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La Cicala
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Ebook184 pages2 hours

La Cicala

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About this ebook

La coinvolgente storia di Marco e dei suoi amici, che lo accompagnano lungo il percorso che compie, insieme a Sara, verso una vita nuova, nonostante la grave malattia che deve affrontare. Ambientato lungo la valle del Metauro, in un ambiente pieno di storia e di natura intatta, ripercorre il cammino difficile, affrontato con ironia e voglia di vivere, da una condizione di normalità insoddisfacente a una di invalidità pienamente appagante, con un aiuto che viene da lontano nel tempo ma è sempre lì accanto, Margherita.

Per info e contatti: http://www.fabioluzietti.com/
LanguageEnglish
PublisherYoucanprint
Release dateMar 24, 2012
ISBN9788866187714
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    La Cicala - Fabio Luzietti

    633/1941

    A Chiara

    la roccia su cui

    poggia questa storia

    A Elena e Marco,

    che a questa storia

    hanno dato un senso

    A Margherita,

    una presenza discreta

    e rassicurante

    Prologo

    Una passeggiata a due passi da casa, quasi per caso, e ti trovi improvvisamente in un altro mondo o piuttosto in un mondo altro rispetto a quello cui sei abituato. Questo breve romanzo

    è nato così.

    Avevo più volte sentito parlare di lei, la Beata Margherita della Metola, una terziaria domenicana, in pratica una suora laica, vissuta a cavallo fra il XIII e il XIV secolo. Nata cieca e storpia, abbandonata dai genitori all’età di sei anni, cresciuta in convento e poi figlia adottiva, fin da piccolissima era riuscita ad accettare il suo corpo e a dedicare la sua vita agli altri. La tipica storia di centinaia di santi, specialmente nel medioevo. La sua però mi aveva colpito di più, soprattutto per i particolari dell’infanzia, per la capacità, incredibile in una bambina, di affrontare il dolore. Ho sempre creduto che la santità, se davvero esiste, si guadagna con la vita, ma in questo caso no, sembra addirittura innata. E così decisi di andare a vedere più da vicino, per capire, imparare, accettare. Accettare, innanzitutto, accettare questo corpo, che non risponde più ai miei comandi. E poi imparare, soprattutto imparare che non sempre i desideri, i sogni riescono a diventare realtà, almeno non nel modo in cui ce li eravamo figurati all’inizio, ma spesso il risultato finale non è tanto peggio di quello che speravamo. Infine capire, capire come si possa amare, ascoltare, aiutare gli altri quando ci sembra che saremmo noi i primi ad aver bisogno di essere amati, ascoltati, aiutati.

    E così una mattina presto sono partito, da solo, per visitare i luoghi di Margherita. Ho risalito la valle del Metauro, fino alla valletta che conduce alla Metola, contrada rurale ormai disabitata. Il panorama è quello tipico della campagna umbro-marchigiana, con boschi che si alternano a campi coltivati, paesi ricchi di storia, piccole chiese di campagna, con una industria che cerca di farsi strada, nonostante la viabilità del tutto precaria.

    Appena infilata la stradina sterrata che conduce all’Oratorio della Metola il panorama cambia completamente. Intere cortine di rovi intrecciati a vitalbe formano fitte pareti ai lati della strada, mentre querce secolari creano una sorta di galleria che il sole forte di agosto scalfisce appena. Fermo il motore. Gli unici rumori sono un intenso frinire di cicale e il gorgoglìo sommesso del ruscelletto che scorre poco sotto la strada. Se potessi continuerei a piedi. Non posso. Riparto. Pian piano la strada sale, e la vegetazione si dirada, lasciando il posto a campi coltivati blandamente, quasi per sbaglio. L’ultimo tratto di strada si inerpica ripido e dissestato, quasi a voler conservare la quiete del luogo, e a trattenere gli automobilisti impreparati dal violare quel silenzio.

    In cima la strada, o quel che ne resta, spiana un po’. Un enorme casolare in pietra sorveglia severo il sentiero che porta all’Oratorio. E’ completamente diroccato, un abete cresciuto per caso nel salone spunta ardito dal tetto, quasi a voler dimostrare che ormai chi comanda è lui.

    Dove la strada si allarga appena lascio la macchina sul ciglio della scarpata, e scendo. Il vialetto che porta all’oratorio è poco più di una mulattiera, impensabile affrontarla su quattro ruote. L’oratorio sarà ad almeno cinquecento metri da lì. Che fare?

    Le mie zampette dicono: No, no. La testa chiede: Chi ti viene a riprendere? Il cuore mi dice: Cosa vuoi che sia mezzo chilometro?

    Per una volta nella vita decido di fregarmene delle buone ragioni, do retta al cuore.

