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L'editoria italiana nell'era digitale - Tradizione e attualità
L'editoria italiana nell'era digitale - Tradizione e attualità
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L'editoria italiana nell'era digitale - Tradizione e attualità

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L’e-book celebra la grande tradizione del libro italiano: si apre con la storia del libro italiano dalle origini della stampa ai giorni nostri (G. Chiarle); una carta mostra i luoghi in cui fiorirono le prime tipografie (F. Sabatini); F. Malaguzzi descrive alcune splendide rilegature d’arte, mentre L. M. Sebastiani si sofferma sulle iniziative per la catalogazione e la rivitalizzazione delle biblioteche nazionali e M. Biffi illustra la biblioteca digitale dell’Accademia della Crusca. C. Marazzini presenta dieci grandi opere italiane nate all’estero, mentre L. Tomasin esamina l’editoria italiana in Svizzera. E. Lanfranchi affronta il ruolo storico e futuro dei vocabolari con interviste ai maggiori lessicografi italiani. Chiude l’opera il glossario su "Le parole del libro" (a cura di A. Musazzo).
LanguageItaliano
PublishergoWare
Release dateOct 16, 2014
ISBN9788889369616
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    L'editoria italiana nell'era digitale - Tradizione e attualità - Accademia della Crusca

    © 2014 Accademia della Crusca, Firenze – goWare, Firenze

    ISBN 978-88-89369-61-6

    LA LINGUA ITALIANA NEL MONDO. Nuova serie e-book

    L’editore ringrazia tutti coloro che hanno concesso diritti su testi e immagini e resta a disposizione degli eventuali altri aventi diritto.

    Nessuna parte del libro può essere riprodotta in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo senza l’autorizzazione dei proprietari dei diritti e dell’editore.

    In copertina: Il sito dell’Accademia della Crusca: www.accademiadellacrusca.it

    Accademia della Crusca

    Via di Castello 46 - 50141 Firenze

    +39 55 454277/8 - FAX +39 55 454279

    Sito: www.accademiadellacrusca.it

    Facebook: https://www.facebook.com/AccademiaCrusca

    Twitter: https://twitter.com/AccademiaCrusca

    YouTube: https://www.youtube.com/user/AccademiaCrusca

    Contatti: http://www.accademiadellacrusca.it/it/contatta-la-crusca

    Impaginazione a cura di Exegi snc, Bologna.

    Cura editoriale: Enrico Lanfranchi

    Questo e-book celebra la grande tradizione del libro italiano antico e moderno, in cui cultura, sapere e tecnica editoriale si sono combinate per secoli al fine di trasmettere efficacemente bellezza, arte e idee nuove.

    G. Chiarle apre il percorso con la storia del libro italiano dalle origini della stampa ai giorni nostri, arricchita da una preziosa carta realizzata da F. Sabatini con i luoghi in cui nella penisola fiorirono le prime tipografie.

    La nobilitazione del libro-oggetto attraverso le rilegature d’arte è il tema affrontato da F. Malaguzzi, mentre le iniziative italiane e internazionali per la catalogazione e la rivitalizzazione in Internet degli immensi patrimoni delle nostre biblioteche sono argomento della rassegna di L. M. Sebastiani; M. Biffi illustra la ricca biblioteca digitale dell’Accademia della Crusca.

    La dimensione europea e internazionale emerge sia dal saggio di C. Marazzini (dieci opere fondamentali italiane nate fuori dei confini d’Italia) sia dal contributo di L. Tomasin sull’editoria italiana in Svizzera.

    E. Lanfranchi si sofferma sul ruolo storico e futuro dei vocabolari, rifacendosi all’impegno costantemente profuso dall’Accademia della Crusca per il mantenimento e il rinnovamento della tradizione lessicografica. Il saggio si chiude con una serie di interviste ai maggiori lessicografi italiani di oggi (V. Coletti, T. De Mauro, L. Enriques, G. Patota, L. Serianni, R. Simone).

    A. Musazzo ha curato il glossario finale che sotto il titolo Le parole del libro raccoglie i termini dell’editoria, della stampa, della tipografia e della rilegatura.

