La tigre e la farfalla
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Tutto quello che avviene entra una volta per sempre nel libro della vita.”
Una famiglia della buona borghesia: l’impossibilità di comunicare tra genitori e figli, i rapporti difficili, gli affetti esasperati dalla gelosia fra i due gemelli Nathan e Lidia e la sorella minore Deah, il colpo di scena del destino, il rapporto vita-parola.
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La tigre e la farfalla - Maria Colonna Filippone
LA TIGRE E LA FARFALLA
Maria Colonna Filippone
EDIZIONI SIMPLE
Via Weiden, 27
62100, Macerata
info@edizionisimple.it / www.edizionisimple.it
ISBN edizione digitale: 978-88-6259-663-3
ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-635-0
Stampato da: WWW.STAMPALIBRI.IT - Book on Demand
Via Weiden, 27 - 62100 Macerata
Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.
Ogni riproduzione anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.
Prima edizione cartacea novembre 2012
Prima edizione digitale novembre 2012
Copyright © Maria Colonna Filippone
Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale
o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.
I
Apparve e scomparve all’improvviso, sopra un cespuglio di biancospino nel minuscolo prato circondato da panchine di cemento in mezzo alle case: un fremito luminoso nel caos incolore della città…
Nathan era in guerra con se stesso da giorni e temeva di andare incontro ad una sconfitta inevitabile.
I medici non gli avevano dato speranze sulla possibile guarigione di Livia, la sua gemella, affetta da una forma gravissima di anoressia e depressione che la stava risucchiando in poche settimane. Era in guerra con se stesso e con la vita, con Dio e con gli uomini. Con se stesso perché non riusciva a trasformare il dolore in amore e a riversarlo su Livia per attenuare la sua sofferenza. Con Dio che gli voleva strappare la parte migliore di sé e della sua anima.
Perché Livia era una cosa sola con la sua anima. Li univa un’armonia profonda nel corpo e nella psiche, un legame così stretto che, visto dal di fuori, poteva sembrare morboso, ma che in realtà era un di dono della natura e, insieme, un’opera d’arte.
Livia stava molto male e nessuno sapeva perché: la sua bellezza, che tante volte Nathan aveva fermato con l’obbiettivo della macchina fotografica, era sfiorita in poco tempo e si temeva che i medici non riuscissero a guarirla. L’avrebbero portata via e tutto di lei si sarebbe trasformato in una fiamma, poi più nulla. Sarebbe scivolata chissà dove, delicatamente com’era vissuta. Nathan non avrebbe più potuto vedere i passi di danza che lei improvvisava per gioco, non l’avrebbe più presa per mano per correre con lei sulla spiaggia. Quale segreta sofferenza aveva fatto il nido nell’anima di Livia? Perché, quando Nathan cercava qualche risposta, lei restava in un silenzio impenetrabile? Questi pensieri gravavano sulla mente del giovane impedendogli qualunque direzione lo allontanasse dal ricordo del fragile corpo di sua sorella rannicchiato nel letto di un ospedale e vegliato dai genitori pietrificati per il dolore.
Prima della malattia di Livia i Landolfi erano una famiglia quasi unita e quasi felice. Ma quel quasi
comprende il vuoto di valori che sta devastando la famiglia e la società in Italia e in occidente, i violenti contrasti di Nathan con il padre per la sua scelta irreversibile del mestiere (come lo chiamava lui) di fotografo e la sua conseguente rinuncia al posto di consulente legale di una grande società di informatica. Per la conquista di quel posto suo padre, Consigliere di amministrazione della società, negli anni precedenti lo aveva costretto a prendere la laurea in legge con relativo master in America per l’informatica: non poteva immaginare che, durante il master in America, il figlio si sarebbe invaghito di una giovane attrice irlandese che sbarcava il lunario facendo la cameriera in un fast food: e neppure che, a furia di incontrarla e fotografarla nuda e vestita e di correrle dietro per riprendere ogni sua mossa sguardo e gesto, si sarebbe innamorato più del suo mestiere di fotografo che dei seni di Inge e della sua chioma di fuoco e l’avrebbe accompagnata in Irlanda soprattutto per fotografare lei nella sua terra, lasciando l’America e il master a metà. Per la fotografia Nathan aveva sempre avuto una vera e propria passione e, se trovava un soggetto interessante, lo inseguiva e tentava e di catturarlo con l’obbiettivo perché non si perdesse nel fiume incolore delle sequenze quotidiane. Inge si accorse che ormai Nathan era attratto non da lei, ma delle foto che lei gli permetteva di fare e allora lo piantò in asso per tornare con il suo vecchio amore, Christopher, figlio del proprietario di un’antica birreria ad Arklow, sulla costa orientale irlandese.
