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Le Colline Oscure epub
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Le Colline Oscure epub

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About this ebook

Un antico manoscritto che parla delle vicende oscure della Sindone, dal Sacco di Costantinopoli nel 1204 alla sua ricomparsa in Francia dopo la metà del secolo successivo. Si può uccidere solo per questo, o vi è molto di più? Qualcosa che, magari, potrebbe addirittura far riscrivere la storia come noi la conosciamo?

E lo sappiamo solo da una testimonianza anonima fatta ritrovare in una chiesa isolata di campagna. Una vicenda avvincente che si snoda fra Firenze e la Toscana più profonda e magica. Un crescendo di colpi di scena alla scoperta di un mondo sotterraneo ed arcano nascosto nel paesaggio apparentemente idilliaco e rassicurante di una terra dove nulla è ciò che appare a prima vista.

Fatti inspiegabili, strani suicidi, entità che agiscono nell’ombra, vicende antichissime e dimenticate che riemergono nella loro attualità, eventi terribili che incombono. La ricerca di una verità incredibile, una conoscenza che non può che essere sconvolgente.
LanguageItaliano
PublisherClaudio Aita
Release dateAug 20, 2015
ISBN9786050406917
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    Le Colline Oscure epub - Claudio Aita

    Capitolo I

    Nihil autem opertum est quod non reveletur

    neque absconditum quod non sciatur

    Non vi è nulla di coperto che non verrà svelato

    nulla di nascosto che non sarà conosciuto

    (Luca 12,2)

    Come posso spiegare? Personalmente, ho sempre avuto un debole per la Toscana, per la rassicurante dolcezza che promana dai suoi paesaggi fatti di colline verdeggianti di olivi. Onde di terra sulle quali si infilzano le torri arcigne di manieri antichi o i campanili romanici di pievi solitarie appena celate allo sguardo da schiere di cupi cipressi. Mentre, solo poco più in là, al culmine delle prospettive geometriche dei vigneti, sonnecchiano le case coloniche con le loro facciate in pietra che si infiammano nel sole agonizzante della sera.

    Lo confesso, quasi stessi ammettendo un delitto: ho amato, con l’incolpevole ingenuità di un bambino, queste immagini, che sanno forse un po’ troppo di cartolina, ma che ho continuamente accarezzato e ricercato, quasi si trattasse di uno strumento per soddisfare un bisogno fisiologico ed irrinunciabile. Visioni, per quel che mi riguarda, sempre coinvolgenti; sufficienti, ogni volta, a far scattare una molla, un meccanismo celato nel profondo di un animo come il mio, che pareva quasi non attendesse altro. Passeggiare, girovagare, smarrirmi in questa sorta di giardino incantato e primigenio è sempre equivalso, per un solitario come me, a respirare a pieni polmoni quella pace e quell’armonia che non poteva non regnare nell’universo.

    Un assaggio di paradiso benignamente concesso soltanto a chi, come il sottoscritto, era riuscito a rinvenire uno spicchio di Eden nelle ruvide pieghe di questo nostro misero mondo. Un premio che poteva arridere soltanto a chi aveva saputo cercare con meritevole perseveranza.

    Ma ora so che, in verità, si trattava soltanto di un sogno, di una mera illusione durata fino a poco, pochissimo tempo fa. Fino a quando, cioè, questo luogo di beatitudini si è rivelato per quello che effettivamente era: un’inquietante anticamera delle più oscure profondità infernali. Una scoperta che per me è equivalsa alla perdita di una purezza virginale, ad un evento traumatico senza alcuna possibilità di riscatto o redenzione. Come posso tornare indietro, poi, se tutto mi appare ormai divelto, lacerato nel profondo, violentato, abbattuto, sradicato da una tempesta improvvisa e devastante? No, d’ora innanzi, niente potrà essere più lo stesso. Per il semplice e terribile fatto che ora io so! Perché ora ho preso piena coscienza, mio malgrado, di ciò che costituisce la realtà più autentica di quello che  i ha sempre circondato, per quanto ciò possa apparire inconcepibile e assurdo. Perché ora sono perfettamente consapevole di cosa si nasconde in effetti dietro l’ipocrita volto di una terra all’apparenza meravigliosa; e di quali osceni ed inenarrabili abissi si possono scoprire grattando appena quella sua patina scintillante da Disneyland consumata quotidianamente da orde di turisti provenienti dai quattro angoli del pianeta.

