Vite sospese
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Vite sospese - Maria Teresa Rossitto
madre
Il pittore della spiaggia
Ogni mattina intorno alle otto il pittore cammina spedito verso la spiaggia con la sua sacca a tracolla. È tra i primi a scendere le scale che portano alla spiaggetta. Lascia lo scooter nel parcheggio della piazza e si dirige a piedi lungo un breve tratto della strada romana che conduce verso il mare. Il sole è una palla di fuoco all’orizzonte. La sua camminata segue un ritmo sincopato; il pittore ogni tanto sembra barcollare leggermente per poi riprendere il passo.
Una siepe di buganvillae fucsia si muove impercettibilmente al suo passaggio come un alito di vento, leggero e fluttuante. Il bagnino ha da poco aperto gli ombrelloni bianchi, in file perfette come soldatini. In sottofondo una radio trasmette musica pop con il suo ritmo invadente e ossessivo. Presenza inutile ma necessaria secondo le mode del momento. Getti d’acqua in particelle micronizzate avvolgono la spiaggia per portare un po’ di refrigerio agli ospiti. Il mare saluta festoso con piccole onde e riccioli spumosi la nuova giornata.
Il pittore raggiunge una roccia macchiata di rosa, si sistema sulla sedia a sdraio pensando a quale sarà il suo prossimo lavoro. Non sa ancora quale angolo catturerà la sua attenzione e si trasformerà in un acquarello. È il mistero quotidiano che sta per compiersi. Per il momento osserva, respira dilatando le narici, e borbotta, lamentandosi con se stesso. Non ama la vita da spiaggia e non gli piace il chiacchiericcio, questo inutile e vuoto esercizio di dialettica pettegola.
Quando la natura si mostra nella sua essenza bisogna tacere e basta. Egli proviene dalla montagna, dal mondo in cui il silenzio danza tra i sentieri, e che cosa importa di tutto il resto di fronte alla schiacciante bellezza delle vette? Qualche volta ha provato a farsi piccolo come un insetto per osservare un fiore di campo, lo stelo del fiore, il velluto dei petali, il gambo leggero e trasparente. La perfezione del piccolo è una conferma della grandezza della natura. La natura parla incessantemente, solo che quasi nessuno l’ascolta.
Questi pensieri affollano la mente del pittore, come in un fitto dialogo interiore, mentre, con ampie bracciate, nuota costeggiando le rocce.
A quell’ora la spiaggia ha perso il suo incantesimo, la luce violenta del sole ha invaso ogni angolo, i riti collettivi si sono consacrati nella loro forma esteriore celebrando l’aperitivo delle undici, i giochi, i pettegolezzi. Il fondamento della vacanza si nutre di divertimenti a orari fissi, nessun imprevisto, ma un ripetersi ossessivo di incontri, il teatrino del commento quotidiano per non perdere il contatto con la realtà, neanche durante la vacanza.
Il pittore, stanco di nuotare, raccoglie la sua sacca ed esplora la spiaggia alla ricerca di un angolo per dipingere. Un angolo che gli offra sensazioni, che gli trasmetta emozioni, che diventi una terrazza sul mondo. Egli cerca quell’ispirazione necessaria affinché la luce del giorno, distribuita sulla tela, possa riprendere vita in un’altra forma.
La natura si offre nuda a questo scopo, abbagliante, poetica, selvaggia. E il pittore la traduce, scomponendola. Non altera ma umanizza. L’interpretazione è una suggestione, è lo stimolo dei colori, ma può essere anche la stigmatizzazione del male. Nel percorso dall’occhio alla mano si compie la traduzione del pittore. Lui, che è l’interprete unico e che ha il potere di scegliere la forma e i colori che ritiene più opportuni, può decidere per esempio che in un tratto di costa l’acqua abbia l’aspetto viziato e malato del suo mondo interiore, oppure può dipingere un cielo grigio piombo che raccoglie l’inquietudine del mondo. Dalle sue mani la natura appare filtrata e ricomposta. Il respiro del mondo, sia esso incanto o inferno, trova la soluzione nella tela.
Dopo una lunga ricerca, finalmente si ferma su un incavo naturale vicino a due grandi rocce. Subito inizia a dipingere, rapito dai suoi pensieri e dall’ispirazione che gli trasmette quell’angolo di mondo.
Un bambino, fermo su uno scoglio, lo osserva incuriosito. Sta solleticando con un bastoncino dei granchi per vederli correre sotto le rocce. Ogni tanto alza lo sguardo verso il pittore. Poi finalmente si decide, si avvicina e si siede accanto a lui.
– Ciao, come ti chiami? – gli domanda il piccolo.
