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L'Assassino Cherubico
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L'Assassino Cherubico
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L'Assassino Cherubico

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About this ebook

L’Assassino Cherubico è un romanzo filosofico di grande attualità: affronta le problematiche esistenziali di oggi, descrive nei dettagli il fenomeno di una crisi culturale e politica in atto nel mondo occidentale capitalista, mettendone in risalto le contraddizioni, le nevrosi, la rinnovata ricerca di spiritualità, l’aggrapparsi disperatamente alle filosofie e religioni orientali e al carattere assolutista e falso dei monoteismi imperanti. La forza e l’energia dissacratoria che pervade ogni pagina danno al lettore lo stimolo a proseguire con il coraggio necessario al risveglio della coscienza di fronte al male del mondo. Male che ci riguarda tutti, compreso il non umano. Dagli insetti minuti alle foreste fruscianti.
LanguageItaliano
Release dateOct 15, 2012
ISBN9788862596916
L'Assassino Cherubico

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    PRIMA DELLA CLONAZIONE DEI FIGLI DEGLI' ALTRI FIGLI DEL DIO BOIA APPUNTO. porche madonnine incoronate

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L'Assassino Cherubico - Paolo Ricci

L’ASSASSINO CHERUBICO

Paolo Ricci

EDIZIONI SIMPLE

Via Weiden, 27

62100, Macerata

info@edizionisimple.it / www.edizionisimple.it

ISBN edizione digitale: 978-88-6259-691-6

ISBN edizione cartacea: 978-88-6259-214-7

Stampato da: WWW.STAMPALIBRI.IT - Book on Demand

Via Weiden, 27 - 62100 Macerata

Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.

Ogni riproduzione anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.

Prima edizione cartacea aprile 2010

Prima edizione digitale ottobre 2012

Copyright © Paolo Ricci

Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale

o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.

A max e agli altri animali

Rappresentiamoci la terra nell’universo, all’interno della buia immensità dello spazio: sulla superficie di questo minimo granello di sabbia vive nell’abbrutimento un ammasso confuso e strisciante di animali che si suppongono razionali, i quali hanno, per un istante, scoperto la conoscenza

M. Heidegger

Introduzione alla Metafisica

Quali sono le trasformazioni profonde che debbono derivare dalle teorie secondo le quali si afferma che non vi è un dio che si curi di noi e non vi è una legge morale eterna (umanità ateisticamente immorale)?...Il saggio e l’animale si avvicineranno e produrranno un tipo nuovo!

F. Nietzsche

La Gaia Scienza

Prefazione

L’Assassino Cherubico

Da qualche parte, in uno dei suoi numerosi scritti, Paolo Ricci, definendo la compassione, usa l’espressione fiore nel deserto. Si tratta di una formulazione alla quale speriamo presto di dedicare uno studio approfondito per la sua indiscutibile pregnanza filosofica. Per ora si vuole approfittare di una frase centrata in un certo contesto per inquadrare la natura del primo romanzo animalista: L’Assassino Cherubico. Avvicinandosi a questo romanzo pare, infatti, di trovarsi di fronte a un fiore nel deserto. Sembra inconcepibile che un’opera così caratterizzata veda la luce nel nostro tempo. Essa presupporrebbe l’accompagnamento di un articolato dibattito intorno ai numerosi temi affrontati, un clima conflittuale che lo annunci, un ambiente sociale che lo supporti. Invece non c’è niente di tutto questo. L’Assassino Cherubico appare come una meteora nel vuoto siderale, una lama di luce che taglia le tenebre.

Sono noti i caratteri di quello strano composto che strascica un nome che dovrebbe essere onorevole – Animalismo – in uno degli scenari più sconfortanti del nostro tempo. Esagerazioni? Solo per chi non conosce l’ambiente: si consideri infatti lo scarto che sussiste tra il potenziale di rinnovamento sociale insito nell’allargamento della sfera dei diritti agli ultimi della terra (gli animali) e l’assoluto torpore, il continuo piagnisteo infantile e autolesionista, l’azione minimalista, quando non, addirittura, l’equivoca collaborazione con un infido nemico, che segnano severamente buona parte dei movimenti che oggi si fregiano dell’attributo animalista. I motivi dello sconforto sussistono tutti e hanno una ben precisa ragione d’essere.

Per questo l’Assassino Cherubico nasce fuori da ogni logica. Nasce semplicemente in un animo logorato da uno sguardo disperato sul mondo, appena attenuato da una venatura ironica, forse naturale, forse estrema difesa.

Siamo negli ultimi anni del secolo scorso, quando la storia del Paese raggiunge lo splendido fulgore dell’approdo berlusconiano i cui tratti antropologici riescono a caratterizzare anche i governi della fazione opposta. In questa cornice, Federico Nadali un giorno va a Napoli, si procura delle armi con i soldi della liquidazione e incomincia a fare fuori cacciatori e vivisettori.

Le sue limitate risorse non gli permettono di compiere grandi stragi. Si limita a uno stillicidio di estinzioni ben selezionate su soggetti particolarmente ignobili. Il relativo principio di selezione adottato, non sembra tuttavia il risultato di una impossibilità di installare una catena di smontaggio di maggiori dimensioni, ma piuttosto dall’intenzione di colpire individui particolarmente repellenti.

Solo il primo omicidio sembra annunciare una metodologia cieca e indiscriminata. Infatti la prima vittima non viene presentata. È un ignaro non-personaggio come potrebbe essere uno dei tanti nostri conoscenti che ammazzano esseri minuscoli per puro divertimento. L’omicidio si presenta con una grazia incredibile e forse poche volte un assassinio è stato presentato in modo così garbato.

Ecco il segreto, avvicinarsi con profonda deferenza.

Signore, Lei cacciatore, sì, anch’io, guardi qui.

Sorriso bonario da vecchio SS. Guardi nella borsa! Il testone ricciuto si piega meravigliato e guarda nella borsa ove spunta la canna della pistola. Clic!

Si riversa, crolla, non chiama la mamma, non si piscia addosso, non ha tempo, cade graziosamente a differenza di altri che rovinarono senza eleganza.

Poco prima l’omicidio era stato preceduto da uno splendido passo:

Osservo i gatti ed i cani per ore, questo mio amore mi ha condotto ad essere quello che sono. Il fatto che io non sia in grado di strappare un fiore non mi rende meno attivo nei campi della violenza. Come i vecchi samurai di un tempo pratico la meditazione in una stanza scalcinata e spesso accarezzo un gatto mentre fisso l’oscurità. Non ho più bisogno di immagini perché sono svuotato di immagini. Ma questa nuova, micidiale attività mi rende umano in una maniera peculiare. Gli uomini come me giungono, stranamente, all’azione dopo averla evitata per tutta la vita. Sono sulla via di coloro, che la Ortese chiama uomini del lutto, che si misurano nell’azione dopo aver scelto un iter particolarissimo che conduce allo strazio.

Ora nell’azione ci sono e ci nuoto come un pesce nell’acqua.

Un passo che sembra preannunciare una azione distaccata e indiscriminata. E invece no. Le vittime successive sono tutte presentate come esseri particolarmente repellenti e violenti. Esseri che pagano una errata collocazione nel mondo. Emblemi della espressione del Male in Terra con l’aggravante di esercitare le loro orribili pratiche verso gli animali. Una nuova figura appare per la prima volta, crediamo, sulla scena mondiale: un vendicatore che, preso atto della barbarie insita nella violenza disposta agli esseri più deboli, decide di seminare il terrore nelle lande della Toscana con qualche digressione nelle terre circostanti.

Emerge un antieroe (ma perché non un eroe a pieno titolo?) di nuovissima natura che accoppa persone particolarmente crudeli distintesi in pratiche sadiche. Il metodo? L’impiego di abili travestimenti e il depistaggio degli investigatori con fantomatici comunicati di un nuovo gruppo terroristico: le Brigate Verdi Internazionali.

Tutto sembra condurre la trama intorno alla questione più trascurata del nostro tempo suggerendo un nuovo approccio al problema della liberazione animale: un approccio ben lontano, e più drastico, di quello proposto dalle frange più avanzate del movimento animalista liberazionista e radicale che, nella realtà, si sono limitate, e soltanto in casi estremi, a distruggere qualche impianto o qualche laboratorio e niente più.