    Ora so, lo ripeto. So tutto! Ma l’atto stesso del conoscere costituisce di per sé una maledizione senza alcuna possibilità di appello. Lo affermo con la consapevolezza più piena, e rimpiango allo stesso tempo, amaramente, le mie dolci illusioni di solo poco, pochissimo tempo fa. Mentre ora, ogni qual volta ripenso a quei dolci rilievi, ai borghi partoriti dal Medioevo, a quei grumi di case di pietra che fino a pochi giorni fa riuscivano a riscaldarmi il cuore nei momenti di difficoltà, a quei vasti panorami che percepivo come complici delle mie scorribande solitarie, mi assale ormai un fremito di autentico orrore, sento raggelarmi il sangue, accelerare il battito cardiaco, tremare le vene e i polsi.

    Mi ritrovo così, dopo una vita nella quale ho sempre negato, senza esitazioni, l’esistenza razionale di una qualsiasi entità superiore e ad apostrofare come ridicole superstizioni le pratiche religiose, ad invocare disperatamente il nome di Dio e la sua protezione. Perché la mia mente sconvolta ha ormai le prove inconfutabili che non si trattava affatto di sciocchezze da donnicciole odoranti di sacrestia.

    No, affatto, nella maniera più assoluta! Tutto corrisponde, invece, a verità, per quanto assurdo ciò possa apparire a prima vista. Ma quel Dio al quale mi rivolgo con insistenza, lontano e terribile più che mai, non mi ascolta e non intende, temo, perdonarmi. Resta immobile e lontano, ostinatamente sordo al grido disperato di un uomo ormai abbandonato ed evitato da tutti.

    Chissà. Sarà forse anche per questo, per la mancanza di qualsiasi interlocutore, di qualsiasi persona disposta ad ascoltarmi, che mi accingo a narrare in queste pagine i terribili ed inauditi eventi che hanno segnato indelebilmente, minandola nel profondo, la mia vicenda terrena. Sperando soltanto che il tempo che mi è concesso possa risultare sufficiente allo scopo. Un impulso naturale, quindi, ma anche una necessità irrefrenabile. Un tentativo per attenuare l’insostenibile tensione di questo momento, mentre fuori tutto è buio e i miei sensi sono tesi fino allo spasimo a percepire nelle tenebre il minimo segno rivelatore dei miei inseguitori.

    Forse, però, mi trovo a scrivere queste righe anche e soprattutto per il bisogno di far sì che la verità, per quanto sconvolgente ed orribile possa essere, non vada perduta nel caso, sciagurato ma non improbabile, che io venga ucciso. Ma, per Dio!, se qualcuno, in qualche modo, verrà in possesso di questo manoscritto maledetto, potrà mai credere a quello che vi è contenuto? Potrà mai dare fede ad affermazioni che possono apparire le farneticazioni di un folle?

    Un altro dubbio, ancora più atroce mi assale con prepotente insistenza: sarà davvero il caso che qualcun altro venga messo a conoscenza degli arcani segreti che questa terra custodisce da tempo immemorabile? Non vi è il pericolo che il risultato di tutta la mia fatica possa finire, alla fine, proprio nelle mani sbagliate? O che possa creare altro infinito dolore? Davvero, non lo so. Così come, dopo tutte le vicende di questi giorni, non sono più in grado di determinare cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Posso solo affidarmi, con umiltà, alle mani di Dio, nella flebile speranza che possano tramutarsi da terribili e punitrici in paterne e dispensatrici di misericordia. Convinto, come sono, che, alla fine, si realizzerà ciò che la sua volontà, o semplicemente il fato impietoso, avrà stabilito. Ma il tempo sta per scadere. Tutto, ormai, è compiuto.