– Io sono Giovanni, ma tutti mi chiamano Vanni. E tu, come ti chiami? – chiede il pittore, con tono quasi paterno. Mentre si volta verso il bambino, l’uomo posa il pennello e osserva con più attenzione il viso del piccolo. È interamente ricoperto di lentiggini e la sua fronte è nascosta sotto una spessa frangetta bionda, inoltre nota che gli mancano i due incisivi superiori.
– Io sono Edoardo, ma tutti mi chiamano Edo. Vieni spesso qui a dipingere?
– No. Ogni volta scelgo un punto diverso.
– Perché?
– Perché non posso dipingere sempre gli stessi paesaggi… altrimenti nessuno comprerebbe più i miei quadri!
Il bambino sorride, annuendo.
– Ma tu vendi quello che dipingi?
– Cerco di viverci. È per questo che non mi fermo mai, nemmeno in vacanza.
– Guarda cosa ho trovato in quell’angolo vicino allo scoglio grande! – il bimbo gli porge una conchiglia sorridendo, orgoglioso di averla trovata. L’uomo, che ha sempre osservato con cinismo la realtà che lo circonda, di fronte a quel sorriso così disarmante e genuino, si sente come attratto e desideroso di continuare la conversazione.
– Hai mai provato a dipingere una conchiglia come questa?
– No, non ho mai dipinto una conchiglia.
– Perché no? – chiede il bambino incuriosito.
– Perché il mondo è nella conchiglia, e non fuori, e quindi non posso vederlo.
– Eppure, Vanni, se io avvicino la conchiglia all’orecchio sento mille rumori. Perché tu non sei capace di dipingere il mondo lì dentro?
– No… Nessuno può farlo! Come si può disegnare un mondo che non puoi vedere, che è fatto solamente di suoni?
– Beh, allora se tu fossi cieco potresti farlo, non è così? Tanto non vedresti nulla neanche del resto del mondo!
– Forse.
Lunghi secondi di silenzio. Il bambino continua a guardare incuriosito la tela, il pittore diventa invece molto pensieroso. Egli spalanca prima gli occhi e poi li socchiude immaginando come poter dipingere dei suoni, come poter rendere sulla tela le vibrazioni che scaturiscono dalla musica senza note della conchiglia. Un pensiero gli attraversa la mente. Si fa largo lentamente e diventa quasi una certezza. Osservare la realtà da un punto di vista completamente diverso. L’infanzia è il mondo della sincerità a volte crudele, delle verità scomode. Il suggerimento del bambino può sembrare all’uomo, che ha conosciuto il male e l’ha tradotto in una tela, come una suggestione inconsueta, una nuova visuale.
– Edo, sei un bambino intelligente e curioso, – dice il pittore accarezzandogli i capelli, – quasi quasi se mi lasci la conchiglia io ci provo.
– Ok, tieni, te la regalo. Ma non perderla, mi raccomando.
Il bambino si allontana senza voltarsi e il pittore rimane colpito dalla stranezza dell’incontro. Si domanda come ha potuto rispondere alla sfida del bambino, come se si potesse vedere il mondo attraverso il rumore che proviene dalla conchiglia.
La prende in mano. È ruvida, piena di striature rosate e chiazze color antracite. Più la guarda e più sorride. Poi se la porta all’orecchio e scopre un mondo. Il rumore è quello delle onde. Ma non sono solo onde, sono urla, voci di donne, pianti di bambini. È sul punto di individuare i visi, di sentire le voci, il rumore della vita. Le emozioni della vita sono trattenute, racchiuse nel vortice di una pietra che proviene dal mare più profondo. Come non pensarci prima? Doveva essere un bambino a offrirgli uno spunto così grandioso? Ma non gli basteranno pochi giorni per questa tela, che diamine!
Il pittore si rinchiude nel suo studio per lavorare, tanto la materia è tutta dentro quella piccola conchiglia. I giorni passano ma nessuno lo vede più uscire dallo studio.
Dopo quasi due settimane di lavoro ininterrotto, il pittore finalmente completa l’opera. La tela è la più grande che abbia mai realizzato. Due metri e mezzo di altezza per quattro di lunghezza. L’ha chiamata L’evoluzione della vita.
Da quel giorno il pittore non è più lo stesso. La sua stessa opera lo ha trasformato. Si tratta di un’opera straordinaria, di cui egli stesso si stupisce. Dentro quel quadro è contenuto un affresco dell’intera esistenza umana. Ha rappresentato la vita dall’infinitesimo della molecola all’organismo più complesso. Ci sono tutte le fasi dell’esistenza, i vizi e le debolezze umane. Il panorama è una natura a volte arcigna, a volte selvaggia, oppure delicata come le stagioni della vita. Egli si è talmente immerso nell’interpretare le voci della conchiglia, nel decifrare il rumore del mondo, da dimenticarsi di se stesso. Un uomo completamente asservito a comprendere e tradurre in luce e colore il significato dell’esistenza, dall’avere egli stesso perso cognizione e contatto con la realtà.
