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Questo breve saggio presenta un esauriente excursus storiografico sui sistemi elettorali adottati in Italia dall’Unità ad oggi e descrive quelli in uso oggi nei principali paesi europei e del mondo democratico che sono entrati a far parte del nostro dibattito politico.

Dalla lettura di queste pagine si apprende così che in Italia solo in due precisi momenti storici, durante la dittatura fascista e negli anni in cui è rimasto in vigore il famigerato porcellum, gli elettori non hanno potuto scegliere direttamente i propri rappresentanti nel parlamento nazionale.

Un’opera divulgativa che, con stile semplice e immediato, si pone l’obiettivo di aiutare il lettore ad orientarsi all’interno di tematiche complesse che sono comunque diventate parte essenziale dell’attuale dibattito politico sulla riforma elettorale di cui in Italia si discute da oltre un ventennio.

Perché la riforma del sistema elettorale, vale a dire lo strumento attraverso il quale si seleziona la classe dirigente, è un tema essenziale per il funzionamento della democrazia, fatto che non può essere mai considerato materia riservata a ristretti gruppi di addetti ai lavori.

Gabriele Petrone è nato a Cosenza nel 1966. Laureato in storia moderna, dottore di ricerca in Modelli di formazione. Analisi teorica e comparazione, è docente di ruolo negli istituti superiori.

Dal 1991 collabora con la cattedra di Storia della pedagogia dell’Università della Calabria.

Ha all’attivo diverse pubblicazioni di carattere storiografico, tra cui I pionieri dell’alfabeto. L’azione dell’UNLA nella Calabria del secondo dopoguerra, Cosenza, Ionia, 1993,Il partito educatore. La formazione politica nel PCI, Cosenza, Ionia, 1997, Meridionalismo educativo in Fausto Gullo in Giuseppe Masi (a cura di) Mezzogiorno e Stato nell’opera di Fausto Gullo, Cosenza, Edizioni Orizzonti Meridionali, 1998, Storia dell’educazione in Francia. Temi, autori e testi, Cosenza, Ionia, 1999, Educazione, politica e antipolitica, Cosenza, Ionia, 2004, La Calabria che fece l’Italia. Il Risorgimento a Cosenza e in Calabria (1799-1861), Cosenza, Ionia, 2010.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateMar 10, 2015
ISBN9788891180520
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    Votare E(') Scegliere - Gabriele Petrone

    28.

    La prima legge elettorale dell’Italia unita

    La legge elettorale che elesse il primo Parlamento italiano (varata con decreto legislativo il 17 dicembre 1860 n° 4513) ricalcava, con alcune innovazioni, la legge precedente del 18 marzo 1848 che aveva eletto, fino al allora, i parlamenti del Regno di Sardegna.

    Le innovazioni riguardavano essenzialmente il diritto di voto che era riservato a:

    -   cittadini maschi di età superiore ai 25 anni;

    -   alfabetizzati (tranne i sardi, che già godevano del diritto di voto sin dal 1848 in forza della legge del 18 marzo 1848 ³);

    -   il pagamento di un censo di almeno 40 lire annue, cioè le tasse pagate sia a livello centrale che periferico.

    Avevano diritto al voto, al di là del censo, alcune categorie ben specificate dalla legge, e cioè:

    -   membri delle Accademie;

    -   membri delle Camere di Agricoltura e commercio;

    -   professori e insegnanti delle Regie accademie;

    -   professori e dottori delle Regie università;

    -   professori degli istituti d’istruzione pubblica secondaria;

    -   funzionari e impiegati civili e militari in servizio;

    -   membri degli organi equestri;

    -   laureati;

    -   procuratori presso i tribunali e le corti d’appello;

    -   notai, ragionieri, liquidatori, geometri, farmacisti e veterinari.

    Il sistema di scrutinio era basato su un sistema maggioritario a doppio turno su collegi uninominali che, al momento dell’Unità, erano 443. Diventeranno 493 con l’annessione del Veneto, e 508 con quella del Lazio, numero che resterà invariato in presenza di questo sistema elettorale fino al 1913, fatta eccezione per le tre legislature elette, come vedremo, col maggioritario plurinominale nel 1882, 1886 e 1890.

    I collegi, anche se dovevano comprendere una media di 1000 elettori, erano tutt’altro che omogenei e spesso travalicavano i confini provinciali, disegnati talvolta secondo le convenienze politiche dei gruppi dirigenti territoriali o delle esigenze di maggioranza ministeriale come si diceva allora.