    Anche per questo, ti scongiuro, improbabile lettore di queste pagine, non ti limitare alla prima, superficiale impressione. Non ti fermare, non giudicare frettolosamente quello che vi troverai scritto, anche se ciò ti risulterà assai difficoltoso ed indigesto, me ne rendo conto. Se saprai scrutare queste pagine con cuore sincero e sgombro da pregiudizi, ti convincerai che esse racchiudono una terribile e oscura verità. Ma stai attento! Non farti scoprire dalle terribili forze che agiscono nelle tenebre. Non rivelare mai ciò che sai. Non ne immagini le conseguenze.

    E tu, mio Dio, fa che tutto questo, tutta l’infinita sofferenza di questi giorni, abbia, alla fine un senso. Se un senso, tutto questo mai potrà avere.

    Sono rimasto solo. Rifugiato come un malfattore o un clandestino in un decrepito edificio addossato ad una chiesetta isolata nel deserto della campagna che si stende fra Castelfiorentino e Certaldo. So per certo che non vi abita nessuno e che la pieve non viene officiata se non la domenica mattina, per l’unica messa settimanale. In ogni altro giorno la porta dovrebbe rimanere sbarrata. Ho quindi la prospettiva di avere dinnanzi a me almeno qualche ora di relativa tranquillità. Magari un’intera notte. Sono stanco, estremamente provato nel fisico e nello spirito. Scrivo con fatica alla flebile e tremolante luce di una candela che ho preso in chiesa. La piccola finestra della stanza nella quale mi trovo dà sulla vallata, dalla parte opposta rispetto alla strada bianca e polverosa che ho percorso a piedi: non c’è il pericolo che questo fievolissimo lume, che per giunta tengo coperto, possa venire notato. Non mi ricordo più da quanto tempo, ormai, non mangio. Sarà forse a causa dell’insopportabile tensione nervosa, ma non sento quasi più i morsi della fame.

    Davanti a me, adagiata delicatamente sul tavolo, la foto sgualcita di mio figlio. Dio mio, quanto mi manca! E quanto mi manca Anna... Di lei, me ne accorgo solo ora, non possiedo nemmeno un’immagine, solo ricordi tristi che si rincorrono impietosi nella penombra a disegnare il suo viso. Già, quegli occhi azzurri e profondi come un mare ormai troppo lontano e che non potrò rivedere mai più.

    Eccomi qui, quindi, con l’unica compagnia del mio dolore e orfano ormai di qualsiasi speranza. Disperato, ma tuttavia ben deciso a non arrendermi e a giocare le poche carte che ancora mi restano. Sono pienamente consapevole che la posta in gioco è troppo importante e mi sento schiacciare dall’enormità della mia responsabilità.

    Finora ho dato prova della mia abilità, devo ammetterlo. Sono stato attento, molto attento. Niente automobile, niente carta di credito, niente telefono cellulare, niente computer, niente rete. Insomma, non ho lasciato alcun indizio. Non riesco davvero ad immaginare come possano riuscire a rintracciarmi. Eppure so che non devo sottovalutarli. Non posso abbassare la guardia, nemmeno per un istante, a rischio della mia vita e a discapito di qualcosa di molto più importante.

    Loro dispongono di infiniti mezzi ed hanno occhi ed orecchie ovunque. Me l’hanno già dimostrato in innumerevoli occasioni. Devo essere circospetto, oltre ogni limite. Anche per questo ho rinunciato al mio computer portatile. Il che, per uno come me che di tali trabiccoli è sempre vissuto, rappresenta una delle rinunce più costose.