    I primi passi sono i più difficili, nonostante l’aiuto del bastone fatico ad assestare i piedi sul terreno accidentato, l’appoggio è un po’ precario. Pian piano prendo le misure alla strada e a me stesso, sono anni che non cammino in mezzo all’erba. Ogni tanto mi viene da pensare che se cado ho l’alternativa di raggiungere un albero a carponi per rialzarmi o chiamare i Carabinieri col cellulare, quell'attrezzo che mi ha regalato mio padre per controllarmi, ma mi sforzo di guardare avanti e di continuare. Ormai la macchina è lontana, siamo in ballo e balliamo.

    Dopo un po’ mi fermo, appoggiato a una quercia sul ciglio del sentiero. Una idea strana, strana per un credente poco praticante come me, mi serpeggia in testa, insinuandosi fra gli altri pensieri. Perché lo sto facendo? La semplice curiosità di vedere un posto non basta a giustificare tutto questo. Rischiare di trovarmi in difficoltà e dover chiedere aiuto a qualcuno è una cosa che ho sempre evitato come la peste. Ma non sto forse già chiedendo aiuto a qualcuno? A lei? Sto chiedendo una grazia? Fa troppo pellegrinaggio a Lourdes. Sto chiedendo una mano? Già più accettabile. Certo che se in qualche modo Margherita riuscisse a correggere il mio patrimonio genetico tarato si avrebbe la prova lampante, inconfutabile, che i miracoli esistono, alla faccia di tutti i miscredenti. No, troppo plateale, un miracolo è una cosa più sottile. Dicono che i miracoli servono a chi non crede. Peccato però che siano disposti a crederci solo quelli che già ci credono. Rimuovo questi pensieri, a cavallo fra il mistico e il blasfemo, e tiro avanti.

    Di sicuro questo è il posto, fra tutti quelli che ho visto, che più ispira una idea di serenità, di pace fisica e spirituale. Un verde intenso mi circonda su ogni lato, numerose piante con tanti anni addosso fanno la guardia a quella piccola casupola che si vede in lontananza, come a volerla proteggere dal vento, dai suoni. Ci si sente come circondati da un mare di ovatta, che attutisce tutte le sensazioni senza spegnerle. Le cicale che in basso nella valle riempivano l’aria dei loro canti sembrano scomparse, quelle cicale che mi hanno sempre affascinato per la loro vita assurda, fino a quindici anni sotto terra e una breve estate a cantare la loro gioia.

    In alto sul colle occhieggia fra le piante una torre tutta storta. E’ la torre della Metola, ultimo residuo del piccolo castello in cui nacque Margherita nel 1287. Sembra lì per sbaglio. Non è raggiungibile da questo lato del colle. O almeno non è raggiungibile per me, bisogna arrampicarsi.

    Riprendo il cammino, un passo dopo l’altro, facendo attenzione a non inciampare sulle vitalbe che qua e là serpeggiano attraverso il sentiero. Con quelle potrei fare una frittata, una volta era la mia passione. Una volta erano tante le mie passioni,

    cercare cose nei boschi era una di quelle. Anche i noccioli sulla scarpata mi fanno l’occhiolino. Quassù probabilmente vengono in pochi a raccogliere, in paese dove ho chiesto informazioni hanno sgranato gli occhi quando ho parlato di questo posto. Osservando i rovi carichi fino all’inverosimile di more ne ho la conferma.

    Fra una cosa e l’altra mi sono dimenticato di prendere qualcosa da mangiare, e il mezzogiorno si sta avvicinando. Saltare un pasto aiuterà la mia dieta, e quel po’ di sofferenza potrà solo far bene alla richiesta di una mano a Margherita. Strada facendo comunque assaggio qualche mora, quelle più a portata di mano.

    L’ultimo tratto è molto in salita, sono lì lì per rinunciare, ma poi guardo indietro e mi rendo conto che quei venti metri, anche se ripidi, non sono niente in confronto a quelli che ho già fatto. Stringo i denti e arrivo in cima. Una panchina di pietra, o meglio delle pietre disposte a panchina, sembrano messe lì per me, sotto una quercia carica di storia, proprio al termine del sentiero. L’oratorio è molto piccolo, più ancora di quanto non sembrasse, tutto in pietra a vista, con qualche sasso a fermare i coppi sul tetto.

    Ha quasi quattrocento anni, e li dimostra tutti, nonostante qualche stuccatura a calce dimostri che qualcuno di recente ha cercato di aiutarlo a stare in piedi. Ai tempi di Margherita qui doveva esserci una casetta, o forse un ricovero per animali, poi sostituito nel Seicento dall’attuale costruzione per opera di un devoto della beata.

