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Non so nulla dell'amore
Non so nulla dell'amore
Non so nulla dell'amore
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Non so nulla dell'amore

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Un romanzo chick lit scritto da un uomo e che ogni donna dovrebbe leggere. Alessandro Ippolito è alla sua prima prova narrativa ma gli ingredienti per la riuscita della ricetta ci sono tutti: un titolo intrigante, un’ambientazione trendy ma non scontata, un giovane dongiovanni italiano, scene piccanti narrate anche nei dettagli più scabrosi. Il protagonista, di cui non vene mai svelato il nome, vive in una non meglio precisata metropoli statunitense e lavora come direttore in un negozio di abbigliamento. In compagnia di amici trascorre le notti tra party e cene, lasciandosi scivolare la vita addosso con leggerezza e spensieratezza. Obiettivo a breve termine vivere a pieno i trent’anni. Affamato d’amore e di sesso non si lascia sfuggire un’occasione convinto che la fedeltà non sia una condizione realistica dell’essere umano. L’incontro con una bellissima bionda dal passato tormentato gli riserverà non poche sorprese.

Un romanzo di gesti, sospiri e notti di passione, di ricette da copiare, di riflessioni senza veli da meditare. Ippolito, con astuzia degna del suo protagonista, mescola ingredienti sempre cari al pubblico femminile con camei di inusitata sincerità al maschile. Una sorta di manuale da consultare per capire cosa pensano gli uomini in certe situazioni. Ma anche una storia che scava a fondo nella psicologia umana e nelle contraddizioni che si nascondono dietro una parola che vuol dire tutto e nulla: amore.

Insomma, non è roba da maschiacci. Oppure sì?

Alessandro Ippolito è nato e vive tutt’ora a Marina di Massa, cresciuto a Como sino al- l’adolescenza, una volta conclusi gli studi ha intrapreso una lunga e variegata carriera nel mondo della moda spostandosi a Londra e negli U.S.A. Attualmente lavora in Toscana coltivando svariati interessi in campo artistico inclusa la scrittura fino a oggi limitata a racconti brevi; qui al suo esordio come scrittore di romanzi.
LanguageItaliano
Release dateNov 1, 2014
ISBN9788863965919
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    Non so nulla dell'amore - Alessandro Ippolito

    mai.

    I

    No… La mia mente lo pensa con un boato così cupo e pesante da assordarmi; rimbomba dalla base del pavimento in moquette fino alle orecchie, la testa risuona di questa nota ottusa, il cuore è fermo, le ginocchia hanno ceduto.

    Seduto a terra, appoggiato alla parete di fronte al piccolo schermo, rimbecillito da un uppercut devastante: un miliardo di pensieri, così tanti da impedirmi di capire, perché. L’unico suono che sento nell’aria, forse pronunciato dalla mia bocca; è tutto beffardamente grottesco, distante.

    Continuo a guardare e continua l’eco di quel suono, ancora e ancora e ancora.

    Mi stendo sul letto e le immagini continuano, Dio non ce la faccio a guardare. Telefono. Sì, Amedeo saprà cosa dirmi, ha poche idee chiare e nette lui, una quercia, una montagna: ci vuole uno così a ricomporre un mondo appena polverizzato.

    Riesco appena a sporgermi a destra per afferrare il portatile, una sensazione di stordimento mi ha tolto la sensibilità al corpo: non sta succedendo a me.

    Pronto, Amedeo sono io.

    Il mio amico è uno così, con una solidità morale ben radicata da un imprinting famigliare medio-borghese, ha fatto le scelte giuste nella vita e continua sulla stessa strada; si potrebbe pensare a un tipo noioso ma non lo è, sa stare in mezzo alle persone e i suoi vivaci occhi celesti suggeriscono una certa esperienza del mondo celata da una elegante riservatezza, perfettamente en pendant con la precoce canizie argentea.

    Gli amici di cui si circonda devono aderire alle caratteristiche di uno status professionale alto e una morale di precisione nei rapporti interpersonali, allegri ma mai fuori dalle righe, insomma dei gentlemen come si dice qui, e soprattutto in terra straniera ritiene questi requisiti fondamentali: è una cerchia ristretta la nostra.