    Meglio, la vecchia, cara, candida carta e l’anima nera di una penna. Così, ben oltre il Duemila, eccomi qui, chino alla tremolante fiamma di candele d’altri tempi, a riempire fogli e fogli di testo. Solo ora mi rendo conto di quanto l’uso del computer mi abbia disabituato alla scrittura. Faccio fatica, i caratteri mi vengono storpiati e disomogenei. Ma non dispongo di altri mezzi. Spero solo che la carta sia sufficiente.

    Al momento non so ancora a chi lasciare questo manoscritto e dove, soprattutto, nasconderlo, nel caso venissi scoperto. Ci ho riflettuto parecchio. Il primo luogo che mi è venuto in mente è il vano del tabernacolo, dove di solito si ripongono le ostie. Penso anche di aver capito dove sia nascosta la chiave della porticina dorata. Sono certo che Iddio mi perdonerà per questa profanazione, compiuta senza malignità alcuna, ma credo che al momento non contenga ostie consacrate. Da quel che so, di solito si evita di lasciarle nelle chiese più isolate, anche per evitare che vengano sottratte da qualche invasato per condire le proprie messe nere e la propria voglia di scopare. Ci penserò. Di sicuro, il tabernacolo verrà aperto la domenica mattina. Potrei così, con ragionevole sicurezza, contare sulla circostanza che il manoscritto verrà scoperto da un sacerdote, quindi presumibilmente da qualcuno in grado di recepire meglio di altri il messaggio che vi è contenuto. Se il comune Signore lo vorrà, ovviamente.

    Ma non posso perdermi ad investigare la mente divina. Non posso sprecare altro tempo. La notte è fonda, il tempo stringe e il freddo diventa sempre più pungente. E questa notte, scura come l’inchiostro che compone queste parole, potrebbe essere l’ultima della mia vita.

    [ndr: Il manoscritto originale, a questo punto, presenta un salto intenzionale di alcune righe]

    Tutto iniziò… No, meglio procedere per gradi, senza tralasciare nulla.

    Il mio nome non ha importanza e forse è meglio, per il bene di molte persone, che non si venga mai a sapere. Posso solo dire che, ormai tanti anni fa, mi trasferii in Toscana, per l’esattezza a Firenze, per seguire (e quale luogo poteva essere più appropriato?) i corsi universitari di materie storiche e laurearmi brillantemente con una tesi in Storia medievale. Allora, preso dall’euforia giovanile e dalla speranza in un futuro che mi appariva più che mai radioso, come è sempre il cielo che sovrasta questa terra, non potevo davvero immaginare che si trattava semplicemente del primo tassello di un percorso già segnato che, come una macina da mulino impazzita, avrebbe alla fine mandato in frantumi la mia esistenza e tutto il mio essere.

    Eppure solo il cielo sa quanto abbia lottato, in quale misura abbia desiderato quella laurea che avevo ormai caricato di tali significati simbolici sino a farne una sorta di mezzo di riscatto, un veicolo di promozione sociale e di catarsi personale. Quanta fatica, quanti sacrifici protratti per anni e anni. Figlio di nessuno e senza numi tutelari, costretto a svolgere lavori di merda per sopravvivere, con il solo risultato di essere costretto ad allungare la durata dell’Università. Mentre gli altri, i miei compagni, mi passavano avanti, negli studi come nella vita, figli di qualcuno e che venivano valutati con più favore per aver terminato il loro percorso di studi prima di me. E che si erano, nel frattempo, pienamente goduti la loro vita, la loro giovinezza, i festini, le bevute, le scopate.

    Io no. A me tutto questo non era concesso. Costretto dalle circostanze ad un’esistenza frugale ed estremamente stancante fatta di studio, lavoro, brevi periodi di sonno, impossibilità di frequentare gran parte dei corsi universitari, vedevo, nonostante i miei sforzi, dilatarsi inesorabilmente i tempi. Con l’unico risultato di essere obbligato a rimandare continuamente la realizzazione dei miei sogni, la mia mitica età dell’oro, ad un futuro sempre più indefinito e lontano. Mentre, al presente, procedevo imperterrito sulla mia strada, stringendo con rabbia i denti, convinto che, alla fin fine, la vita doveva pur sorridermi.