    INTRODUZIONE

    Claudio Marazzini

    Quando ho saputo che la Settimana della lingua italiana, che coincide quest’anno con gli Stati generali della lingua, avrebbe avuto per tema il libro, e quando, secondo una tradizione consolidata, il Ministero degli affari esteri ha affidato all’Accademia della Crusca il compito di preparare una pubblicazione che accompagnasse l’evento, sono stato animato da un entusiasmo particolare: non solo amo i libri come strumento di lavoro e come mezzo di diffusione del sapere, ma inoltre chi mi conosce bene sa che sono un bibliofilo. Molti anni fa ho pubblicato presso la casa editrice Zanichelli il volume La rilegatura artigianale e d’arte (1986). Si tratta di un titolo ormai fuori catalogo, da tempo esaurito, che ebbe un certo successo, tanto che molti colleghi mi chiedevano dubbiosi: ma quel Marazzini che ha scritto il libro sulla rilegatura sei proprio tu? La rilegatura artigianale e d’arte appariva infatti un prodotto eterogeneo rispetto alle pubblicazioni di storia della lingua italiana che costituivano la mia normale attività accademica. In realtà il nesso c’era. Avevo incominciato a occuparmi di rilegature per gestire il patrimonio bibliografico che andava crescendo man mano che proseguivo nella mia carriera di studioso, così come ora crescono nel mio PC, nel tablet e persino nel telefono cellulare, i file PDF scaricati gratis da Google libri e da Archive.org, qualche volta acquistati da Play books. Tuttavia ero (e resto) convinto che il contatto materiale con il libro d’epoca insegni qualche cosa di più rispetto all’uso di una riedizione moderna o di un’immagine in PDF o di una digitalizzazione XML pur ben fatta (e non lo sono tutte). Il libro d’epoca conserva infinitamente meglio il profumo della storia di cui è esso stesso documento originale. Basta prenderlo in mano per capire più profondamente, quasi per contatto fisico, il nostro passato.

    È vero però che il Ministero degli esteri ci ha chiamati a una prova di modernità, perché ci ha chiesto quest’anno, a differenza degli anni passati, un libro elettronico, un e-book, come si dice con parola inglese. Il rapporto tra libro di carta ed e-book non si manifesta sempre in forme pacifiche. Basti pensare all’accelerazione che il ministro dell’istruzione Francesco Profumo tentò di imporre all’editoria scolastica per renderla totalmente elettronica nel più breve tempo possibile. La ministra che seguì Profumo, la professoressa Maria Chiara Carrozza, frenò per fortuna tale processo, ricevendo in cambio assurde accuse di aver ceduto agli interessi degli editori: quasi che il libro elettronico fosse esente da interessi venali, quasi che non favorisse i produttori di oggetti informatici, fra l’altro molto più potenti dal punto di vista commerciale.

    Tralasciamo tuttavia il problema del libro elettronico nella scuola, limitandoci a rilevare che il giusto intervento della ministra Carrozza ha salvato molti posti di lavoro qui in Italia, nella case editrici nostrane, cosa che non sarà da disprezzare. Il libro elettronico, frattanto, procede per la propria strada secondo i tempi della storia, i quali non necessitano delle spinte impresse da manovratori italiani. Non è necessario anticipare gli eventi con ingenuo entusiasmo per ogni innovazione tecnologica che si incontra. Anzi, vedo con piacere il libro di carta e il libro elettronico convivere al di fuori della competizione commerciale. Sarà un’utopia, ma li immagino in una situazione analoga a quella delle innovazioni linguistiche, le quali coesistono a lungo con le forme tradizionali che già la lingua possiede. Viene poi il giorno in cui l’innovazione emerge con più forza, talora finisce per scalzare la forma tradizionale, ma qualche cosa resta. Il libro a stampa ha vinto il manoscritto, ma non per questo abbiamo smesso di scrivere a mano. Per fortuna, si potrebbe aggiungere, anche se alcuni appassionati di quella che io chiamo la corsa davanti alla storia vorrebbero ora abolire la scrittura manuale nelle scuole primarie. Per corsa davanti alla storia intendo il tentativo un po’ ingenuo di battere la storia stessa in velocità, anticipandone (come mosche cocchiere) quelli che noi crediamo esserne gli esiti ineluttabili. Penso che il libro elettronico e quello di carta potranno convivere ancora a lungo. Ognuno di essi ha uno spazio specifico in cui si avvantaggia sull’altro. Non sono affatto completamente sovrapponibili.