    Eppure fu lui a farmi entrare in questo circolo esclusivo, io che ho poco a che spartire con questi manager d’assalto. Loro sono stati trasferiti all’estero da multinazionali italiane, per affidabilità e conoscenze. Con stipendi favolosi e benefit inclusivi di appartamenti ai piani alti dei grattacieli in centro, auto, assicurazioni mediche inattaccabili e viaggi premio; dotati di un pedigree di lauree illustri e famiglie influenti hanno un futuro tranquillo già in tasca.

    Ci conoscemmo dove lavoro, una boutique di lusso in centro nella quale avevo raggiunto la posizione di direttore con stipendio fisso dopo un paio d’anni di peripezie e un po’ di fame, spinto in questo porto di mare dalla sete di avventura e la voglia di imparare l’inglese per davvero; Amedeo entrò in cerca di un regalo per una signora che successivamente mi rivelò essere la sorella.

    Mi posi col consueto distacco professionale e pur avendo capito benissimo dall’accento che fosse un compaesano non mi presi la confidenza di pretenderne conferma: chiunque si sposti all’estero per lunghi periodi sa che cedendo al sentimento del paisà poi ci si ritrova invischiati in amicizie invadenti e imbarazzanti perché chi usa questi stratagemmi sono invariabilmente degli spostati che vivono di parassitismo; le metropoli ne sono zeppe. Apprezzando il mio riserbo fece lui la prima mossa presentandosi nella nostra lingua madre e raccontando un poco di sé e di cosa lo avesse portato in città.

    Io giunsi qui solo con la promessa di un lavoro e un contatto prezioso: un avvocato specializzato in immigrazione il quale mi fece ottenere un visto di tre anni rinnovabile. Prima che le cose si complicassero con l’attentato dell’undici settembre non era difficile ottenerne uno dimostrando volontà di fare carriera e pagando regolarmente le tasse.

    Questa grande città all’epoca contava pochissimi italiani in trasferta, solo professionisti: il posto non era appetibile agli avventurieri che popolano le canoniche New York, San Francisco o Los Angeles a causa del clima inclemente e della chiusura di una metropoli vecchio stampo a predominanza bianca anglosassone e protestante (W.A.S.P.), solo ora col boom economico di internet cominciava ad aprirsi a culture d’oltreoceano benché il melting pot avesse assimilato ogni tipo di etnia da lungo tempo.

    Così, il buon Amedeo seppe riconoscere in me un tipo adatto alle sue frequentazioni, sigillammo l’amicizia la sera stessa con l’invito da parte sua a una festa a casa del rappresentante dei professionisti italiani in città, un amico suo che a soli trentotto anni dirigeva la filiale di una banca tra le più importanti del nostro paese. Lì conobbi tutto il gotha delle compagnie assicurative, finanziarie e commerciali nonché la moglie del nostro anfitrione, Ursula: svedese, mora, sfiorava l’uno e ottanta e nonostante due anni in più del marito, mozzafiato, affascinante nella sua altera superbia. Benché solare e cordiale, vivacissima e scherzosa le bastava uno sguardo per farti capire che non eri roba per lei, era troppo: keep out.

    Ne ero rimasto impressionato come qualsiasi uomo che la incontrasse e le voci la descrivevano fedelissima nell’ultradecennale relazione col marito; per cui conscio dei miei limiti e del modo in cui potessi essere visto da una donna tanto retta e intelligente non ci pensai più richiudendola nel segretè dei sogni proibiti.

    Eravamo comunque considerati merce rara nel panorama cittadino: col nostro bagaglio di buon gusto e le varie leggende sulle attitudini amatorie tricolori destavamo una curiosità quasi reverenziale che a me aprì la metropoli come le valve di un ostrica offrendo le sue perle più splendenti.

    Party a invito e bar, discoteche, concerti, sfilate ed eventi esclusivi; tutti volevano gli italiani, noi: la città era nostra, era mia!

    Fu proprio a un party che incontrai la causa dei miei dolori, anzi lei incontrò me.