    Tutti questi sforzi, non potevano che costituire una cambiale che sarebbe stata incassata, prima o poi. Il lavoro paga sempre. Questo mi ripetevo, per motivarmi e giustificare i sacrifici del presente. Così riuscii, seppur in ritardo, a laurearmi con il massimo dei voti. Doveva pur valere qualcosa, quel maledetto pezzo di carta! La dea bendata, fino ad allora sempre latitante, o semplicemente troppo indaffarata a rincorrere individui con ben altre genealogie, doveva pur accorgersi del semplice e inequivocabile fatto che il sottoscritto esisteva.

    Purtroppo, come dovetti presto constatare, nell’affanno quotidiano non vi sono cambiali da riscuotere ed in quel tritacarne che è la vita non vi è giustizia alcuna, se non per i ricchi ed i potenti. Non avevo compreso che nella realtà, e in questo misero paese in particolare, il duro lavoro non conta nulla. Nulla, soprattutto, rispetto ad un genitore ben introdotto, con le conoscenze giuste, ben inserito in un sistema che tutto controlla e che a te non fa altro che sbatterti le

    porte in faccia. Così, i proclami, gli appelli ad un futuro migliore, alla speranza, me li ripetevo con sempre minore convinzione. Anche la fede in un destino glorioso, alla fine, era crollata miseramente sotto i colpi inferti da una realtà assai più spietata di quanto avessi mai preventivato.

    Il tempo passava ed io mi sentivo sempre più stanco e disilluso. Stanco, soprattutto di vivere di ristrettezze economiche e di lavori saltuari e, troppo spesso, malpagati. Avevo sempre più la sensazione di essere stato tradito, anche se non sapevo esattamente da chi. Comprendevo, alla fine, di aver sacrificato l’intera mia esistenza all’inseguimento di un’occasione che non si era mai presentata. O che, forse, non avevo saputo cercare, intento, com’ero, ad aspettare il mio Godot.

    Una situazione che si era trascinata insoluta per tanti, troppi anni. Trasformandosi, alla fine, in un naufragio che aveva finito per coinvolgere anche la donna che nel frattempo avevo sposato, la quale, al termine di tutto, se n’era andata lontano portandosi via nostro figlio. Un evento divenuto ormai inevitabile, per quanto penoso.

    Quando ci ripenso, soprattutto adesso, mi rendo conto di quanto non avessi messo particolare impegno o convinzione nel cercare di fermarla. A quale scopo poi? Da tempo eravamo diventati degli estranei e lei era ormai definitivamente cambiata, come accade sempre alle mogli nel corso degli anni.Certe volte mi ritrovavo ad osservarla, a sua insaputa, chiedendomi che rapporto ci potesse mai essere fra quella creatura aliena, quell’ectoplasma che si materializzava in quel momento, lì, dinnanzi ai miei occhi e la ragazza che avevo conosciuto non molti anni prima e della quale, almeno così ritenevo, mi ero innamorato. Mi chiedevo, per l’ennesima volta, cosa mai avesse potuto attirarmi di quell’essere,

    quali particolarità fisiche o qualità mi avessero, in fin dei conti, ammaliato. Ma non riuscivo più a darmi una risposta convincente.

    Pareva quasi che la patina del tempo, la polvere depositata dalle stagioni che si succedevano impietose avessero reso ogni cosa così opaca e triste. Tutto era, lentamente, in maniera quasi impercettibile, franato, scivolando pian piano verso la più squallida abitudine. Il nostro rapporto stava crollando con molta discrezione, corroso da un tarlo, un cancro inarrestabile e fatale. Sgretolandosi come le Balze di Volterra e, come queste, divorato dallo scorrere silenzioso e