Con queste premesse il romanzo potrebbe incanalarsi nel thrilling e disegnare un’originale rappresentazione di una potenziale ribellione ancora virtuale e racchiusa nelle pagine della finzione. E invece no. Mentre l’attività del Nadali si snoda tra un omicidio e l’altro, si sviluppa parallelamente un percorso filosofico sui mali del mondo, o, meglio, sul Male tout court. Che i suoi interlocutori siano uomini di chiesa, vecchi amici, compagni del tempo perduto o gli incontri della vita, tutti, chi in un modo chi nell’altro, vengono trascinati dal protagonista nella sua «ricerca".

Poi entrano in gioco angeli e animali i quali, nelle notti tormentate del killer, prendono il pallino della discussione e trascinano il dibattito filosofico e riflessivo sul mondo toccando, talvolta, vecchi problemi con una aggiornata versione dei classici punti di riferimento. Non c’è nulla di disneyano negli animali parlanti. Come non ci sono tracce di new age negli angeli rappresentati; siamo ben lontani dallo sbrago dell’angelogia ridicola, oggi di moda, colpevole quanto il peggio dell’umano nel disarmare una Critica di cui pare si sia persa la traccia. No! Angeli stranissimi assai simili a quelli «sopra Berlino" – angeli molto strani, in quanto non possiedono la proprietà fondamentale che a loro è richiesta, essere emissari del Divino – e animali ancora più strani, con i sublimi dialoghi che intrecciano, sembrano suggerire, ancorché una proiezione inconscia del protagonista, la fondazione di una realtà metafisica che conferisce illusorietà alla dimensione vissuta da Federico e dagli umani. Un poco come nel racconto della farfalla di Chuang Tsu, in cui non ci si districa tra il livello reale e quello onirico.

Dunque un romanzo che non si risolve e che rimane sempre sospeso tra la riflessione filosofica sulle ragioni del Male e l’azione militante che influenza una incombente rivoluzione animalista mondiale. Accade infatti che una strana scintilla, un misterioso corto circuito costruito con un improvviso feed-back nelle primissime parti del romanzo, scocchi tra Federico e un infante che vede la luce a Londra un quarto di secolo prima dello sviluppo degli eventi. Tale scintilla determina una trasmigrazione del principio della compassione violenta. Prima si trasmette al pupo che, da adulto diventa riferimento di un autentico gruppo brigatista; poi, si assiste al diffondersi epidemico del virus liberazionista a gruppi animalisti sempre più determinati e violenti. Federico risulterà così essere la cellula di una mutazione genetica che aggiunge un cerchio all’onda rivoluzionaria agente nella storia e che produce inclusioni successive di esseri nella sfera dei diritti.

La vita di Federico, spegnendosi, si rivelerà magnificamente spesa, compiendo, egli, la prima frazione di una staffetta necessaria. Ciò che introduce nel mondo è un principio tanto nuovo quanto logicamente serrato: gli animali non solo sono degni di rispetto e diritti, ma nel momento in cui questo rispetto e questi diritti vengono non solo ad essere negati, ma addirittura rovesciati, diventando essi il punto terminale in cui si concentrano tutte le distorsioni di una umanità spregevole, l’uomo che per motivi misteriosi trascende la sua animalità, si ribella con i soli mezzi che possiede e indica la via a tutti quelli come lui. La sua fede abbatte le montagne, proprio come quella del «Vecchio 90enne Sciocco dei Monti Settentrionali» citato nel testo taoista Lieh Tsu. E seguendo il dettato taoista, egli diventa grande nel momento in cui si fa piccolo: nessuno, fino alla scoperta della polizia per qualche insignificante particolare trascurato, lo sospetterà come il responsabile dell’inizio della catena di omicidi.

Il personaggio: le strane oscillazioni di Federico Nadali

Esistono tre tipi di bestemmiatori.

Il primo è l’ateo incallito. Egli è un bestemmiatore improprio. Non credendo, non può offendere colui che viene ritenuto puro e esclusivo parto della fantasia. La sua bestemmia è soltanto espressione di uno stato interno, generalmente – anche se non sempre – di disagio.

Il secondo è il credente colorito. Una specie di bestemmiatore rovesciato. È quello che ammicca a Dio e sembra dirgli, con un paradossale sistema, tu mi sei caro. Colui che si trova in questa strana condizione, in genere ha i piedi in terra di Toscana e sembra scegliere un modo molto speciale di preghiera.

Il terzo è il bestemmiatore vero: quello che crede, ma si rivolta contro un disegno che non comprende e che giudica profondamente iniquo. Bestemmiare, in senso proprio, significa fondamentalmente credere e ribellarsi secondo il modello di Capaneo che viene, tra l’altro, citato in qualche parte del romanzo.

Ora, è difficile trovare uno scritto in cui la Divinità sia stata fatta a pezzi come in questo romanzo. È difficile, e forse dipende dalla nostra ignoranza, trovare un luogo letterario in cui Dio e tutte le sue rappresentazioni culturali siano così pesantemente screditate. Federico è il più terribile distruttore di divinità che si possa immaginare di incontrare. Allora c’è da chiedersi che tipo di bestemmiatore egli sia. La domanda non è oziosa, perché tutto il percorso filosofico del personaggio si snoda tra discussioni in cui il bersaglio risulta proprio essere Dio, ora ipotizzato nella figura del Demiurgo, ora apertamente indicato come produzione della mente umana.

Sicuramente Federico non è un bestemmiatore del secondo tipo per l’aperta ribellione che informa il suo essere e, se ci è concessa una battuta, anche per una ostilità dichiarata e rappresentata in modo colorito verso la trogloditica componente umana armata dei luoghi in cui la bestemmia è una carezza indirizzata al Signore. Potrebbe essere un bestemmiatore del primo tipo giacché sono numerosissimi i passaggi in cui ogni religione viene marxianamente interpretata come proiezione dell’umano. Questo atteggiamento possiede poi una coda nell’aperta critica, che spesso diventa invettiva, al clero di ogni religione logicamente intravisto come la manifestazione del potere più subdolo, quello che promuove la creazione di un guardiano interno che spesso porta al disfacimento della personalità combattuta tra la paura della perdizione e il rifiuto di lati importanti della propria natura.

Ma un atteggiamento di negazione ateistica della divinità implica, alla fine, un certo distacco verso il problema e anche un certo fastidio a insistere su tesi giudicate indubitabili. Cosa che invece qui non accade per l’ossessivo ritornare su discussioni in cui il protagonista trascina i suoi interlocutori. Si tratta di discussioni filosofico-teologiche che tradiscono alla fine la profonda aspirazione alla «remunerazione» per il dolore patito dagli esseri. Il protagonista sembra rivolgersi – in un ansioso desiderio di risposta alla sua profonda angoscia – all’esistenza di una Luce Primigenia che conserva gelosamente il segreto della sua natura (o non-natura) e che, col suo silenzio, viene ritenuta responsabile delle indicibili sofferenze dell’esistere. E poiché la risposta non può venire per definizione – la Luce Primigenia è al di là dello spazio-tempo – egli trasferisce le sue rabbiose concettualizzazioni a un Dio ridotto a demiurgo, disprezzato dagli angeli, costantemente dileggiato, e perciò, dunque, sospettato di e o ripiegato verso sé stesso, alla banalità del suo esistere e privo di un autentico rapporto col sacro. Solo le grandi figure confrontano questo senso di meraviglia verso il mondo con il dolore che ne costituisce una fitta e inestricabile trama. Solo le grandi figure, gli esseri umani davvero compiuti, si arrestano attonite di fronte al dolore e cercano senza posa di trovare una giustificazione che, nel momento in cui si dimostra impenetrabile, genera forme acute di ribellione. E di grande ribellione si tratta se con tanta cura egli provvede a inoltrarsi sul sentiero del sacrificio per vendicare le immense turpitudini perpetrate su esseri che, a differenza degli uomini, devono sopportare le sofferenze estreme senza nemmeno poterle metabolizzare in strutture di senso.

Ma di nuovo ci troviamo di fronte a un altro paradosso; una volta tracciata la strada della guerra per la liberazione animale, automaticamente si prefigura un pericolo che in ambiente animalista produce vittime a non finire: il disprezzo per l’umano tout court, il rischio di incorporare nella categoria di «nemico» ogni individuo che non abbia imboccato la strada di una scelta radicale e irreversibile a favore dell’innocenza massacrata. E ci potrebbero essere tutte le ragioni per farlo considerando il campionario umano non necessariamente appartenente al vertice elitario, ma altrettanto orribile nelle sue manifestazioni di spietatezza: bambini di Palermo (ma potrebbero essere di ogni luogo) che cavano gli occhi a cani e gatti, palestinesi che fanno saltare asini, padri di famiglia rambizzati e rimbambiti che sparano a uccellini di 20 grammi, popoli interi che soffrono le pene dell’unico inferno esistente (questa terra antropizzata), ma ritorcono senza pietà verso esseri che non hanno storia, cultura, linguaggio, credenze.