    L’invito mi fu recapitato al lavoro: la nuova boutique di un famoso stilista italiano avrebbe aperto il venerdì di quella settimana. Me lo porse Phyllys, commessa ventenne italo-americana di seconda generazione, studentessa che con lo stipendio pagava la retta astronomica dell’università; molto carina, pelle di marmo e occhi di mare incorniciati da una cascata di riccioli corvini.

    Mi ci porti?

    Parlava italiano con un leggero accento calabrese, ereditato dai genitori, mischiato a quello inglese; era tremendamente sexy, voleva impratichirsi con la lingua madre e io la aiutavo.

    Vediamo, se l’invito è per due con molto piacere!

    Le scostai i capelli dagli occhi, lei li abbassò.

    Non distogliere lo sguardo, la rimproverai.

    Per tutto il piacere che mi dai tesoro… Non parlò oltre…

    Il negozio era aperto e dall’esterno nessuno l’avrebbe vista, il banco cassa era piuttosto alto.

    Linda, una cinquantenne bionda in forma splendida, gelosissima della sua collega più giovane, era in magazzino a smistare i nuovi arrivi; guai se ci avesse scoperti: non c’è furia più devastante di una amante tradita, soprattutto se sposata!

    Mi davo parecchio da fare sul lavoro e dintorni. Paula, la direttrice di Chanel all’altro angolo della strada mezza messicana e mezza polacca, la presi una sera in un cinema mentre guardavamo Lost Highway di David Lynch. La scena della Arquette in un porno mi accese la libido. Maria, romana dispersa lì dopo essere stata lasciata: un ritorno piacevole a casa di quando in quando; mi intrigava soprattutto ascoltarla questa donna tormentata e fustigata da scelte sbagliate: un passato interessante quanto il suo corpo.

    Jenna, commessa da Bloomingdale’s: la tipica dumb Blonde, cioè bionda e scema conosciuta a un party in una casa la quale dopo avere scolato vodka liscia come fosse acqua, diventava una invasata del sesso non mancando mai di coinvolgere l’amichetta di turno. Tutte queste belle rose coltivate nel mio giardino non mancavano certo di pungermi con qualche spina come accadde per esempio un anno prima.

    Mi svegliai con un gonfiore sulla guancia destra delle dimensioni di un’albicocca e un dolore che ottundeva i sensi. Chiamai immediatamente il dentista il quale dopo avermi visitato decise di operarmi il giorno successivo per asportare un granuloma di dimensioni inusitate. Il risultato fu un bel buco tra due molari nel quale venne fissato un perno su cui pose una corona nuova pochi giorni fa; mi ballava pericolosamente in bocca, il cemento era provvisorio in modo da assicurarsi che il dente nuovo non fosse troppo alto prima di fissarlo definitivamente.

    Il giochino tra me e Linda funzionava così: io andavo nel magazzino situato dall’altra parte dello stabile; per raggiungerlo era necessario attraversare a piedi l’atrio dell’hotel dove era ubicato il negozio che però si affacciava sulla Main Street, la aspettavo e lei arrivava con un pretesto di lavoro. Ci dilettavamo in amplessi focosi, non più lunghi di quindici, venti minuti altrimenti avremmo destato sospetti, ma sempre molto fantasiosi su scaffali, scalette, pavimento e bagno; andava pazza per questi dieci minuti d’amore, come le piaceva chiamarli: una scarica di adrenalina notevole e grande divertimento. Quel giorno però mi sentivo a disagio nel baciarla avendo questa sensazione di movimento nella bocca; naturalmente come ogni donna, avendo notato la mia ritrosia nel baciarla profondamente come sempre, insisteva anche di più nel violentare letteralmente il mio cavo orale con la sua lingua quando la vedo staccarsi con gli occhi spalancati.

    Ho ingoiato qualcosa! Cosa diavolo era?

    Sento il vuoto tra due denti e inorridisco. Il dente! No! Hai ingoiato il mio dente!

    Ero furibondo, mi era costato un patrimonio e figuriamoci se un dentista americano me ne avrebbe rifatto uno nuovo senza pagare; dovevo recuperarlo a ogni costo.