    implacabile delle acque sotterranee. Strano che questa sia la prima immagine che mi viene in mente; ma chi a Volterra c’è stato, comprenderebbe immediatamente il paragone con la splendida e impressionante desolazione delle Balze che precipitano nel vuoto, avanzando inarrestabili e in silenzio da tempo immemorabile, divorando necropoli millenarie, antiche chiese in pietra, brandelli di mura ciclopiche. Uno spettacolo terribile e grandioso che mi ha sempre affascinato. Un ricordo indelebilmente scolpito nella mia memoria, il mio corpo ritto in piedi sul bordo del precipizio, sospeso fra l’eternità e la distruzione, mentre un vento insolente mi scompaginava i capelli e si insinuava indiscreto fra le vesti. Portando con sé i sapori del panorama infinito che si presentava dinnanzi agli occhi e la salsedine del mare che si percepiva, invisibile, appena dietro l’orizzonte.

    Sì, il paragone mi pare calzi a pennello. Ma non divaghiamo.

    Il nostro matrimonio agonizzava, quindi, o era già morto da tempo. Eppure io non me ne accorgevo, o fingevo di non rendermene conto, proiettato com’ero a rincorrere le mie chimere con una tenacia che lo scorrere del tempo riusciva solo a temprare ulteriormente. Ormai eravamo divenuti degli estranei, e il nostro rapporto una tolleranza reciproca condita da un affetto sempre più formale, da frasi di circostanza, da effusioni sempre più rarefatte. La nascita di un figlio aveva soltanto potuto interrompere temporaneamente il flusso inarrestabile degli eventi.

    Alla fine, lei se n’era andata, come in uno squallido spettacolo da cinema di periferia. Probabilmente era stato meglio così. Soprattutto per lei, che almeno ora poteva concedersi quella vita (normale, come amava rinfacciarmi) che io non avevo potuto o voluto donarle. E permettersi finalmente l’ambito tour domenicale dello shopping e degli outlet, a braccetto del suo nuovo e più omologato compagno. Per poi frequentare le agognate serate danzanti nello scintillio artificioso e ipocrita di qualche circolo di periferia: un, due, tre… un, due, tre…

    Magari sdraiarsi all’ombra indiscreta di un anonimo ombrellone conficcato nella sabbia rovente di una altrettanto anonima spiaggia inondata dal solleone estivo; fra il volume maleducato delle radio e gli schizzi di sabbia sollevati dai bambini che corrono verso il mare, che ti si attacca alla pelle resa appiccicosa dal sudore e dalla crema abbronzante.

    No, di tutto questo, e lo ammetto con ieratica tranquillità, non me n’era mai fregato niente. Assolutamente niente. Così come non mi è mai importato più di tanto, me ne accorgo forse soltanto ora, cercare di frenare la deriva del mio matrimonio. Meglio arrendersi all’evidenza e constatare che la situazione non presentava più vie d’uscita

    Si trattava sostanzialmente di un malato divorato da una malattia incurabile. Era solo questione di tempo: un mese, tre mesi, forse un anno, chissà... Poi non sarebbe stato possibile far altro che constatarne il decesso. L’accanirsi, in queste situazioni, rasenta l’immoralità.

    E poi, in cuor mio, forse non vedevo l’ora di vederne la fine.

    Inutile chiedersi di chi fosse la colpa, se colpa può esserci in un rapporto sbagliato fin dal suo nascere. Si era trattato, in definitiva, soltanto di un grande, doloroso equivoco. Come tutta la mia mediocre, misera esistenza.

    Che altro dire? In questi anni sono vissuto in una solitudine dignitosa, addirittura eroica. Pochi, pochissimi soldi, frutto di collaborazioni saltuarie, di lezioni private e poco più. I contributi pensionistici, le assicurazioni sanitarie potevano attendere. Tante, troppe le promesse. Alcune interessate, false, ipocrite. Altre più sincere, come quella di Ezio, il libraio antiquario con il suo negozio in centro, il quale mi comunicò un giorno di volermi assumere perché gli interessavano le competenze che avevo potuto acquisire nel settore dei libri antichi, ma che non riuscì, suo malgrado, a farlo. Problemi di bilancio, le tasse, le leggi sbagliate emanate dal governo, queste, secondo lui, le motivazioni… Tuttavia, da allora in poi, forse anche per mettere a tacere i suoi sensi di colpa, Ezio non aveva mai mancato di farmi avere qualche lavoretto, magari pagato sottobanco.