    Nel mio sentirmi fortissimamente padre mi rifiuto di accettare la leggenda che racconta come i genitori, distrutti dalla vergogna per una figlia cieca e deforme, la rinchiudessero in quel ricovero da animali per non farla vedere a nessuno, e preferisco pensare a una piccola casa solitaria con una grande balia a cui Margherita era stata affidata per tenerla al sicuro dalle lotte fra i castelli della zona. E quella balia, insieme a un parroco di campagna, più simile a un padre che a un insegnante, aveva fatto crescere la bimba circondata di affetto, di storie dal Vangelo e di leggende medievali, accrescendo la sensibilità già esasperata di una bimba il cui unico contatto con l’esterno erano l’udito e il tatto.

    Una brezza leggera da nordest mi accarezza dolcemente gli ultimi capelli rimasti, mi lascio cullare e mi abbandono ai pensieri. Il primo pensiero è triste. La mia infanzia è stata felice, mai avuto privazioni particolari e il contrasto con la storia che sono andato a cercare è lancinante, fa quasi male. Chiudo gli occhi e provo a tornare bambino. Ricordo la curiosità per tutte le cose nuove, gli esperimenti, le avventure che con mio fratello e qualche amico inventavamo nel giardino dietro casa. Le immagini scorrono veloci, confuse ma anche vive, presenti. E poi provo di nuovo a tornare bambino, ma un bambino diverso, senza occhi e senza la possibilità di correre. Cerco, stringendo forte gli occhi, di stabilire un contatto con quello che ho intorno usando tutti gli altri sensi. Giro la testa intorno, cercando di cogliere i piccoli rumori e di capire da dove provengano. Così è troppo facile, io so, conosco gli insetti e le cose che producono quei rumori. Mi fingo su un altro pianeta, dove tutto è nuovo, sconosciuto. Aspiro profondamente l’aria tiepida che mi porta forte il profumo degli abeti sotto la torre, insieme all’odore un po’ aspro della terra appena arata. E provo ad associare quei rumori e quegli odori a esseri strani ed evanescenti, sforzandomi di non dargli un aspetto definito ma lasciandoli in un alone incerto. Poi cerco di sentire con le mani tutto quello che ho intorno. Comincio dal bastone, questa presenza così odiata e cara, in alcuni momenti così rassicurante. Faccio scorrere le dita lungo il fusto, accarezzo la punta, morbida, gommosa, e poi risalgo verso il manico, a me così familiare. Ma così, con questa intensità, non lo avevo mai apprezzato, sembra diverso, vivo, con una sua identità. Mi alzo in piedi, e con la sensibilità che mi è rimasta cerco di sentire il terreno sotto di me, mentre faccio i tre passi che mi separano dalla casetta. Al terzo passo mi sbilancio in avanti, ma stringo forte gli occhi per non aprirli e spero di non aver sbagliato la distanza. Il muro è lì, forte, non mi tradisce. Accarezzo le pietre, una ad una, pensando alla loro età, che però è troppo grande, quasi indefinita. Da quanto tempo sono lì, murate? Penso a tutte le persone che come me si sono appoggiate e che sicuramente hanno lasciato un segno delle loro presenza, a tutte le cose che quelle pietre hanno visto, visi, tempeste, terremoti, senza mai lasciare il loro posto. Cerco di accarezzare tutte le mani che si sono appoggiate a quella pietra, le sento una ad una. Mani piccole, di bimba, mani callose di contadino, ancora sporche di terra ma calde, forti, mani di donna, sottili, sfuggenti. Ognuna di quelle mani ha una storia da raccontare e tutte, nessuna esclusa, sono venute fin qui per Margherita, e ognuna ha lasciato qui parte di se stessa. Quelle pietre sono la memoria di quel posto, e ad ognuno raccontano la stessa storia, sempre uguale ma diversa per ogni ascoltatore. Scorro lungo la parete, fino alla porta. Accarezzo il legno, anche lui lì da sempre. Spingo, ma è chiuso. Fa lo stesso, l’Oratorio non è la casa di Margherita, quella andò distrutta tanto tempo prima. Un passo dopo l’altro cerco di rendermi conto delle dimensioni di quello che sento. La casetta è piccola ma così palmo a palmo sembra non finire più, l’universo se non lo vedi è ancora più grande. Mi rendo conto che l’infinito lo si può capire, e soprattutto sentire, solo ad occhi chiusi. Anche Leopardi, per figurarsi l’infinito, dovette celarsi dietro una siepe.

    Finito il giro dell’Oratorio torno a sedermi sulle mie pietre. Forse su queste stesse anche lei, bambina, aveva trovato un solido appoggio alle sue esili membra, cercando con le mani di conoscere ed esplorare quel mondo precluso alla sua vista. Provo ad occhi chiusi a sentirmi neonato, e poi bambino, a immedesimarmi in Margherita.

    Sento il viso della

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