E invece emerge con forza l’altra grande questione non risolta che caratterizza la personalità di Federico: l’amore per l’ultima natura derelitta – quella che oltre a subire la violenza implicata dalla sua essenza mortale e naturale, deve anche subire la violenza aggiuntiva, superflua, gratuita generata dall’azione umana – non comporta automaticamente la dimenticanza della sofferenza dell’uomo, questa volta attribuita a strutture sociali distorte come il capitalismo, l’etnicismo, o le semplici quanto ancestrali bramosie di potere delle elìtes terzomondiste. Tutto il romanzo è un oscillare continuo tra speranze di distruzione di tutta l’umanità attraverso la diffusione volontaria di qualche virus (a modo dell’Esercito delle 12 Scimmie, costantemente richiamato) che restituisca alla Terra il respiro che questa muffa vischiosa, soffocante e invasiva impedisce, e vocativi più tradizionali che, nel momento in cui vengono pronunciati, illustrano la vivida speranza che qualcosa di buono sia ancora possibile costruire con questa specie perduta.

Emblematiche, a questo proposito, le corrispondenze con l’amico Spartaco che ripropongono modelli argomentativi interessanti e ci presentano un protagonista vibrante e appassionato nella dimostrazione di una prospettiva etica liberamente scelta dall’umanità e speranzosamente inscritta nella logica delle cose.

Mentre la prima oscillazione si sviluppa tra polarità ontologiche e dunque potenzialmente superabile attraverso un processo di pura e insindacabile scelta che tuttavia Federico non compie, preso com’è da profonde convinzioni antireligiose e l’evidente desiderio-speranza di retribuzione per il dolore subito dagli essenti, la seconda potrebbe svilupparsi entro una cornice epistemologica. Dunque organizzabile attraverso un pensiero che trovi la soluzione mediante opportune categorie concettuali e chiarificatrici che liberino il pensante dalle abiezioni dell’alienazione.

Ma L’Assassino Cherubico non è un testo di filosofia politica. Né, d’altra parte, è possibile ascrivere a Federico il difetto di non fare chiarezza su una questione che fino a oggi, per quanto si sappia, nessuno ha messo all’ordine del giorno (con la parziale parentesi del Marxismo).

Si può dire invece che il testo stesso costituisca uno sguardo disperato che si dispiega verso due immense infelicità – quella umana e quella animale – che si aggiungono al fondo naturale così ben evidenziato attraverso la sorprendente riproposizione di passi di grandi autori (primo tra tutti Schopenhauer).

In definitiva, un personaggio ambiguo nella sua incapacità di scegliere tra i fondamenti trascendentali e umani, perché grande esploratore dello spirito e essere umano nel senso pieno del termine. Eroe che, come tutti i grandi idealisti, non esita a sacrificare sé stesso con l’adesione alla prassi più radicale. Federico paga il suo debito. Paga tutto dopo aver impostato la sua vita nello stile perfetto del guerriero taoista.

Il libro

Vale la pena di spendere due parole sul genere originalissimo del romanzo. La prima cosa che balza agli occhi è la sua natura impropria. Forse sarebbe meglio dire che si spinge fino alle estreme possibilità consentite dalla scrittura narrativa. Non è escluso, infatti, che le maggiori difficoltà di lettura, per molti, derivino dalla caratterizzazione saggistica di una notevole parte dei passaggi. Anche laddove le pagine si allargano per lasciare spazio ai dialoghi – e forse proprio in quelle prima che in altre – la riflessione si appesantisce (si fa per dire) in costruzioni riflessive che possono facilmente respingere chi sperava di trovare una trama leggera basata su un thrilling animalista.

L’Assassino Cherubico è sicuramente, prima di tutto, un romanzo, ma e’ anche saggio nelle divagazioni riflessive; è cronaca nella ironica e amara rappresentazione della ributtante realtà italiana, è annuario nella riproposizione ossessiva di statistiche che tendiamo troppo spesso a nascondere a noi stessi; è poesia, e non soltanto per la proposta di stupendi testi poetici; è epistolario per il sapiente inserimento di relazioni scritturali, che hanno lasciato traccia nelle vita dell’autore-protagonista; è antologia per le molteplici citazioni letterarie incastonate perfettamente nella cornice; è manuale sebbene non perfetto – per fortuna – per l’azione del terrorista animalista. È persino sceneggiatura: quando la scrittura pare che si autosospenda per lasciare spazio al dominio dell’immagine. Sono elementi che non si alternano per blocchi, ma per frammenti, e questo complica la lettura richiedendo una attenzione non comune. Ma la ricomposizione fornisce al lettore, nel momento stesso in cui diventa soggetto della ricostruzione, una soddisfazione che raramente può essere data dalla lettura di un romanzo.

Insomma un testo caleidoscopico e cangiante in cui lo sfogliare delle pagine lascia il lettore di fronte a una sorpresa continua. Per quanto i Saggi di Montaigne siano accompagnati dal tono del distacco, mentre l’Assassino sia costruito su una intensa partecipazione dell’autore alle vicende del suo personaggio, è proprio ai Saggi che ci sentiamo di volgere il paragone. Per la sfuggente adesione a un genere e, non meno, per uno sguardo sul mondo teso a abbracciarlo tutto con un bombardamento di argomentazioni che si rivoltano spesso nel loro contrario, fino a generare nel lettore la convinzione che tra 100 mila anni, se la specie sussisterà, sarà ancora lì a divagare su temi sui quali, forse, sarà sempre preclusa l’ultima parola.

E poi c’è un pizzico di Borges; laddove albergano le citazioni indirette. Soprattutto dove si discute di movimenti eretici, sette ebraiche, oscurità storiche. In questi casi bisognerebbe essere eruditi quanto lo è l’autore, per rilevare i confini tra finzione, invenzione e realtà storica. Come nel caso dell’autore argentino, non si comprende quanto Ricci giochi con il lettore come il gatto col topo.

Se si spinge lo sguardo sulla forma o, potremmo dire, sulla sintassi del testo riceviamo altre sorprese. Non è un testo facile, come già rilevato, essendo costituito da salti notevoli che possono disturbare il lettore alla ricerca della linearità del raccontare. Vari moduli narrativi si succedono in un alternarsi che può infastidire e sembrare disordinato. Lettere, narrazioni in prima persona, in terza, sprofondamenti del tutto in realtà oniriche quando emergono i dialoghi tra gli angeli e gli animali (dialoghi che in quel momento sembrano possedere il vero substrato di realtà), assegnazioni del ruolo narrativo a altri personaggi. E su tutto, la circolarità della struttura. Infatti il romanzo finisce con le stesse parole con le quali praticamente inizia, lasciando intuire una specie di maledizione che costringe gli esseri umani a ripetere all’infinito le proprie esperienze. Ma anche la struttura circolare è anomala e si intravede qualcosa che non torna giacché dopo quelle parole che sembrano stregate:

«Un giorno Dik tornò con un leprotto tra i denti. Presi la piccola bestia tra le mani. Sanguinava dal naso e dalla bocca. Viveva nel braccio della morte; era una di quelle povere creature che liberano nel territorio nel periodo del ripopolamento per poi sventrarle a fucilate nei primi giorni della stagione venatoria. I cacciatori, dopo aver massacrato tutto quello che vive, allevano o importano fagiani e lepri, che lasciano liberi, per alcuni mesi, nelle loro riserve: autentiche aree di sterminio. Le povere bestie assaporano la gioia breve della vita, per essere poi snidate dai cani e uccise dagli uomini. Vivono, fugacemente, nel loro Miglio Verde, nel loro braccio della morte. Presi il leprotto tra le mani… ».

… c’è il sussulto della nota finale che pur facendo parte del romanzo, si sottrae alla sensazione di farne parte.

Per ultimo si noti l’uso della punteggiatura. In certi momenti la pausa che apparirebbe naturale, si contrae costringendo la lettura a una ripresa imprevista, come se il narratore avesse fretta di giungere al punto focale. E poi, al contrario, l’uso dell’a capo senza che si concluda il paragrafo per imporre delle pause e costringere chi legge a fermarsi. E poi, ancora, l’uso dell’interlinea singola e doppia come se l’autore volesse governare i processi di lettura per dare un ritmo obbligato al lettore, quasi un vademecum dello spirito trattato in modo invisibile. Queste brevi note sulla sintassi del testo non hanno naturalmente la pretesa di oggettivare il romanzo; sono soltanto un invito a indagare gli aspetti relativi alla forma visiva della pagina, sospettando che essa contenga dei segreti che la nostra lettura, pur approfondita e attenta, non è riuscita a decifrare completamente. Una trasformazione parziale del testo, nell’ordine delle cose se apparirà una pubblicazione cartacea, potrebbe rischiare di rovinare questa fucina di forme e contenuti se non agirà con una cautela del tutto speciale.

