rintracciare il marito. Pensando a un regalo Peppino si mosse di lena, andò al caffè, dove Sabino Malese spendeva il tempo, ma in piazza, fra una risatina e l’altra, gli dissero di cercarlo da donna Leonilde. Era la proprietaria del casino, in fondo alla strada del Rosale. Aveva capelli rossi, la pelle colore del latte, una bocca stretta soffocata da guance abbondanti ma era considerata bellissima perché pesava almeno una ottantina di chili e aveva seni grossi come la testa di un bambino a nove mesi. Donna Leonilde era un personaggio così popolare in paese che col suo nome veniva generalmente indicata, senza alcun riferimento offensivo, qualunque donna potesse vantare un’opulenza simile alla sua.

    Non osando bussare alla porta Peppino rimase a lungo dirimpetto alla casa fino a quando vide scendere Sabino Matese che si stava ancora abbottonando la frachetta. Sabino lo ascoltò infastidito, mise mano alla tasca, cavò una moneta.

    Mi raccomando, io stavo al corso, stai attento a quello che dici. Siamo intesi?

    Se ne andò, Peppino aspettava eccitato, voleva guardare la moneta che gli scottava nel palmo. Ora sapeva come si sarebbe guadagnato i soldi da portare a sua madre.

    Da un pezzo era passata l’ora della Messa a San Sabino, gli uomini col vestito della festa giungevano pigri, varcavano guardinghi l’uscio di donna Leonilde. Peppino nascosto dietro un masso ne attendeva impaziente l’uscita. Affrontò quelli che avevano moglie e a tutti recava frettolosi messaggi, quasi fosse stato mandato apposta a cercarli come era accaduto con Sabino Malese, ne sorprese l’imbarazzato dispetto e fu pagato da ciascuno. Al termine della mattinata dieci soldi gli ballavano in tasca e correva a casa con il cuore leggero. Ma’ Lucia rimestava in cucina, sentì la mano del figlio che affondava nel grembiule, sospettosa recuperò le monete.

    E questi che sono?

    Ho fatto un abbusco disse Peppino.

    Sul volto aveva la gioia, su quello della madre era apparso uno sconcertato stupore. Non ci furono altre parole, era ora di tavola.

    Dopo, il padre lo chiamò nella stanza, ma’ Lucia uscì a testa bassa. Peppino si era illuso che la madre avrebbe taciuto, sotto lo sguardo del padre che voleva sapere gli mancò il coraggio di mentire. Raccontò come si era fatto dare i soldi e nel dire se ne sentiva quasi soddisfatto parendogli di avere giocato bene di astuzia gabbando la cattiva coscienza di chi gli aveva creduto. Il Salatore ascoltò silenzioso, solo alla fine parlò, senza ira, la voce carica di una tristezza delusa.

    I soldi bisogna guadagnarli onestamente, credevo che te lo fossi imparato. Questi te li puoi tenere, perché mi fanno vergogna. Ti sei fatto pagare come un ruffiano.

    Poi tirò fuori le monete dal taschino e le mise in pizzo al comò lasciandolo solo.

    Poche ore erano passate dalla partenza di Tomasino, il sole non era ancora alto, cantavano gli ultimi usignoli. Nel frutteto dei Colasuono, alla Piana, gli uomini avevano ormai spogliato di pere filari interi di alberi. Peppino si aggirava disilluso, una noia stanca gli mozzava le gambe. Il pensiero che Angelina non potesse arrivare gli rese più grave la fatica, gli rivelò un malessere come una ferita senza sangue. Si asciugò con il fazzoletto, sulla fronte aveva tutto il calore di luglio, la cesta gli rimase inerte fra le mani. All’improvviso gli parve di riconoscere la voce, trasalì di emozione, la vide, la figura di Angelina gli apparve contro il sole, gli gelò il sangue. Governava la pariglia di cavalli, le redini strette in pugno, i piedi saldamente piantati sul carro che sfiorava le teste degli uomini chini sulle ceste, accanto ai solchi profondi delle ruote. Il corpo sembrava già quello di una donna, eppure non aveva quindici anni.

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