    Vomita! incalzai Linda, ficcati due dita in gola e cerca di rimettere il dente, non posso permettermene uno nuovo!

    La poverina si affrettò al lavabo del piccolo bagno del magazzino, molte volte improvvisato candido talamo, e producendo suoni inenarrabili fece del suo meglio per restituire la preziosa protesi.

    Si tirò su ansimando con gli occhi azzurri fuori dalle orbite, arrossati da miriadi di piccole venuzze: Non ci riesco! Non ce la faccio! E adesso?

    Adesso, continuai io, grave ma deciso, adesso non resta che cercarlo tra le feci… E lo dissi come se fosse la cosa più normale del mondo.

    Tu devi essere impazzito! inveì la signora. Non ci penso nemmeno a rovistare nei miei escrementi come un babbuino per il tuo dente! E poi a casa mia non chiudiamo mai a chiave la porta del bagno: se mio marito entra e mi trova cosa gli dico, che sono regredita alla fase anale e giocavo alla casalinga impastando la mia popò?!

    La fissavo per concentrarmi nella ricerca di una via d’uscita. Ci sono! Non andavi tu a fare le pulizie del colon da quella specie di Guru acchiappacitrulli che ti irrorava con quaranta galloni di liquido? Ecco, torni da lui, te ne fai fare una, e visto che quest’acqua benedetta da qualche parte dovrà uscire sicuramente troveremo la mia corona…

    Tu sei proprio scemo! rispose sibilante di rabbia. Lo stesso tubo che entra poi riporta fuori il liquido, va in una tanica apposita e viene smaltita come rifiuti organici: cosa gli racconto secondo te per fare la pesca miracolosa?!

    Ero disarmato.

    Linda si risistemò alla meglio e uscì sbattendo la pesante porta del magazzino senza nemmeno guardarmi, rimasi lì ancora concentrato in cerca di possibili soluzioni e con il pensiero del migliaio di dollari che volavano via.

    Il giorno dopo la bella sposa evitava in ogni modo il mio sguardo implorante, cercai di accarezzarla fugacemente quando ci incrociavamo durante le vendite ma niente: mi scansava come un’anguilla.

    Tornai in magazzino ma stavolta per sistemare veramente della merce appena consegnata, ero tutto indaffarato a carponi cercando di riordinare le centinaia di maglie quando si aprì la porta improvvisamente e la mia amante mi gettò in faccia un sacchetto di nylon trasparente per alimenti del quale è facile immaginare il contenuto.

    Visto che adori seminarci lì, ora godine anche i frutti… più di così non posso fare, buona pesca!

    Mi ci vollero quattro giorni con altrettanti sacchetti.

    L’odore mi rimase talmente incollato nel naso che non riuscivo più nemmeno a mangiare, casomai tentassi di farlo rimettevo ogni cosa; perfino avvicinarmi a Linda mi fu difficile per un lungo periodo, per eccesso di profondità nei rapporti.

    Ero sfinito ma riavevo tutti i miei denti, di certo per un po’ mi fece un certo effetto poco piacevole ricordarne la provenienza. Allora, pensavo che l’amore fosse intimità e condivisione.

    E poi, e poi altri nomi altre storie più o meno rocambolesche; il sesso fa questo effetto a un maschio di trent’anni: più ne fai e più ne faresti, non contento nelle pause ero diventato un assiduo conoscitore di video pornografici dai vari canali a pagamento, insomma un libidinoso ossessionato dal corpo femminile!

    Eppure, credeteci o no, diversamente da quasi tutti i maschi nella pornografia cercavo il lato estetico, una sorta di romanticismo visivo: l’eccitazione aveva bisogno di un contesto, ambientazione e credibilità; non quelle cose dove interminabili primi piani andro-ginecologici mi facevano poi sbadigliare immancabilmente, ma piuttosto vedere poco e bello.

    Le donne all’epoca erano rigorosamente bionde e vestite bene e non doveva mancare assolutamente un minimo di introduzione all’amplesso, un racconto degli aventi che vi avevano condotto: ero molto esigente in proposito!

    Mi ricordo di quando prestavo servizio nella Marina Militare, la mia nave faceva lunghi periodi in

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