Riassumendo

Di fronte all’anomalia di un testo come L’Assassino Cherubico si prova un incontrollabile desiderio che trovi spazio nell’animo di tutti coloro che percepiscono le cose come Federico Nadali e che, come lui, pensano che lo scandalo prodotto nel mondo dalla componente umana, debba richiedere quell’abnegazione e quello spirito di sacrificio che, pur distanziandosi dalla forma scelta dal protagonista, siano capaci di coagularsi in strutture, programmi, prospettive e costituire un anticorpo rigeneratore contro il male prodotto dalla specie umana. Un vuoto da colmare giacché oggi non c’è nulla che seriamente suggerisca una prospettiva di rinascita.

Non è mai stato così. L’umanità ha sempre generato problemi a sé stessa e al resto della «creazione". Ma ha sempre disposto di speranza. Una speranza custodita prima, nella sua infanzia, nelle religioni e in altre forme di pensiero arcaiche. Poi, prendendo spunto da quelle e trasformandole in forme di pensiero ribelliste e eretiche, in movimenti che hanno fatto tremare il potere costituito. Infine, nella fase moderna – diciamo da Rousseau in poi – in prospettive sociali, civili e politiche capaci di offrire una visione del mondo diversa rispetto a quella di volta in volta imperante. Oggi, dopo il catastrofico crollo del Comunismo, il vuoto sembra essersi impadronito di un mondo lanciato a inaudita velocità verso pericolosissimi obiettivi privi di senso.

L’Assassino Cherubico non è un libro capace di dare una visione sistematica, non offre, con la sua visione semianarchica e ribelle, un modello alternativo. Tuttavia è una intera fucina di pensiero – e di pensieri – entro la quale si può ritrovare chi voglia tentare di ricostruire una alternativa che vada oltre il binario morto (per quanto riguarda la tematica animalista) costituito dall’asse Singer – Regan e che, nel prossimo futuro, dovrà essere necessariamente integrata a quella critica, per ora debole e confusionaria, alla globalizzazione che trova echi in forme aperte e interrogative anche nel monumentale lavoro di Paolo Ricci.

C’è da chiedersi se un romanzo abbia da svolgere una funzione come questa. Ma bisogna riflettere sul fatto che una Teoria Critica della Società sarà per lungo tempo inibita per causa di un inarrestabile scorrere processuale di eventi caotici a cui non si riesce più a contrapporre alcuna strumentazione razionale, sistematica e ordinatrice. Di fronte a questa complessità indecifrabile la razionalità, in quanto discorso politico, sta paurosamente vacillando. Forse un barlume di speranza – non nella progettualità di una alternativa, ma nella conservazione di uno spirito di reazione senza il quale tutto muore – è assegnabile a testi come questo: testi che possono creare, se riescono a affermarsi nell’oceano infinito degli stimoli e delle rappresentazioni della postmodernità, una atmosfera di illuminazione in ampi collettivi e diventare autentici cult.

Tuttavia non va alimentato l’equivoco che questo sia un libro per militanti costretti a distillare le righe in un clima di masochistica sofferenza. Ci sono molte ragioni per consigliare la lettura anche a chi è semplicemente alla ricerca di emozioni, di passi divertenti o poetici o curiosi. Vanno segnalati gli stupendi dialoghi tra gli angeli e gli animali; in particolare gli ultimi nei quali si demolisce, attraverso un accostamento geniale che il tempo potrebbe giudicare come un capolavoro assoluto, la resurrezione di Cristo. Oppure il puro e semplice sentiero della trama essenziale.

Certo che un lettore privo di un interesse globale potrà avere alcune difficoltà a seguire tutto il testo. È vero; ma questo è un limite di molti lettori del nostro tempo e non del romanzo. In ogni caso, come è scritto nella pagina di ingresso dei siti www.lasaggezzadichirone.org o www.ahimsa.it, chiunque riesca nell’avventura della lettura globale, una lettura attenta e partecipata, rischia davvero di sentirsi trasformato nel suo intimo più profondo.

Quanti libri, oggi, possono fare questo?

Eliseo Zanetti

Prologo

Un giorno Dik tornò con un leprotto tra i denti. Presi la piccola bestia tra le mani. Sanguinava dal naso e dalla bocca. Viveva nel braccio della morte; era una di quelle povere creature che liberano nel territorio nel periodo del «ripopolamento» per poi sventrarle a fucilate nei primi giorni della stagione venatoria. I cacciatori, dopo aver massacrato tutto quello che vive, allevano o importano fagiani e lepri, che lasciano liberi, per alcuni mesi, nelle loro riserve: autentiche aree di sterminio. Le povere bestie assaporano la gioia breve della vita, per essere poi snidate dai cani e uccise dagli uomini. Vivono, fugacemente, nel loro «Miglio Verde", nel loro braccio della morte. Presi il leprotto tra le mani. Spirò dopo alcuni minuti. Pensai a quanto era nobile la sua morte, come era pieno di dignità e di innocenza il suo svanire dal mondo. Mentre lo accarezzavo, pensavo alla cianfrusaglia cimiteriale dei cattolici, pensavo alle virtù dal culo di marmo, ai cherubini tufacei dal volto da bambini depravati, alle checche angeliche, ai loculi, ai macabri appartamentini dei vermi, alle madonne piangenti e ai Cristi di pietra con il cuore in mano. Pensavo alla menzogna dell’immortalità antropocentrica dei preti. Pensavo a un funerale di un membro della camorra, che vidi in televisione, con amici in lacrime e amiche urlanti su una monumentale, assurda bara contenente il corpo putrescente del delinquente. Vedendo quel funerale, avevo provato una profonda vergogna: la manifestazione scomposta del dolore è qualcosa che mi colpisce, mi stordisce per la sua volgarità. Quando i piccoli videro il leprotto morto rimasero sconvolti.

«Ne uccidono, ogni giorno, a migliaia per mangiarli» dissi «questo ha evitato il piombo del cacciatore. Presto comincerà la strage… ».

Zeno prese il leprotto, se lo strinse al petto, e cominciò sommessamente a piangere.

Cominciai a scavare una piccola fossa, ne avevo già scavate un centinaio, in un punto ombroso del giardino, presso i tigli. Ho sepolto uccelli, topi uccisi dai gatti, porcospini macellati dalle macchine.

Mentre scavavo sentivo Zeno mormorare. Mi accostai incuriosito per sentire meglio le parole che sussurrava al corpo inerte del leprotto: «Ti vorrei dare la mia vita… vorrei morire affinché tu possa vivere… » Anch’io pensavo la stessa cosa: per poterlo vedere correre di nuovo avrei dato la mia vita.

Ma sentirlo dire da un bambino mi fece effetto. Mentre lo seppellivo un pensiero mi saettò nel cranio: «Piccola bestia, sei più nobile del tuo stesso Creatore… ».

Questo pensiero era scaturito senza la minima riflessione, si era manifestato spontaneamente: quel leprotto aveva scosso il mio essere.

Dissi ai piccoli: «Venite… vi racconto una storia… ».