Il pittore, con una carriera di tutto rispetto al vertice del mondo dell’arte italiana e non solo, ha perso completamente il controllo di sé. Sconvolto dalla sua interpretazione. E, nelle poche interviste rilasciate, ha spiegato di avere compreso il significato dell’esistenza grazie al suggerimento di un bambino. Ma non viene creduto, anzi, la gente pensa che sia diventato matto. Nell’ultima intervista, ha dichiarato che la sua opera non è in vendita, perché è un affresco dell’esistenza umana. Ha raccontato la storia del bambino, spiegando che è stato proprio lui a fargli capire, con poche parole e un piccolo regalo, che il significato dell’esistenza sta tutto nell’uso appropriato dei cinque sensi che tutti possediamo.
Ha descritto il mondo come un alfabeto simbolico, un alternarsi di alfa e omega come inizio e fine di ogni cosa. Tutto è un susseguirsi di eventi come un ballo infinito, e il cielo che ci sovrasta riproduce in grande come uno specchio riflettente tutto ciò che ci accade sulla terra. Il fondamento della vita è il concetto stesso del ciclo. Ogni emozione ha una spiegazione. Anche il male tanto deprecato respira accanto a noi, possiede una finalità specialissima e perciò si inserisce anche nel suo quadro. Ciascuno alla fine della propria vita arriverà alla medesima consapevolezza.
Da molti è ritenuto pazzo, ma qualcuno è convinto che sia un grande genio. Dopo quel quadro, dal punto di vista pittorico la sua tecnica ha raggiunto il vertice. Una leggenda su di lui continua a circolare: pare infatti che cammini sempre solo e senza meta, in riva al mare, con in mano una conchiglia.
Sorride, come rassicurato dalla sua stessa interpretazione.
Il profumo del vento
Paros, bianca isola delle Cicladi, è lo sfondo della storia del vecchio Callisto. In quella profumata e fiorita isola, piante mediterranee crescevano copiose e ordinate, favorite dal clima e dalla posizione riparata.
Callisto viveva nel villaggio di Kolimbithres. La sua casa, che si affacciava sulla spiaggia di Santa Maria, era circondata da enormi masse rocciose. Una casa stretta e bianca, addossata e accarezzata da tante altre tutte uguali. Ogni giorno dell’anno il sole con la sua luce accecante e violenta era testimone della bellezza e del silenzio, quest’ultimo infranto solo dal rumore del mare. La casa custodiva un piccolo giardino collocato sul retro della costruzione, circondato da una cascata di ibiscus fucsia e rosso. Un muretto, sul quale piccole lucertole correvano infilandosi negli anfratti, seguiva minuzioso il perimetro del giardino, infoltito qua e là da ciuffi di parietaria e da una piccola edera che si spingeva fin sul muro della casa.
Callisto era alto, un po’ curvo, il viso incorniciato da una folta barba bianca, un sorriso simpatico e accattivante. Quando era giovane ogni tanto prendeva il traghetto per il Pireo, e tornava a Paros raccontando agli amici aneddoti curiosi della vita di città. Nel suo animo però amava solamente quei luoghi, e il suo villaggio era un microcosmo nel quale trovava la felicità guardando il tramonto ogni giorno dell’anno e seguendo con lo sguardo i profili delle bianche case e le piccole chiese che incorniciavano la sua isola.
Prima di ritirarsi nel villaggio di Kolimbithres, Callisto viveva dei proventi di un laboratorio nel centro dell’isola, costruito con molti sacrifici, nel quale dipingeva e vendeva ai turisti ceramiche e manufatti che riproducevano miti e leggende dell’antica Grecia. La sua vita, un tempo ricca di affetti e interessi, si era improvvisamente trasformata in una esistenza solitaria dopo la morte della moglie e la lontananza dei figli. Continuare a dipingere la ceramica era diventata ormai un’esigenza insopprimibile, non solo economica, ma anche un modo per trovare la forza per continuare a vivere.
Gli abitanti di Paros erano cittadini singolari: lavoratori instancabili che sembravano non soffrire o dimenticare i propri problemi grazie a una natura così prepotente da renderli testimoni inconsapevoli di un miracolo quotidiano.
Callisto negli ultimi tempi lavorava a casa, dopo la morte della moglie aveva infatti venduto il laboratorio.