Quando Nathan tornò in Italia e disse decisamente al padre, l’ingegner Landolfi, che non sarebbe stato il più giovane consigliere legale della sua società, l’ex amico di Craxi, indifferente alle lacrime della moglie e di Livia, aprì la porta di casa e intimò al figlio di seguire la strada che aveva scelto, ma di non farsi più vedere finché non avesse dimostrato le sue capacità di imprenditore, avviando uno studio fotografico con le proprie risorse personali. Da allora, con le proprie risorse personali, Nathan era riuscito ad affittare uno scantinato in una casa dell’antica Genova e a dipingerlo di bianco, i tubi esterni dell’acqua azzurri e di un bel rosso lacca, stile Blow-up di Antonioni, lo scaffale dei materiali e copie ingrandite delle foto migliori. Un tavolo, un divano-letto per dormire, una piccola finestra orizzontale, una tenda per la camera oscura (anche se, quasi non ce n’era bisogno), due sedie e un paio di computer con l’archivio elettronico delle opere. Tutto questo, vedere la gemella quasi ogni giorno e passeggiare insieme, asciugare le lacrime della madre che, ad ogni sua visita piangeva di gioia e poi fotografare, liberamente fotografare tutto quello che colpiva la sua fantasia: cosa avrebbe dovuto desiderare di più per essere felice? Ma gli dei invidiano la felicità degli uomini.
Il padre ebbe un ictus che lo immobilizzò su una sua poltrona dietro la scrivania e un anno dopo l’amata gemella si ammalò. Leggiamo direttamente sul diario di Nathan:
Mi hanno sempre detto che ho un carattere ribelle e che sono un tipo allegro, ma non è più così. Dopo la malattia di mio padre e quella terribile di Livia, oggi sono diventato una persona riflessiva e, soprattutto, infelice. La rabbia verso mio padre si dissolve in tenerezza quando i suoi occhi umidi mi guardano mentre non riesce più a pronunziare il mio nome. E poi Livia, la mia alter ego, la dolcissima metà della mia anima, vederla sfiorire così, le guance impallidirsi di ora in ora, il sorriso appena accennato e denso di nostalgie! Sembra che viva in un’altra dimensione o meglio che lentamente si stia spegnendo a questo mondo. La abbraccio, nella speranza che un po’ della mia vita scivoli nella sua. E lì per lì sembra che questo accada. Lei sorride con gli occhi, non più soltanto con la bocca. Mi accarezza il viso, mi stringe la mano e, quando la sente gelata e sudata Ma tu non stai bene, Nathan. Prenditi qualche giorno al mare, vai a Santa Margherita con Dario e tuffatevi anche per me!
Dario è il nostro migliore amico. Fa il pilota di aerei da turismo e i suoi hanno una villa a Santa Margherita proprio vicino alla nostra.
Arriva mia madre e la sua angoscia spaventa Livia.
Mamma, non fare così, io guarirò, te lo prometto!
e mia madre, in mezzo alle lacrime che non riesce mai a trattenere,
Sì, lo so, guarirai. Ma non posso vederti in questo letto
Mamma, per favore, lasciaci soli. Non vedi che la mia gemellina vuole giocare a carte?
Niente da fare, mia madre non se ne va e Livia torna ad accasciarsi sul cuscino, pallida come prima del mio abbraccio. Soffre per due, non sopporta il pianto di mia madre perché sa che lei sa e crede che Livia non sappia. Sarebbe meglio che mia madre fosse all’oscuro di tutto e che si limitasse a tenere stretta la mano di Livia raccontandole del nostro Plugh.
Plugh è un dalmata di quattro mesi molto simpatico e capace di mettere in disordine una casa in meno di tre minuti. E’ diventato il miglior amico di mio padre e lo segue paziente quando la badante rumena lo accompagna per la passeggiata. Mio padre, cosa strana perché non ha mai amato gli animali, sorride sempre e solo a Plugh, perché gli fa festa e lo divertono i suoi disordini confusionari di cucciolo affettuoso.
In famiglia c’è anche mio fratello maggiore Alberto, la consolazione dei miei genitori: adesso è in Svezia, per partecipare ad un Convegno su Diritto internazionale e trasformazioni sociali
.
Alberto, al contrario di me, ha sempre dato a mio padre e a mia madre tutte le soddisfazioni di cui avevano bisogno. Ha la testa sulle spalle e i piedi per terra, invece io ho la testa nelle nuvole e i piedi non si sa dove, in fondo mi piace allontanarmi continuamente da tutto e da tutti.
A completare il quadro, la più indifferente a tutto e a tutti: Deah, la piccola di casa
, viziata in modo smisurato da mio padre che le avrebbe dato anche l’anima e le ha permesso di lasciare la scuola e di andare a vivere da sola lontano da Genova quando era ancora minorenne, dotandola di un assegno mensile e mettendole a disposizione una modernissima casetta-bunker a due livelli, grigia fuori e bianca dentro, in riva al mare nella zona dell’Argentario, perché è lì che abita d’estate Ludovica detta Ludo, la migliore amica di Deah: poca sabbia, sassi, molta roccia, vegetazione mediterranea battuta dal vento. Deah non si preoccupa che di se stessa, va in discoteca, ha moltissimi amici e ci viene a trovare ogni tanto per chiedere denaro liquido e comprare scarpe e vestiti. Sembra ignorare la malattia della sorella, è una piccola belva straordinariamente bella e crudele.