Un cavaliere giunge presso un castello, elevato su una spoglia collina, immerso nelle brume nordiche. Vicino al castello si intravede la tomba di un uomo, con la spada conficcata sul tumulo. Il cavaliere è mortalmente stanco, ha cercato il Graal per molti anni ma non l’ha trovato. Molti dei suoi amici sono periti nella ricerca. Un frate, incontrato in un’oscura foresta, gli ha raccontato che Galvano stesso ha massacrato almeno venti cavalieri tra i quali: Aiglin delle Valli, Keu d’Estraux, Banin, Malquin il Gallese, Melior della Spina, Camarduc il Nero, Marganor, Aglovan, Baedoier, Blioberis e il nipote di Artù, Ivano. Il cavaliere pensa di aver combattuto molte, assurde battaglie, di aver ucciso inutilmente. Prova nausea per i valori della sua classe ed evita di battersi, si allontana per evitare vergognose, futili tenzoni. È stanco e non crede più alla leggenda del Graal. Sta perdendo la fede, non crede neanche in un Dio misericordioso. Ha visto troppo dolore vagando per le terre desolate: contadini affamati, lebbrosi, gente disperata, animali macilenti e il regno di Logres devastato. Ha freddo, rabbrividisce. Il destriero procede verso l’antico diroccato maniero. Una pioggia leggera cade. Si avvicina alla porta tarlata che si apre. Cala il ponte levatoio. Qualcuno l’osserva mentre incede oltre il fossato, traboccante di acqua nera, e attraversa il ponte. Il cavaliere ha l’elmo ammaccato, ha perso una spallaccia, la cotta di maglia è divorata dalla ruggine, la panziera è lacerata, i fiancali si sono quasi dissolti. Gli è rimasto un ginocchietto e due cosciali che, legati alla meglio, gli proteggono le gambe. Il cavaliere entra nel cortile del castello, ha un volto scavato, occhi divorati dalla febbre ma lucidi di misericordia. Attraversa un portale romanico con una bifora decorata dai resti di un antico mosaico che rappresenta l’Angelo degli Ultimi Giorni. Il castello è in rovina. È un rudere. L’erosione delle piogge e del vento ha provocato gravi danni. La grande scala di pietra disgregata sembra crollare. Le feritoie sono slabbrate e sembrano occhi ciechi, i merli consumati, il barbacane demolito, il maschio è ridotto a poca cosa, il cammino di ronda è coperto da erbacce, una quercia è cresciuta nella torre d’angolo. Le porte lignee sono fatiscenti. Le statue sono smussate e consumate dal tempo. Una figura equestre dalla testa troncata è in mezzo al cortile, coperta dal muschio e dall’edera. La porta della torre si apre e in una stanza spoglia, sotto un costolone crollante, si intravede un Gesù flagellato. Un uomo vecchissimo e zoppicante appare, scendendo da una scala a chiocciola: ha il viso smunto, i capelli canuti, una lunga barba e una tunica macchiata, lacera, piena di buchi. Il vecchio si ferma presso la torre diroccata di pietrame e muratura sotto le grottesche cariatidi consumate dagli elementi; sosta sotto l’immagine del centauro Chirone e osserva l’uomo armato senza proferire parola; risponde con un sorriso al saluto del cavaliere. Dopo alcuni istanti, da sotto la misera tunica, estrae una ciotola di legno consumata, come quelle dei lebbrosi o dei mendicanti, e la mostra al cavaliere, che si avvicina e legge una frase incisa sul fondo ligneo e bisunto della ciotola: «Ego sum qui non sum". Il cavaliere chiede il significato della frase, ma il vecchio non risponde e si allontana, sale le scale diroccate, apre una sgangherata porta e svanisce.

Il cavaliere sorpreso, interiormente intimorito, sente che è venuto il momento di partire, di lasciare il luogo arcano, e lentamente si avvia verso il ponte levatoio. Cavalca per un po’, poi, per un possente impulso sente la necessità di girarsi. Ferma il cavallo per vedere un’ultima volta il castello: il maniero è svanito. Scende dal destriero e si passa una mano sugli occhi, ma il castello non c’è più.

Ora il cavaliere intuisce: il vecchio era Il Re Pescatore e la ciotola di legno bisunto era il Graal.

Il cavaliere, sbalordito, abbassa la celata, continua il suo itinerario, ma la fede non ritorna. Procede attraverso le foreste tenebrose e gli sembra di incedere nella notte nera del Nulla. Più tardi incontra un altro cavaliere che gli racconta di Perceval, di Bohor, di Galaad e del ritrovamento del Graal. Gli racconta del grande chiarore che esplose nel Castello Avventuroso, come se il sole intero fosse entrato da una finestra. Gli narra del Graal, su una tavola d’argento, ricoperto da seta vermiglia, circondato da angeli con incensieri, croci, ornamenti, e di un uomo, vestito come un prete, che elevava l’ostia. Gli descrive Pelleas, il Re Pescatore, il fanciullo dal volto di fuoco che s’immerse nell’ostia consacrata, l’Uomo, con le mani trafitte e il costato sanguinante, che emerse dal vaso del Graal e la lancia di Longino. Gli racconta delle quattro damigelle che piangevano lacrime amare mentre portavano il letto, riccamente addobbato, ove giaceva, coperto da un drappo, Mordrain il re Magagnato. Gli racconta del soffitto che si aprì e di Gioseppo, figlio di Giuseppe di Arimatea che discese dal cielo. Gli narra del Graal nel Palazzo Irreale e della mano senza corpo che lo rubò, dopo la morte di Galaad, e lo riportò nel Regno del Grande Mistero. Gli descrive la tomba di Ivano il Grande presso il Castello Avventuroso… Il cavaliere ascolta con attenzione e si chiede: «Che cosa ho visto, allora? Quale era l’autentico Graal?».

Ma del maniero diroccato tace. La fede mai più ritornerà. Né crede alla storia delle scintille intrappolate. Ma nel profondo del suo animo sa che è stato lui a vedere l’autentico Graal, nella desolazione della terra di Logres.

Caro Federico,

Sì in effetti, sono quattro i rabbini che tentarono la scalata al cielo, Akiba solo riuscì, gli altri soffrirono, Ben Azzay morì, mentre Ben Zoma divenne folle e Alisha divenne diteista. Il suo interesse per Alisha ben Abuyah detto Acher, che significa l’Altro, è comprensibile conoscendo le sue idee: Alisha divenne l’eretico per eccellenza del giudaismo rabbinico. Secondo un’antica tradizione gli angeli non possono sedersi perché non hanno le caratteristiche fisiche e metafisiche per farlo. Alisha incontrò Enoch – Metatron nei cieli e credette di aver incontrato Dio. Enoch aveva mantenuto le sue peculiarità umane e poteva quindi sedersi: Jahvè l’aveva trasformato in un angelo. Acher vide, quindi, un angelo su un trono, e poi vide Dio, ugualmente assiso, e si confuse. Anche Isaia incontrò l’angelo seduto ma il suo accompagnatore angelico lo mise in guardia e gli ingiunse di non adorarlo. «Vi sono due potenze in cielo» disse Alisha quando tornò nel mondo «il Signore mi perdoni… non posso farci niente ho visto due Dei… »; e da questo dubbio, bizzarro episodio scaturì la sua eresia: l’Acher divenne diteista…

Sul detto gnostico che l’ha affascinato e che riguarda la tomba del corpo plasmato, cioè la veste con la quale le crudeli potenze originarie hanno ricoperto Adamo, e che hanno creato i presupposti per la caduta primordiale, le ricordo il discorso platonico del Soma-Sema della prigione del corpo. Lei è ossessionato dall’idea, puramente gnostica, della scintilla divina incapsulata, intombata nella materia. Essenti imprigionati in corpi: farfalle, pietre, uomini, cani randagi, vermi. Lei ripete spesso che tutte le scintille divine nelle cose potrebbero essere prigioniere di una metafisica malevolenza. Ma pensando così apre un varco nel suo basilare ateismo. Io credo in un Infinito Amore che libererà cose ed essenti. Lei crede, Federico, in un’infinita malvagità che prevarrà e che li annienterà.

… sono d’accordo, il libro VI della Pharsalia di Lucano è impressionante, la descrizione della strega è sconvolgente, basta leggere questo capitolo per abbandonare qualsiasi interesse nella demonologia: L’oracolo del cadavere, la Nekyomanteia è devastante, fa veramente orrore… riguardo al viaggio ultraterreno di Gottschalk le posso dire che è l’unico esempio di turismo extramondano che mi ha veramente impressionato, sembra che questo ponte stretto pieno d’aculei appaia in parecchie visioni. Sembra anche che il tedesco riportasse ferite dopo i suoi viaggi iperuranici; si direbbe che occorra subire una notevole devastazione fisica per accedere ai cieli.

Pensi a Padre Pio e alla bambina americana in coma che fa strani miracoli. Il corpo crolla, diviene sofferente, si oscura la mente, l’ego perde la sua potenza di comando e una dimensione nuova fa capolino nella mente afflitta, sofferente…

Angelo

Caro Padre Angelo,

Una volta a Londra ho conosciuto una donna, Jane Meredith, la quale costantemente meditava. Un giorno dibatteva, con un distinto signore protestante, il problema della morte apparente e dei viaggi ultraterreni. Mentre James Brady, il protestante, continuava a ripetere che le visioni beatifiche del tunnel e della luce misericordiosa, che sembrano attendere i morenti, erano prove di qualcosa che esiste oltre gli angusti confini materiali, la donna scuoteva la testa e ripeteva: «Sono le cellule celebrali, l’inizio del disfacimento, che emettono segnali rassicuranti per agevolare il trapasso, per rendere meno pesante il momento dell’annientazione. L’ossigeno viene meno, il sangue raggiunge più difficilmente il cuore, e tutto questo provoca piacevoli allucinazioni».

