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Che cosa stai aspettando!
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Che cosa stai aspettando!

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In questa storia il buco nero dell'infanzia si consuma in poche righe; inizia successivamente, già durante l'adolescenza, la ricerca spasmodica di emozioni, prima attraverso il cibo, poi attraverso amori difficili, quasi con un desiderio di autodistruzione. Segue miracolosamente la mia rinascita: smetto con ogni dipendenza, dimagrisco trenta chili, decido di risolvere i miei problemi economici lavorando per un'agenzia di "accompagnatrici"... Infine l'incontro con uomo, che mi ha costretta a guardarmi dentro. Con i miei cani, cavalli, ecc. (anch'essi in parte protagonisti di questo romanzo) da circa 20 anni vivo in mezzo ad un bosco dove ho imparato a sollevarmi dalle tante cadute di una vita vissuta spesso al limite. Da subito gli animali selvatici mi sono stati portatori di messaggi, con una puntualità e verità da lasciarmi allibita. Una sera, sopra il quaderno del mio romanzo, si è fermato un piccolo ragno (porta bene), il tempo di farsi notare e se ne è andato. Anche per questo ho deciso di non lasciare il mio libro in un cassetto.
LanguageItaliano
Release dateNov 6, 2012
ISBN9788866900993
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    Che cosa stai aspettando! - Lu Paer

    1

    Sono nata in un paesino sperduto di montagna dal quale ho sempre desiderato fuggire. Mi sentivo soffocare da quelle cime alte e buie che consideravo un ostacolo verso l’infinito, finché, ormai quarantenne, ho iniziato a scalarle e ad amarle, se pur con un rapporto di toccata e fuga. Mi è capitato spesso, infatti, di essere in parete la mattina e di sentire il bisogno di vedere il mare nel pomeriggio.

    Della mia infanzia non ho memoria, ma credo sia stata un incubo. Mia madre mi rinfacciava spesso di averle causato un parto doloroso: non volevo nascere; penso ci sia una prudenza nascosta dentro di noi che a volte ci fa percepire cosa ci aspetta. A pochi giorni di vita, poiché ero una bambina impegnativa, mi affidò a un’altra famiglia e, forse per sopravvivere al distacco, si dimenticò di avere una figlia. Pure questo me lo fece pesare, tanto che solo da adulta associai questo abbandono non soltanto al suo dolore, ma anche al mio.

    È resistito al buco nero di quegli anni unicamente il ricordo di un cucciolo di elefante bianco e rosso dal quale non mi staccavo mai. Ora, uno dei sogni che intendo realizzare, è fare del volontariato proprio negli orfanotrofi degli elefantini la cui madre viene abbattuta dai bracconieri; sogno che rinvio perché ho la sensazione che se vado rimango e non torno più.

    Sono sempre stata attirata da una vita essenziale, frugale, libera, se poi in simbiosi con questi meravigliosi animali... sento che per me è un richiamo irresistibile.

    Tornando alla mia infanzia, suppongo mi abbia salvata la presenza di una vecchia zia che mi ha amata, accolta e in parte cresciuta, fino a quando – avevo 12 anni – l’ho vista accasciata nel cortile di casa stroncata da un infarto. Dopo il dolore per la sua perdita subentrò, a volte, un impercettibile sollievo che subito scacciavo in preda ai sensi di colpa: capivo che la mia solitudine subita si stava trasformando, piano piano, in una solitudine voluta.

    Solo negli anni mi sono perdonata, quando ho realizzato che questa sensazione derivava dal mio bisogno di essere libera, senza vincoli affettivi, poiché, ero certa, amavo mia zia al punto che per lei avrei fatto qualsiasi cosa. La mia vita è sempre stata in bilico fra il bisogno di dare, proteggere, accudire e l’esigenza fortissima di sciogliermi da tutto e andarmene sola.

    Ora ho capito che entrambi questi aspetti mi appartengono, e ho imparato a dosare. Gesù stesso invitava a non promettere, poiché nella promessa risiede la negazione stessa della nostra libertà.

    2

    Con la morte di mia zia smisi di essere la bambina ribelle con le croste di due centimetri sulle ginocchia per le infinite cadute dalla bicicletta. Ricordo soprattutto le estati, l’odore dell’erba e degli alberi sui quali appiccicavo il naso quando mi arrampicavo... e gli sguardi dei ragazzi che mi notavano: ero sola, disperata, ma bella.

    E presto capii che le prime carezze erano un antidoto al mio dolore, una rivincita a quel senso di diversità, di isolamento, al non sentirmi accolta.

    Nacque così il bisogno di provocare. Si provoca quando si guarda in faccia la propria solitudine e si sente il bisogno di essere importanti per qualcuno. Durò poco, perché quando entrai a far parte a tutti gli effetti della mia famiglia, dove mi sentivo un’estranea, la ragazzina splendida dai capelli biondi e le gambe lunghe si trasformò in una cacciatrice non più di uomini, ma di cibo.

    La presenza insofferente e ostile di mia madre mi scatenava attacchi bulimici; passavo dai digiuni alle abbuffate durante i quali riuscivo a ingrassare e dimagrire anche cinque chilogrammi in una settimana.

    E la fatica di mentire...

    Perché in tutta la mia vita non ho mai conosciuto una donna magra che si abbuffi (a meno che non vomiti) e una grassa che digiuni.