    Quest’anno, comunque, il libro dell’Accademia della Crusca per la Settimana della lingua italiana è elettronico nella forma autentica (non solo un semplice PDF), ma questo libro elettronico celebra la tradizione del libro di carta che per secoli l’ha preceduto. Antico e moderno si collocano dunque sotto il segno della continuità. Il volume si apre con un’ampia rassegna storica di Giancarlo Chiarle sul passato glorioso dell’editoria italiana: si tratta di un vero e completo manuale di storia dell’editoria italiana, molto attento non solo ai fatti culturali, ma anche alle tecniche tipografiche e alle innovazioni tecnologiche. Una mappa delle tipografie italiane dei secoli XV e XVI, redatta da Francesco Sabatini, integra questo panorama. Segue una sintesi di F. Malaguzzi sulla storia della rilegatura, cioè il vestito o corazza con cui il libro si difende dai danni esterni per resistere al tempo e talora si fa ammirare per la bellezza dei decori, trasformandosi in opera d’arte. Si segnalano in particolare le schede che seguono il saggio di Malaguzzi, nelle quale l’autore illustra e commenta con rigoroso linguaggio tecnico alcune legature rinascimentali di grande bellezza, riprodotte fotograficamente.

    Naturalmente non ci siamo limitati a rievocare il glorioso passato. Il saggio di Letizia Sebastiani presenta una rassegna degli strumenti elettronici, dei progetti, delle iniziative italiane e internazionali con cui sono stati catalogati e rivitalizzati in Internet gli immensi patrimoni librari delle nostre biblioteche. Leggendo il suo intervento si resterà colpiti dal livello di competenza tecnologica richiesto oggi a chi opera con alta responsabilità nel settore delle biblioteche. La figura del bibliotecario moderno, paragonata con quella tradizionale fino a pochi anni fa, sembra totalmente nuova, quasi discendesse da un mondo futuribile. Marco Biffi, a sua volta, mostra quanto è stato realizzato nell’Accademia della Crusca, la cui pagina web offre una magnifica biblioteca digitale nel settore della tradizione linguistica, oltre che un esemplare motore di ricerca operante sulle quattro edizioni del Vocabolario (in fase di completamento la quinta). Il trasferimento sul web di documenti, libri, cataloghi e risorse è stato compiuto brillantemente dall’Accademia, tanto che risulta uno dei suoi vanti.