A questo punto, ricordo che le chiesi: «Jane darling, ma non sei Buddista?».

Rispose: «Accetto dal Buddismo l’idea che bisogna superare «this horrible sense of craving", questo scellerato bisogno di dominare, di emergere, di possedere, di superare, accetto anche l’idea che la vita sia essenzialmente dolore, ma questo è tutto. Il meditare mi aiuta a rasserenarmi, a rendermi meno ossessionata dal possesso delle cose».

«E il Nirvana?» Domandai. «Il Nirvana per me, dolcezza, è la fine di questo eccessivo turmoil, la fine del bisogno di possedere, dominare, schiacciare, fottere, affermarsi, colpire, sopravvivere, amare… Dio che gioia quando tutto questo orrore sarà cancellato..!».

E aggiunse: «La notte oscura che ci attende è il Nirvana, è la pace finale, e io la sogno… ».

Tutto ciò mi fece impressione, eminentissimo padre, ed è rimasto nella mia memoria.

Ho letto una cosa che mi ha affascinato: gli abitanti dell’isola Fiji credono che nel loro Ade esista una grande donna chiamata Nangganangga, che schianti le anime che cattura contro una roccia nera, e che nella metafisica città di Nambanaggatai viva, si fa per dire, un Assassino delle anime, un’entità che dona una specie di seconda, orribile morte.

Mi domandavo, padre, esisterà un assassino degli angeli? Esisterà un’entità metafisica dotata di questo tremendo potere?

… due terzi degli americani crede in Dio… questo mi preoccupa oltremodo… un terzo sostiene di avere avuto almeno una visione celestiale o infernale… questo mi preoccupa ulteriormente perché gli americani impoveriscono, banalizzano ogni cosa…

Federico

Caro Yutaka,

Sono contento che si stia immergendo in quello che lei chiama l’oceano della cultura occidentale.

Scoprirà che non esiste trasparenza in quel luogo e che l’oceano può diventare un mare di merda. Una palude melmosa e olezzante. Un miasma. E sono anche d’accordo con lei, che leggere l’Iliade è come entrare nella bottega di un macellaio. Achille è il superscannatore dell’Occidente; noi amiamo coloro che hanno massacrato o portato al massacro migliaia e migliaia di uomini. Achille era anche adorato dalla principessa asburgica Sissi.

Veneriamo Alessandro, Cesare, Napoleone: è la cultura classica con la sua cornucopia storico – culturale che elargisce macelli. Detestiamo Gengis Khan e Tamerlano, Hitler e Stalin. A scuola, quando ero bambino, eravamo divisi tra coloro che amavano Ettore e coloro che erano dalla parte di Achille. La scuola è un luogo di micidiale mistificazione: pone le basi del futuro orrore. La scelta era tra un sadico massacratore ed un vigliacco che godeva a scannare i più deboli e fuggiva a perdifiato davanti ai più forti. Avrà notato che Ettore se la faceva addosso in presenza di Achille, ma dopo l’ira funesta (Briseide doveva avere una passera leggendaria), dopo il menin oulomenen che ha imperversato sulle nostre giovani menti e il susseguente abbandono dell’Acheo, il troiano si era dato anima e corpo ai suoi istinti da scannatore di poveri cristi, da macellaio di guerrieri minori. Sì, quello che fa vomitare è la descrizione del massacro degli inermi guerrieri, dei disgraziati che se ne fottevano di Elena e del cornuto Menelao.

E il linciaggio di Tersite?

Già, chi era veramente Tersite?

Se lo ricorda, Yutaka? «Basta con queste troiate manipolate dai nobili, andiamo a casa… facciamola finita… le nostre donne ci aspettano… che c’entriamo noi se Paride si fotte quella gran troia: che la sbudelli e poi la butti via… e altrettanto faccia il re con Briseide…»

Cosa avviene in realtà? Agamennone bleffa, sonda gli animi, brevemente dice: le nostre chiappone ci aspettano, ci attendono i nostri piccoli, che cazzo ci stiamo a fare qui? Le navi marciscono. E allora corriamo alle navi! Avanti miei prodi! Alle navi!!! E resta a guardare, attendendo un sussulto di orgoglio. E invece… un sussulto sì… ma poi la fuga generale… tra urla di incredulità e benedizione agli dei, l’armata si decompone, si scioglie come ghiaccio al sole, un fuggi – fuggi senza dignità alcuna… senza eleganza ed onore… «È finita questa stronzata. Che Paride continui a inchiappettarsi la vacca… beato lui… » il re impietrito osserva. A quel punto interviene Ulisse. «Ma che fate disgraziati? Vigliacchi… tornate indietro… fetenti… disonorati… svergognati!!!».

Gli araldi raccolgono gli uomini stralunati, confusi e lui urla: «Ma è stato uno scherzo, l’Atride vi voleva solo tentare… boccaloni!!!»

Stupendo, Yutaka, tutta l’adolescenza a sorbirsi queste coglionate.

A quel punto appare Tersite, secondo l’aedo, portavoce della nobiltà egemone, il più brutto degli Achei. L’uomo che protesta sacrosantemente viene descritto, gobbo, calvo, zoppo, guercio con la voce gracchiante. Omero canta una bruttezza leggendaria: l’espressione incarnata dell’infimo. Ma Tersite è il povero, il misero, l’oppresso schiacciato dal mondo che fa capolino sullo scenario della storia. È il primo ribelle che viene demolito dal sublime pennivendolo dei potenti. La rivolta al potere costituito è laida, è turpe, inconcepibile e viene soppressa con i colpi che Odisseo fa calare sul deforme cranio di Tersite, usando, simbolicamente, lo scettro bronzeo – aureo del potere. E l’ordine è perentoriamente ristabilito.

Un aedo che salivava per la nobiltà achea non poteva narrare quello che veramente accadde, non era nella logica dei tempi. Ma Tersite aveva protestato giustamente accusando Achille di essere un vigliacco, criticando ferocemente l’Atride e la nobiltà assassina degli Achei. l’Altro grande eroe, sballottato dagli dei, Ulisse, lo demolisce; così colui che solleva il dubbio sulla grande impresa diventa una specie di clown, un miserabile folle che sfida l’ossessione del sangue e dell’oro dei Greci.

Caro Yutaka, siamo stati educati al massacro, al nazionalismo becero, ai santi incartapecoriti, ai teschi coperti di ragnatele e muffa, alle pugnette nel bagno, alle Madonne piangenti.

Leggo che sì è immerso anche nei Fratelli Karamazov ed è rimasto incantato dagli eventi che si sviluppano intorno allo starez Zosima. Sì, tutti i dibattiti che precedono la sorprendente, rapida putrefazione sono incredibili. Sono semplicemente stupendi. Sembra che Dio abbia giocato con quei bigotti, con quei fanatici ortodossi. Un autentico santo si decompone lasciando gli animi di piccoli uomini sguazzare nella palude di un’immane malevolenza. Padre Ferapont è un classico del fanatismo e Dostoevskij è il più grande. Ricorda le parole dello starez, dello ieroschimonaco Zosima?

«Amate gli animali, amate le piante, amate le cose tutte. Se amerai tutte le cose, penetrerai nelle cose il mistero di Dio. Una volta penetrato questo, senza interruzione verrai a conoscerlo sempre più a fondo e sempre meglio, di giorno in giorno. E alla fine amerai tutto il mondo d’un integrale universale amore. Gli animali abbiano l’amor vostro: ad essi il Signore ha donato un germe di pensiero e una gioia imperturbabile. Non turbatela voi, non li fate soffrire, non togliete loro la gioia, non contrastate il disegno di Dio. Uomo non ti far grande di fronte alle bestie: esse sono innocenti, mentre tu, grande come sei, appesti la terra fin da quando sei apparso, e lasci la traccia della tua pestilenza anche dopo morto. Ahimè questa è la verità… ».

Mentre tu, grande come sei, appesti la terra fin da quando sei apparso, e lasci la traccia della tua pestilenza anche dopo morto. Questa è santità Yukata, eppure il povero Zosima si è immediatamente putrefatto, senza lasciare odori celestiali e profumo di rose.

E viene da pensare a Padre Pio che ha emanato profumo di rose e prodotto un culto fanatico.