    La situazione non era certamente il massimo per uno che, come il sottoscritto, aveva ormai superato abbondantemente la soglia della quarantina. Eppure, assieme alle lezioni private, a qualche collaborazione editoriale, mi permetteva di tirare avanti senza eccessivi problemi. Seppur permettendomi soltanto una vita frugale, stoica, quasi benedettina. Una miseria discreta, quindi, una precarietà che si riflette negli oggetti che mi circondano. Non possiedo quasi nulla che non rechi il segno di una rottura, di un graffio, di qualche accidente fisico.

    Come la mia auto, sgangherata fino all’inverosimile, regolarmente guasta e che, purtroppo, non ho i mezzi economici per sostituire.

    Un grazie di cuore, quindi, anche a Ezio e al suo negozio di antiquariato librario. Dove l’incubo ebbe inizio.

    Capitolo II

    Il ricordo di quella sera è ancora impresso nella mia mente. Indelebile come un profondo graffio nella pelle. Un mercoledì di soli pochi giorni fa. Eppure, mi pare sia trascorso un tempo infinito. Nella memoria rivedo l’immagine di me stesso, mentre passeggiavo nervosamente, avanti e indietro, nella stanza che costituisce gran parte di quello che mi ostino a definire appartamento; svuotando, un bicchiere alla volta, la bottiglia che campeggiava sul tavolo, fra le pile dei libri e i resti della cena. Un chianti corposo, me lo rammento ancora, dal sapore morbido e dai riflessi color rubino. Insomma, un vinello come piace a me, che senti scendere in gola senza bruciarti, mentre una piacevole sensazione di calore e di torpore si irradia in tutto il corpo, intontendoti con discrezione e signorilità. Un vino sicuramente non eccezionale, pochi euro alla bottiglia, ma che costituiva ormai uno dei pochi vizi che potevo concedermi.

    Fra un sorso e l’altro, fra una sigaretta che accendeva la successiva, rimuginavo su quella strana telefonata appena ricevuta da Ezio.  Un colloquio breve ma che, ciò nonostante, mi aveva lasciato estremamente perplesso, anche perché il libraio era stato alquanto sbrigativo nei modi ed assai avaro nei dettagli.

    Tanto avevo riflettuto sulla questione che, alla fine, mi rendevo conto di aver ormai raggiunto quella soglia di sopportazione all’alcool oltre la quale era meglio non avventurarmi per non rischiare di sentirmi male come mi era già purtroppo successo in altre occasioni. Forse era il fegato che si era ormai deciso ad abbandonarmi al mio destino, pensai. Fatto sta che la mia tolleranza, in tempi non troppo lontani, era decisamente più elevata. Ora, invece, dovevo constatarlo  con amarezza, era sufficiente una singola bottiglia a mettermi in difficoltà.

    Un brutto segnale. Brutto davvero...

    Tornando ad Ezio, quel poco che mi aveva rivelato era stato tuttavia sufficiente per scatenare in me il desiderio di saperne di più. Maledetta curiosità: chi l’ha detto che essa costituisce un patrimonio esclusivo dell’universo femminile? Un motivo d’ansia in quel momento, quindi, ma anche un’insperata occasione per distogliere la  mia mente dai pensieri tristi per concentrarli su un oggetto diverso. Un puro esercizio retorico, però, basato su ben pochi elementi. Per saperne di più sarei stato costretto, in ogni caso, a pazientare fino alla mattina successiva, quando mi sarei recato alla libreria, come convenuto.

    A quanto mi aveva riferito, Ezio aveva ricevuto la

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