    Alcuni saggi del libro per la Settimana della lingua italiana sono nati da una sollecitazione esplicita del Ministero degli affari esteri, committente del volume. Il Ministero ha mostrato interesse non solo per gli aspetti moderni del libro nella sua forma elettronica e in relazione alla moderna catalogazione (anche questa elettronica), ma soprattutto ha sollecitato interventi in cui emergesse una dimensione europea. La misura che si assume di solito per valutare la circolazione internazionale dei libri è la varietà e quantità delle loro traduzioni. Attraverso di esse, com’è evidente, si può giudicare la fortuna dei nostri classici oltre confine, la loro influenza su altre culture; allo stesso modo, ma in prospettiva rovesciata, le traduzioni di libri stranieri in italiano mostrano le preferenze dei nostri lettori. In quest’occasione, realizzando il nostro libro, abbiamo scelto tuttavia un metro diverso, meno consueto, per soppesare la dimensione internazionale: abbiamo individuato una serie di opere italiane le quali, in un arco cronologico che va dal secolo XVI al XIX, sono state date alle stampe in prima edizione fuori dei confini italiani, cioè sono nate all’estero. Nonostante il battesimo oltre confine, appartengono tuttavia a tutti gli effetti alla cultura italiana, anche se alcune sono scritte in latino o in francese. Per dare un’idea della varietà e del peso di questi libri, basti dire che il primo della serie è il De vulgari eloquentia di Dante, e l’ultimo è il LEI, il maggior dizionario etimologico italiano, ancora in corso di stampa. In mezzo, tra questi due punti estremi, ci sono autori come Giordano Bruno, Paolo Sarpi, il Cavalier Marino, Goldoni, Alfieri, Gioberti… Tutti costoro hanno dato alle stampe all’estero opere importantissime. Ne deriva un’immagine meno chiusa della tradizione italiana, la quale si allarga nello spazio geografico e si estende oltre la scelta di un singolo idioma, acquisendo un’indubbia dimensione europea, un quadro internazionale di tutto rispetto che coinvolge città come Parigi, Londra, Berlino, Bruxelles, Ginevra. Si delineano inoltre differenti tipologie, che permettono interessanti riflessioni sulla storia materiale del libro, in riferimento ai caratteri di stampa, alle dedicatorie, ai frontespizi, tutti elementi materiali utili per completare la storia, per dir così, ‘spirituale’, alla quale siamo più comunemente abituati. Ancora sul versante dei riferimenti internazionali, segnalo che il nostro volume contiene un’eccellente disamina ampia e nuova dedicata da Lorenzo Tomasin all’editoria italiana in Svizzera. Ritengo sia un contributo importante, dedicato a uno stato estero che ci è particolarmente vicino non solo per ragioni di confine, ma anche perché l’italiano vi è lingua ufficiale e nazionale.

    L’Accademia della Crusca ha come primo compito storico la lessicografia: il libro si chiude infatti con un brillante saggio di Enrico Lanfranchi sui dizionari di oggi, di fronte alla sfida dell’elettronica. In realtà questa non è proprio la chiusura, perché segue una sorta di appendice di carattere diverso, essa stessa di ispirazione lessicografica: nelle ultime pagine del libro abbiamo collocato un glossario, compilato da Andrea Musazzo, destinato a contenere quelle che abbiamo chiamato Le parole del libro, cioè i termini dell’editoria, della stampa, della rilegatura, con la spiegazione del loro significato. Non ci sono solo i termini antichi propri di un’affascinante arte artigiana d’un tempo, ma anche le parole dell’e-book e dell’editoria digitale, una sorta di artigianato del presente. Naturalmente sarà possibile scoprire nostre lacune in questo settore che coniuga antico e moderno, ma lo scopo era (ancora una volta) segnalare la continuità di un patrimonio proprio della nazione italiana, la quale per molto tempo è stata alla guida delle innovazioni librarie (si pensi al libro da bisaccia che Aldo Manuzio adottò per i testi poetici di Dante e Petrarca). Quando gli italiani non giungevano per primi (non dimentichiamo che la stampa a caratteri mobili era invenzione germanica e arrivò da noi portata da maestri di bottega e lavoranti tedeschi), erano tuttavia lesti a sfruttare brillantemente le novità forestiere, e il successo era garantito dal fatto che gli intellettuali italiani, ad esempio Pietro Bembo, erano capaci di interpretare al meglio le esigenze del proprio tempo.

    Un’accademia come quella della Crusca ha tra i suoi compiti anche l’uso delle novità tecnologiche allo scopo di trasmettere e rivitalizzare un patrimonio antico che sarebbe errato sottovalutare, perché si danneggia il Paese se si sposa la causa della modernità in quanto tale, coniugandola con l’oblio del passato in una sorta di superbia della tecnologia. Tecnologia e innovazione devono essere invece un servizio offerto a quello che ormai non si chiama più patrimonio culturale (termine segnato da troppo mercantilismo), ma, con espressione inglese, cultural heritage, l’eredità meravigliosa degli uomini che ci hanno preceduto. Per questo siamo lieti di poter offrire questo percorso attraverso cinquecento e più anni di storia del libro italiano.