Era un tipo strano, il frate. Un mio amico che andò a confessarsi da lui mi disse che era stato trattato dal santo in maniera selvaggia e ne era rimasto sconvolto. Non era un mite Padre Pio: il santo, per antonomasia, dell’Italietta. E questo mi inquieta, essere il prediletto dell’Italietta è rischioso. I cattolici non vogliono mai morire, non vogliono soffrire. Se ne fottono del paradiso che li attende, sono attaccati a questa valle di lacrime come mosconi alla merda. Non vogliono crepare, Yutaka, non ne vogliono sapere, c’è in una zona interiore, recondita, ascosa, in un angolo polveroso dell’anima o della loro psiche, un demonietto del nulla che sussurra continuamente una cantilena: «Tra poco svanirai fagotto di merda, svanirà il tuo miserabile ego… non illuderti, cocco bello… » Allora, questi devoti cattolici, intuiscono, malgrado la loro fede fiammeggiante, che forse la loro spuria, miserabile individualità sarà presto spazzata via dal vento come una bruma contaminata, come la nebbia sui monti, e si buttano a pecorone davanti ai santi «Faccia n’gialluta facce o miracolo… »

Ho seguito con grande attenzione le accuse che il partito del futuro avvocato del diavolo muoveva contro Padre Pio. Si diceva che frequentasse troppe donne, e addirittura si insinuava che avesse due volte alla settimana rapporti con una signora: «Cobulabat cum muliere bis in heddomana… »

Sono convinto che fosse un’infamia. Ma Giovanni XXIII si incuriosì e lo fece indagare. Pare ci fossero molte lettere anonime, le missive avvelenate: l’altra faccia della santa Italietta. Un Monsignore, Maccari, che indagò sul futuro santo, fu osteggiato dai fedeli e considerato un perfido inquisitore. La donna che accusò Padre Pio fu tacciata da mitomane, ma esisteva una vera e propria guardia del corpo femminile intorno al frate. Vede, Yutaka, la santità è strana; ripeto, il suo rapporto con Giovanni XXIII fa riflettere, il Papa era molto incazzato e non voleva avere nulla a che fare con il Santo. Sembra fosse per una profezia che non era piaciuta a Roncalli. E padre Gemelli, un fine teologo, detestava Padre Pio. La Chiesa della ragione mal sopportava la Chiesa meridionale con le sue febbri, i suoi deliri, i suoi maghi. Non dimentichi che il miracolismo degenere è frutto del familismo degenere e che in questa terra felice prolificano maghi e santoni. Il miracolume cristiano si intreccia con la magia e il paganesimo. È fuso con queste pratiche superstiziose come il Vudù è unito indissolubilmente con il mondo cristiano dei santi e dei beati.

I maghi e i santoni in Italia sono oltre 40.000, fatturano annualmente 9.000 miliardi. Ho letto che un talismano può costare sulle 100.000 lire e una fattura contro il malocchio da 200.000 lire a 8.000.000. I clienti di questo mondo superstizioso – fantastico sono oltre 9.000.000; consideri che abbiamo una popolazione di circa 58.000.000 di persone; consideri anche che in Italia il 38% delle sette sono religiose, ma il 40% sono ufologiche e il 22% esoteriche.

Malgrado il Polacco siamo nel regno di Satana.

E le stimmate?

Lo sa, Yukata, che le ricevono anche persone con una debolissima fede, che non sembrano degne di tanta ultramondana attenzione? La Scozia ha un paio di casi eccellenti, e c’è un altro caso in Inghilterra.

Un povero cristo con una fede miserella le mostrava durante una ripresa televisiva e non sembrava divorato da mistiche passioni. «Perché io… ?» Ripeteva: «Perché io?».

Vai a capire… le vie del Signore…

E poi, considerando i terribili patimenti, anche se Padre Pio avesse avuto dei rapporti carnali con una donna cosa avrebbe cambiato, che ci sarebbe stato di male?

Il Creatore dell’Universo può preoccuparsi per una scopata di un santo?

Le testimonianze del frate venivano strumentalizzate politicamente dalla Democrazia Cristiana: era diventato un simbolo vivente dell’anticomunismo.

Lo sa che esistono comunisti tra i suoi devoti?

Tuttavia, intorno a questo frate e ai luoghi ove operava, è sorto un impero, un immenso movimento, ho letto che sono germogliati 2156 gruppi di preghiera, 63 case religiose, 40 alberghi e se ne prevedono altri 100. Stanno edificando una chiesa che costerà 30 miliardi, roba da lasciare allibiti. In un anno a San Giovanni Rotondo giungono oltre 7.500.000 pellegrini. E poi c’è l’eterno mercato, con i banchetti, le statuette e le cianfrusaglie che Cristo prese a calci a Gerusalemme, incazzandosi da morire e diventando paonazzo per la rabbia. Gli ci vollero i massaggi della Maddalena per riprendersi.

Pensavo fossimo una nazione leggermente – ripeto leggermente – più seria, invece ho scoperto che oltre il 53% degli italiani «crede in Gesù e nei dogmi», che solo il 2,2% ha scelto un’altra religione, che il 30,6 % «crede in Gesù ma non nei dogmi» e che gli atei sono un misero 2,8% dell’intera popolazione. Pensavo fossero molto più numerosi, considerando la forza che ha avuto il marxismo in Italia.

Sto lasciando la mia vecchia casa, troppi cacciatori, sparano da ogni angolo, mi affliggono e sono impotente. Tra poco questi 900.000 assassini vomiteranno un fiume di 25.000 tonnellate di piombo su 100 milioni di povere creature, inermi e indifese.

Padre Pio ha mai pronunciato una parola in difesa di questi poveri esseri?

Chissà. E a che serve la santità se è puramente antropocentrica?

Tutto ciò che si muove intorno al cattolicesimo mi insospettisce profondamente, Yutaka. Tutto quell’odore di muschio, naftalina, vecchiume, orina, muffa, sudore, tutte quelle ragnatele, quella polvere che si posa sui teschi dei santi rosicati dai topi m’ infastidisce.

Yutaka, noi siamo un popolo ossessionato dal lotto e dal miracoloso, lo ha capito?

Sono contento che è riuscito a trovare un nastro di Stalker.

Mi faccia sapere le sue impressioni. Non sto bene fisicamente e ho deciso di trasferirmi, qualcosa che ho visto mi ha profondamente colpito, direi segnato. Un cacciatore ha centrato sotto i miei occhi una tortora e l’ha lasciata con un enorme buco sul candido petto.

Ho ricevuto da John un nastro con un film con Jeremy Irons: Chinese Box.

Si vedeva a tratti un povero cane costretto a correre, con la lingua di fuori, su una specie di rullo. Alcuni maledetti cinesi di Hong Kong, un’autentica città di merda, lo costringevano, per ore e ore, a correre in quella maniera crudele per farlo vincere alle corse. Dopo quel bestiale allenamento lo tenevano a digiuno per assicurarsi che fosse affamato al momento della corsa.

Mi sono ricordato del cane Zucka, di Iliuscia e di Kolja nei fratelli Karamazov; ricorderà che il servo dei Karamazov, il sublime Smerdiakov figlio di Smerdiasciaja, gettò al povero cane un boccone con uno spillo e che il cane sparì, impazzito, e mai più ritornò.

Ho visto anche un orrendo documentario ove si vedevano i civilissimi norvegesi massacrare le piccole foche. E mi sono detto, ma che specie mostruosa il Padreterno ha concepito?

Che infinito orrore è quest’essere creato a sua immagine.

Quel cane di Chinese Box mi ronza come un moscone nel cranio, mi tortura, qualcosa sta per succedermi. Anche la tortora che ho raccolto e seppellito ha prodotto, in me, una specie di folgorazione: una luce violenta ha investito la mia povera mente, devastandola.

Per due giorni sono stato incapace di muovermi. Ho meditato a lungo, ma vedevo solo un rosso bagliore, un’esplosione di luci che diventavano una rosa di sangue.

Non so descrivere quello che mi sta accadendo ma provo un senso di orrore, di assoluta impotenza davanti al Male del mondo. Sono rimasto in un assoluto silenzio per giorni, non riuscivo più a parlare, ho masticato gli orrendi eventi, li ho lentamente digeriti. La luce violenta mi ha più volte rivisitato e…

Federico

Esimio lettore, ho incontrato a Napoli Hasan, un tipo interessante.

Ho pranzato con lui in un ristorante chiamato Addò e figliole a Monte Calvario. Mi ha venduto una carabina AZ 1900, una Rover Sabatti, una pistola Wildcat 277 e altre pistole. Tutta roba rubata. Ho speso parte della mia liquidazione per acquistare queste armi.