    Era eletto il candidato che conquistava almeno il 50 % +1 dei suffragi e a condizione che i votanti fossero superiori a un terzo degli elettori di quel collegio. In caso contrario si procedeva a un ballottaggio tra i due candidati più votati al primo turno, in cui era eletto chi prendeva più voti. Se nel corso della legislatura il seggio rimaneva vacante, si procedeva a elezioni suppletive con le stesse regole.

    In forza di questa legge gli aventi diritto al voto erano appena l’1,9% della popolazione residente. Se poi si considera che la partecipazione al voto fu solo del 56,4% degli elettori (elezioni del 1861) la Camera (il Senato era di nomina regia) fu eletta da circa l’1% della popolazione.

    Questa legge, nata per uno Stato dai limitati confini regionali con un sistema politico già sufficientemente evoluto in più di un decennio di funzionamento (1848-1861) di istituzioni liberal-democratiche, nel momento in cui fu estesa a tutto il territorio nazionale non mancò di mostrare immediatamente alcuni evidenti limiti.

    Pesavano le limitazioni poste al diritto all’elettorato attivo che escludevano gran parte dei ceti anche piccolo-borghesi che pure erano stati assai attivi durante la fase risorgimentale.

    Tutto ciò non influì sulla vivacità della lotta politica come dimostra la grande quantità di candidati(nelle elezioni del 1861, pur stravinte dai moderati di Cavour, nel 24% dei collegi i candidati erano ben sei!) che determinò lo svolgimento di numerosi ballottaggi (nel 1861, 203 su 443 collegi), fenomeno che rimase una costante negli anni di applicazione di questo sistema.

    Il carattere ristretto dei collegi, inoltre, esaltava il carattere notabilare della rappresentanza che rimaneva appannaggio quasi esclusivo dei proprietari terrieri. Per essere eletti erano sufficienti poche centinaia di voti e, talvolta anche poche diecine, per cui un deputato era espressione spesso di una ristretta cerchia di grandi elettori.

    Questi difetti furono alla base delle critiche rivolte al sistema elettorale da parte della Sinistra storica e della cosiddetta Estrema, la combattiva rappresentanza repubblicana, democratica e mazziniana, lasciata ai margini del sistema politico.

    Altri grandi esclusi dal sistema politico erano i cattolici a causa del veto papale seguito all'occupazione di Roma nel 1870 che proibiva loro di partecipare alla vita politica di uno Stato considerato usurpatore del potere temporale della Chiesa.

    Il nuovo Stato liberale nasceva, dunque, con il limite dell’esclusione dalla vita politica non solo di importanti ceti sociali come quelli popolari e della piccola borghesia urbana, ma anche di culture politiche assai significative. Questa legge fu applicata nelle seguenti elezioni:

    * Il computo delle legislature prosegue quello del Regno di Sardegna.

    E' in questo quadro che, sostenuta soprattutto dalla Sinistra storica, maturò la domanda di una riforma del sistema elettorale al fine di garantire maggiore rappresentatività.

    Quando nel 1875 Agostino Depretis tenne il suo famoso discorso di Stradella, il suo collegio elettorale in provincia di Pavia, nel tracciare il programma del futuro governo della Sinistra pose tra i primi punti proprio la riforma della legge elettorale e l'estensione del diritto di voto.

    ³ La legge, comunque, per quanto riguarda questa specifica clausola, non prevedeva alcuna forma di controllo.

    La legge elettorale della Sinistra Storica

    La riforma elettorale fu varata dopo un ampio dibattito parlamentare (legge 24 settembre 1882 n° 899) che si sviluppò in particolare su alcune questioni:

    a) l'allargamento della base elettorale con posizioni che oscillavano tra la proposta di introdurre il suffragio universale maschile (sostenuto soprattutto da Francesco Crispi che, però, negli anni successivi, muterà radicalmente la sua posizione) e quella di un abbassamento del censo necessario e dell'età minima per accedere al diritto di voto;

    b) la riaffermazione del criterio della capacità intesa soprattutto come capacità culturale;

    c) la necessità di allargare territorialmente i collegi ed evitare una dipendenza eccessiva del deputato da interessi territoriali ristretti che, di fatto, impedivano la nascita di una rappresentanza realmente nazionale.

    In buona sostanza la legge elettorale, sull'esempio francese, doveva basarsi su quelli che erano considerati i pilastri della società del tempo: la scuola, la patria, il lavoro. La scuola esemplificata nell'accesso al voto per chi ha frequentato il biennio elementare obbligatorio; l'esercito anche a chi ha frequentato la scuola reggimentale; il lavoro, nel mantenimento del diritto per chi paga(va) un censo anche se fortemente ridotto

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