    Claudio Marazzini

    Presidente dell’Accademia della Crusca

    LA GRANDE TRADIZIONE ITALIANA DELL’EDITORIA

    Dal Rinascimento a oggi

    Giancarlo Chiarle

    1. Da est a ovest, da nord a sud

    La produzione ed il commercio del libro manoscritto conobbero un notevole sviluppo nell’Italia del Quattrocento toccando livelli di grande splendore grazie soprattutto agli umanisti che, oltre a recuperare i testi classici che giacevano ormai dimenticati nelle biblioteche dei monasteri, elaborarono nuovi modelli di libro e di scrittura e alle officine dei cartolai, dove si lavorava a pieno ritmo per rifornire di codici preziosi le biblioteche dei prìncipi. Il più famoso di questi librai, Vespasiano da Bisticci, riceveva commissioni dai Medici, dai Montefeltro, dagli Estensi, dagli Aragonesi, e dava lavoro a decine di amanuensi fiorentini. Le biblioteche pubbliche rinacquero a Firenze[1] dando un significativo contributo alla trasformazione dei Medici da mercanti in prìncipi. Un umanista arrivato in città con l’idea di vender libri vi trovò librariorum magnus numerus e refertissimae scoprì essere le Florentinorum bibliotechae[2].

    La nuova materia scrittoria, la carta ‘papiracea’ o ‘bambagina’, era giunta in Italia da oriente secoli prima attraverso la mediazione islamica (il più antico documento cartaceo d’Europa conservato è un atto della corte di Palermo del 1109, scritto in greco e in arabo; un successivo documento notarile genovese del 1156 è scritto su carta di provenienza araba[3]), ma erano stati i cartai di Fabriano, dopo la metà del Duecento, a migliorarne in modo decisivo la qualità, sfruttando l’energia idraulica per sminuzzare gli stracci, adottando la collatura animale e adottando la filigrana. Per molto tempo le cartiere italiane poterono godere di un regime di quasi monopolio in Europa. Il costo notevolmente inferiore rispetto alla pergamena e la sua superficie liscia e regolare rendevano la carta il supporto ideale per la stampa. Fiunt enim plura chartarum genera… Firmior est libraria, ad libros aptissima scriverà nel 1494 un altro umanista[4].

    Su carta italiana, proveniente da Caselle in Piemonte, Gutenberg stampò la Bibbia delle 42 linee, il primo compiuto libro tipografico, come pure italiana è la più antica testimonianza che ne abbiamo:

    De viro illo mirabili apud Frankfordiam viso nihil falsi ad me scriptum est. Non vidi biblias integras, sed quinterniones aliquot diversorum librorum, mundissime ac correttissime litterae, nulla in parte mendaces, quos tua dignatio sine labore et absque berillo legeret[5].

    Il 12 marzo 1455, mentre si trovava in Germania, l’umanista Enea Silvio Piccolomini scriveva al cardinale Juan de Carvajal di aver visto lui stesso a Francoforte, l’ottobre precedente, i quinterni della Bibbia che l’uomo ‘mirabile’, evidentemente già famoso, aveva portato di campione alla fiera e di essere rimasto impressionato dalla correttezza del testo e dalla chiarezza dei caratteri, che si potevano leggere ‘senza fatica e senza occhiali’. Ma era ormai tardi, temeva, per acquistare una copia perché buona parte delle 158 che gli risultavano prodotte (altri dicevano 180) erano andate esaurite già prima della fine del lavoro.

    La nuova ‘ars artificialiter scribendi’, punto d’incrocio delle due culture umanistica e tecnica, non era germinata nelle botteghe o negli studioli della dotta penisola, ma nei laboratori di lavorazione dei metalli dell’operosa Renania. Dall’inizio del secolo, in Italia, in Germania e nei Paesi Bassi, si stampavano in silografia (incisione in legno) immagini sacre, carte da gioco, soggetti profani, e riunendo fogli e aggiungendo didascalie si producevano libri tabellari. Ma non era la strada. Più di uno si mise a cercare nuove soluzioni: l’idea era quella di utilizzare, al posto delle fragili matrici di legno che occorreva incidere pagina per pagina, elementi intercambiabili e componibili costruiti in robusto metallo. Fu così che dalle botteghe degli orafi, dei monetieri e dei peltrai derivarono i princìpi della tipografia, stampa in rilievo con caratteri mobili (tipi) fusi in lega di metallo.