Insomma, è questa la mia famiglia.
Ricordare mi ha fatto bene, ma adesso c’è di nuovo la prova più grande e non ce la faccio ad affrontarla, improvvisamente sono come sempre e più che mai un viandante senza direzione, spero soltanto di trovare una strada qualunque che mi porti dove non so. Meglio non sapere, non vedere anche meglio non ricordare più, non…
Non aveva letto il giornale, Nathan e non sapeva che giorno fosse quella mattina: per lui una fra tante, tutte uguali e senza una meta da raggiungere. Quella mattina la sua città, di solito percorsa da flussi di turisti e abbracciata dai movimenti del vento, per la partecipazione al G8 dei Grandi della terra
era sotto assedio proprio come lui, le serrande dei negozi sbarrate, le finestre delle case e i portoni chiusi, perfino il vento s’era fermato ed erano poche le persone che osavano affacciarsi. Blocchi stradali e barriere di metallo impedivano l’accesso alla zona rossa e la polizia con elmetti e bastoni era schierata ai lati delle strade e pronta a colpire. Anche molti giovani al di qua delle barriere avevano il volto minaccioso, le mani pronte a colpire.
Quella mattina I piccoli e i grandi della terra
erano schierati gli uni contro gli altri non tanto da opposte ideologie quanto dalle forze dell’odio.
Nathan si trovava lì per sfuggire alla sua disperazione ma, quando scoppiò la guerriglia urbana, in cui la sua guerra interiore si trovò prigioniera e moltiplicata, al culmine percepito della violenza non riuscì a sopportare tanto male dentro e fuori di sé e si rifugiò nel cortile di un palazzo attiguo alla zona rossa
. Per fortuna un portone sconosciuto si era aperto all’improvviso per far uscire un giovane, far entrare Nathan e richiudersi fulmineamente alle sue spalle.
Il palazzo antico, forse per via della situazione calda
in città, sembrava disabitato e, in più, la pesantezza del portone rendeva quello spazio chiuso e assordante di silenzio. Un silenzio percorso dal rumore dell’acqua che scorreva da una fontana di pietra rotonda al centro del cortile, adorno di piante rampicanti, alcune verdi, altre fiorite di campanule di un rarissimo azzurro. Quel cambiamento improvviso di scenario sradicò Nathan da se stesso. Guardò in alto: il cielo, sfrangiato da piccole nuvole, a sua volta era di un azzurro surreale, sembrava un mare rovesciato. Allora un pensiero nuovo si impossessò della mente di Nathan: forse quella guerra in lui e fuori di lui lo avrebbe condotto ad esplorare territori sconosciuti dove, non sapeva quando né come, avrebbe trovato finalmente la pace.
Ma come abbandonare la famiglia e Livia, precipitate in quelle condizioni disastrose? Rifugiarsi all’Argentario, raggiungere Deah, condividere la sua indifferenza?
Non poteva farlo. Non poteva andare da nessuna parte, ma non poteva neppure restare. Chiuso nella morsa dell’angoscia, chiamò suo fratello Alberto al cellulare.
Torna presto Alberto, torna, la famiglia ha bisogno di te. Anche io ho bisogno di te
Ah, sei tu Nathan? Come sta Livia?
Male, malissimo, ti ho detto che abbiamo tutti bisogno di te!
Suo fratello era meno freddo del solito, aveva un’incrinatura nella voce.
Oggi pomeriggio prendo l’aereo e sono da voi. A te serve una pausa
Nathan era sbalordito.
Alberto non rinunziava mai ad un incontro di lavoro. Qualcosa stava davvero cambiando nella famiglia Landolfi? Era forse possibile guardare alla sofferenza di Livia con occhi diversi e perfino dare un senso a tanto dolore? Al momento Nathan non sapeva, ma in seguito avrebbe cominciato a capire, a vedere tutto all’interno di un disegno che non escludeva neppure un piccolo particolare di quelle giornate incandescenti.
Allora gli sembrò di sentire la voce di sua sorella scandire parole che non era capace di decifrare. Riuscì ad afferrare soltanto, da quella voce delicata che s’intrecciava al suono dell’acqua, una melodia che gli ricordava qualcosa di molto intimo sepolto nella memoria, una notte serena d’estate o una festa dell’adolescenza.
Ma ci doveva essere altro nelle parole, distanti ormai, che Livia gli aveva sussurrato la sera prima. Purtroppo non era riuscito a comprendere il messaggio che forse lei gli voleva trasmettere: appena il clima in città si fosse normalizzato, sarebbe tornato su quelle parole per decifrarlo.
Nello spazio chiuso del cortile si sentiva protetto, non poteva però mettere lì la sua tenda, doveva tornare nel mondo, andare avanti. Perlustrò le varie possibilità di uscita: una dava alla scala di marmo dell’ingresso principale, i gradini coperti da una moquette rossa. Un’altra uscita conduceva