Hasan discende dai Qarmatians una setta emersa nel sud dell’Iraq che fu fondata da Hamdan bal-Ash-ath detto Qarmat. Una società segreta estremamente vicina alle idee del comunismo. Mi ha spiegato che tutti i beni venivano divisi nel gruppo che eleggeva un leader, con questo sistema erano riusciti ad abolire la povertà. I Qarmatzi, che originavano, se non erro, dagli Ismaeliti, e avevano avuto contatti con la famosa setta degli Assassini, che Hasad ammira molto, erano pronti ad uccidere per la loro fede. Avevano una base nel golfo Persico da dove attaccavano città importanti come Kufa e Basra.

Al-Masqdisi e il viaggiatore persiano Nasir-i Khosraw visitarono i loro centri e rimasero stupiti, meravigliati da questa setta che era riuscita ad organizzare una società giusta. Hasam ha forti simpatie per Ahmed Shah Massud il leader dell’opposizione ai Talibani. Mi ha raccontato di averlo incontrato a Khair Khana, vicino a Kabul, in Afghanistan. Da quello che capisco è un terrorista moderato, se così si può dire, e detesta gli integralisti.

Mi ha spiegato la situazione Afghana descrivendomi i vari gruppi in lotta.

Gli Iraniani sciti finanziano l’opposizione ai Taliban sunniti. L’Arabia Saudita, invece, aiuta a suon di milioni di dollari gli Studenti Coranici. L’Uzbekistan sostiene il generale uzbeko Dostum che, secondo Hasan, rischia di uscire con rapidità dallo scenario del potere. Il Tagikistan favorisce l’opposizione ai Taliban, e Mosca ha 20.000 uomini schierati sul confine del paese amico. Il Pakistan è il sostenitore più agguerrito degli Studenti di Teologia. L’India e la Turchia li detestano.

Chi immagina l’Islam come un gruppo monolitico sogna ad occhi aperti. Hasan dice che l’Islam si suiciderà a causa delle guerre intestine. Mi ha anche detto di aver conosciuto l’emiro della Jihad, Osama Bin Laden e il teologo del regime fondamentalista del Sudan, Al -Tourabi. Ha aggiunto che sono uomini pericolosi e che stanno trascinando l’Islam verso una china pericolosa. È convinto che il vero intento dell’emiro è di rovesciare il regime teocratico, corrotto e filoamericano dell’Arabia Saudita. Bin Laden detesta la presenza di truppe americane presso la Mecca, Medina e vuole liberare i luoghi santi. Molto interessante. Ho pagato e sono partito. Ero ovviamente travestito, avevo barba e parrucca. Ho messo tutto in una grande borsa e mi sono dileguato.

Caro Federico,

Stalker mi ha impressionato moltissimo. Ritengo Tarkovskji tra i cinque più grandi registi che siano esistiti. L’idea è stupenda, se ben ho capito, a causa di un’esplosione in un complesso nucleare in una landa desolata, che ricorda la Siberia, avviene un sovvertimento delle leggi di causalità, che produce una zona ove tempo e spazio sono stravolti; in quel luogo si manifesta il miracoloso: l’Altro.

Lei, una volta, mi disse che nelle Badlands provò qualcosa di simile, anche se differente. Mi parlò d’un sovrumano silenzio, di qualcosa di inaudito, di un luogo ove il Sacro era tangibile. Lo «Stalker» è l’uomo dal volto sofferente, che ha abbandonato il mondo per quel luogo mistico, arcano; è colui che conosce la via, che sa orientarsi, come una guida dei morti nell’Ade. Come un Hermes psicopompo sa attraversare l’insidiosissima zona che può distruggere o guarire. La zona è un luogo ove ciò che è Oltre, e forse non è assolutamente oltre, si manifesta. L’altra guida che ha provato il miracoloso e si è arricchita attraverso il peculiare contatto, si è suicidata. Arricchirsi sul Sacro è devastante. Gli angeli, o chi per loro, non perdonano.

Ho sentito dire che Tarkovskji l’ha fortemente influenzata a scrivere un libro sull’Italia Misteriosa. Tokara mi ha raccontato che quando lei vide, nel film del russo «Nostalgia, le scene dei ruderi, dello scheletro della chiesa di San Galgano e la piscina medioevale di Bagno Vignoni immersa nella nebbia, decise di scrivere un libro sui luoghi misteriosi. Sto leggendo, oltre ai Fratelli Karamazov, quello che lei considera l’ultimo grande profeta ebreo: Albert Caraco. Il suo libro Breviario del Caos potrebbe essere la Bibbia dei terroristi dell’Esercito delle 12 Scimmie". Dopo aver letto questo scrittore viene voglia di annientare, almeno parzialmente, il mondo. «Con cento milioni di esseri umani la Terra diventerebbe il paradiso; con i miliardi che la divorano e la insozzano sarà l’inferno da un polo all’altro, la prigione della specie, la stanza della tortura universale e la cloaca gremita di folli mistici che campano del loro lerciume. La massa è il peccato dell’ordine, è il sottoprodotto della morale e della fede, basta questo per condannare l’ordine, la morale e la fede giacché non servono che a moltiplicare gli uomini e a tramutarli in insetti».

E ancora: «Gli uomini si sono diffusi nell’universo come una lebbra, e più si moltiplicano e più lo snaturano, essi credono di servire i propri dèi diventando più numerosi, i bottegai e i preti approvano la loro fecondità, gli uni perché questa li arricchisce, gli altri, invece, li accredita».

Ho letto anche con grande attenzione il dialogo tra Alioscia e Ivan sul Male del mondo. «Io credo che il Diavolo non esiste e quindi è stato creato dall’uomo a sua immagine e somiglianza» dice Ivan, quando parla delle torture che i turchi infliggono ai bambini. Quando parla del mugik che batte il cavallo ho pensato alle sue ossessioni. Quando narra delle torture inflitte a una piccola rinchiusa in un «lercio stambugio» ho pensato a Caraco. Forse ha ragione, bisognerebbe distruggere il mondo.

Le ho inviato uno studio, in inglese, su quattro Maestri Zen: Bankei, Soen, Ikkyu e P’ang Yun, lo legga con attenzione. Le ho anche incluso un mio articolo sulla deturpazione e contaminazione consumistica degli angeli, seguendo una sua vecchia idea. Gli americani, come mi diceva, stanno imperversando sulle schiere angeliche. Le banalizzeranno e le svuoteranno di qualsiasi energia e della loro forza vitale originale. Stanno mettendo in cantiere, a ripetizione, dei film sugli angeli. Ultimi: la Città degli Angeli e Meet Joe Black, dopo aver imperversato con gli orrendi film di Warren Beatty, Travolta e compagnia.

Stanno demolendo l’iperuranio dopo aver affogato il mondo in un mare di perversa banalità. Pisciano sull’Ultramondo dopo aver defecato il loro vuoto abissale su questa povera terra.

E a proposito di angeli e di diavoli mi è piaciuto moltissimo il Satana di Dostoevskij con la sua brizzolatura, la giacca color cannella un po’ logora, un po’ fuori moda, la biancheria un po’ sporca e la sciarpa lisa. «Daccapo sdruccioli nella filosofia?» domanda a Ivan.

È mai stato visitato dal Diavolo, Federico?

Me lo immagino un Mefistofele travestito da cacciatore che conversa con lei…

Non se la prenda, mediti… e rinunci a cacciare, è una contraddizione.

Yutaka

La mattina dopo, chiusa con un lucchetto la valigia contenente le armi acquistate, ho visitato Napoli segreta. Ho passeggiato per Via dei Tribunali, ho visto la chiesa delle Verginelle e sbirciato nel sotterraneo ove le monache gettavano i piccoli nati da amori segreti. Con un permesso speciale ho perambulato nel Palazzo di Donnaregina, ove Giovanna di Ungheria, dopo aver cavalcato con grande libidine i suoi amanti, li faceva accoppare e intombare nella chiesa di San Giovanna in Carbonara. Dicono sia un posto visitato da spiriti. Mi sono soffermato tra gli orrori del Cimitero delle Fontanelle, ove si adottano teschi per pregare per le anime dei defunti, per poi passare le ultime ore disponibili nella famosa Cappella del Principe di San Severo, con il suo Cristo Velato e i suoi terribili scheletri.

Sono rientrato a casa nel tardo pomeriggio mi sono coricato e l’immagine velata ha influenzato un mio sogno: ero in una chiesa e c’era un enorme Cristo marmoreo, morto, deposto con il ventre sul sagrato di una vetusta chiesa. Su un bassorilievo

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