    A dare il colpo di grazia ci pensò quel soggiorno obbligato cui i miei mi mandarono durante l’estate dei miei quindici anni, da una parente psicopatica che, con la scusa della salute, mi costrinse per tutto il tempo a tre colazioni, quattro pranzi e altrettante cene nell’arco della giornata; il tutto condito da infiniti spuntini. Il dramma fu che, dopo le prime due settimane, non doveva più costringermi perché mangiavo spontaneamente e volentieri.

    Troppo.

    Infatti quella vacanza mi costò otto chilogrammi di grasso e cellulite. Il rientro a casa fu drammatico. Le frecciatine di mia madre si amplificarono poiché ora i suoi commenti e le battute riguardavano anche il mio aspetto fisico.

    Una volta litigai con mio fratello maggiore, il suo pupillo, per difendere il più piccolo che, disperato, minacciava di lanciarsi dalla finestra del bagno. Scesi di corsa nel cortile di casa con lo scopo di prenderlo se lo avesse fatto sul serio. Nel frattempo mia madre rincasò dal lavoro e ascoltò, tanto per cambiare, solo la versione del figlio prediletto.

    Mi chiuse fuori, era fine novembre e faceva un freddo cane, avevo addosso solo una camicia da notte in cotone.

    Provai ad aprire la porta d’entrata, ma era chiusa dall’interno.

    A causa dell’ingiustizia subita ero troppo ferita e arrabbiata per bussare. Dopo un paio d’ore sentii una finestra aprirsi, mi avvicinai, ma subito venne richiusa. Trovai sul pianerottolo un copriletto di tela leggera: era il suo augurio della buona notte.

    Lo raccolsi e me lo misi addosso, ma dopo qualche ora, rannicchiata nel sottoscala, non sentivo più mani e piedi. Decisi quindi di incamminarmi verso l’abitazione di una signora che ogni tanto mi accudiva da piccola, e suonai il campanello. Quando mi aprì le chiesi se poteva ospitarmi per la notte; allibita per l’accaduto mi accomodò sul divano e riaccese la stufa.

    L’indomani mattina tornai a casa per cambiarmi prima di recarmi a scuola, la porta era aperta... Mia madre non mi chiese dove avessi dormito e non mi parlò per mesi, né io a lei.

    Un’altra volta, durante l’ennesima lite col suo pupillo, mi abbassai per evitare un pugno da lui indirizzato al mio viso. La sua mano planò inevitabilmente sulla porta a vetri alle mie spalle, che rompendosi lo ferì.

    Mia madre, preoccupatissima, caricò in auto mio fratello e si precipitò al pronto soccorso per le medicazioni.

    Quando rientrarono, lei non mancò di dirmi che avrei dovuto incassare il colpo, così il poverino non si sarebbe tagliato.

    Forse anche per questo non ho mai voluto figli... per il timore di fare gli stessi suoi errori; sentivo con tutta me stessa che se fossi morta o sparita ne sarebbe stata sollevata.

    Tutt’ora reagisco violentemente a prediche e ingiustizie, anche se non mi riguardano, poiché di solito sono i prepotenti che le infliggono ai più deboli.

    Ricordo una sera, avevo sedici anni, sentii, quasi in trance, un’attrazione fortissima verso un grosso camion che si stava avvicinando, ma all’ultimo mi bloccai.

    Poi cominciarono le voci nella mia testa, erano sempre femminili, cattive, assillanti. Non ne capivo il senso e le parole, mi aggredivano quando ero da sola e se mi trovavo nei campi a giocare correvo a più non posso per sfuggirle e rincasare. Allora cessavano, ma una volta al sicuro ero ancora più sola.

    Una sera mi ritrovai con la faccia riversa in un fosso a leccarne l’acqua putrida mentre venivo trattenuta giù, sempre più giù, da quella vocina che impietosa mi sussurrava: sei brutta, sporca… devi espiare. Molto tempo dopo un amico psicologo mi disse che in quel frangente il mio equilibrio mentale aveva rischiato di frantumarsi. Mi ero salvata poiché evidentemente avevo combattuto contro una schizofrenia altrimenti inevitabile.

    3

    Seguirono gli anni delle superiori, un incubo di regole e imposizioni e quel gelo quando tornavo a casa dalla scuola... i passi di mia madre nel corridoio mentre si avvicinava alla porta della mia camera e la certezza, col cuore in gola, che ne sarebbe seguita una predica.

    Era ingiusta, non mi fidavo di lei. Aveva occhi solo per il fratello maggiore: viziato e manesco.

    Mio padre non infieriva, ma non c’era mai.

    L’indole festaiola che in parte mi ha trasmesso lo portava lontano, e questo faceva incazzare ancora di più mia madre.

    Ma in questo mare di disperazione avevo un amico, forse anche un amore, non lo saprò mai, che sentivo protettivo, vicino e presente. Ricordo soprattutto la sua generosità che a diciassette anni gli costò la vita mentre in moto accompagnava a casa una ragazza sconosciuta che aveva perso l’autobus. Durante il tragitto in una curva furono investiti da un’auto che lo uccise sul colpo.

    Qualche giorno prima, ridendo, mi disse che la mattina una zingara gli aveva letto la mano; la vide impallidire mentre gli riferiva che non avrebbe mai compiuto diciotto anni. Non gli credetti, e ignorai la sua voglia di attenzioni. Fu l’ultima volta che lo vidi.

    Anche l’ultimo suono della sera si inchina al tuo silenzio

    dove vanno ora i tuoi pensieri

    cosa

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