    Gutenberg, nato in tale ambiente, perfezionò la sua invenzione a Magonza sfruttando i capitali del socio Johann Fust. I suoi apporti più originali furono la tecnica per la produzione in serie dei caratteri, essenziale per rendere economica l’invenzione, e la realizzazione di un tipo d’inchiostro che aderiva al metallo[6]. Ma dopo tre anni l’accordo si ruppe e Gutenberg dovette cedere buona parte delle attrezzature a Fust, che, mentre le tracce dell’inventore si perdono (morirà nel 1469), costituì un’altra società con l’operaio Peter Schöffer, suo genero. Furono loro a pubblicare, nel 1457, il primo libro a stampa con il colophon finale con la data e le sottoscrizioni, un Salterio. Ma negli anni successivi molti operai lasciarono Magonza, insanguinata nel 1462 dalla guerra civile, e a diffondere la nuova arte altrove.

    Per loro la Terra Promessa era l’Italia, con le sue ricche biblioteche in formazione, le cartiere, i traffici, i conventi, le corti, le scuole. Nel giro di una ventina d’anni, mentre più di trenta di questi prototipografi venivano nel nostro paese, si sguarniva la terra d’origine: intorno al 1480 il sorpasso era ampiamente avvenuto. A fine secolo l’Italia contava quattrocento officine in settantaquattro centri, contro le duecento della Germania. Venezia era la capitale della nuova arte, ma furono toccati anche molti piccoli centri che per questo oggi hanno l’onore di una citazione negli annali tipografici delle origini.

    Uno dei primi a venire in Italia fu Johann Neumeister, secondo la tradizione ex operaio di Gutenberg, che a Foligno stampò l’editio princeps (la prima edizione a stampa) della Commedia di Dante, i cui nitidi caratteri furono realizzati dall’orafo e zecchiere pontificio Emilianio degli Orfini. Nello stesso 1472 altre due edizioni del capolavoro dantesco furono pubblicate a Mantova e a Iesi (o Venezia)[7]. Ma non ci fu riscontro economico e l’anno dopo Numeister finì in prigione per debiti. Tornò a Magonza, di lì passò in Francia, stampò ad Albi e a Lione e finì la carriera, nel 1498, come semplice lavorante[8].

    Gli uomini di chiesa compresero subito quale formidabile strumento potesse rappresentare la tipografia per l’apostolato. Secondo quanto scrisse l’umanista Andrea Bussi, per anni suo segretario, il cardinale e grande filosofo Nicolò Cusano, l’intellettuale più in vista del mondo germanico,

    peroptabat ut haec sancta ars, quae oriri tunc videbatur in Germania, Romam deduceretur[9].

    Ci pensarono due chierici tedeschi, anch’essi esuli da Magonza, Conrad Sweynheym e Arnold Pannartz, i primi tipografi attivi in Italia[10]. Non si sa se fossero stati chiamati (dall’abate Juan de Torquemada o, appunto, da Cusano), o semplicemente seguissero un’intuizione, quando, nel 1464, vennero nel monastero di Santa Scolastica di Subiaco, impiantarono una tipografia e pubblicarono quattro incunaboli, come convenzionalmente si chiamano i libri ‘in fasce’ stampati prima del 1501: il primo fu un Donatus, una grammatichetta per scolari alle prime armi di cui non ci è pervenuta copia; il secondo, il De oratore di Cicerone; il terzo, una raccolta di opere di Lattanzio, è il primo a recare la data (ottobre 1465) e contiene i primi caratteri greci usati in Italia; il quarto è il De Civitate Dei di Agostino. A non tener conto del discusso Frammento Parsons, otto carte di un’operetta di devozione popolare secondo alcuni impressa in area emiliana già nel 1463, sono i primi libri stampati in Italia[11].

    Non solo la scelta delle opere, ma anche i caratteri e l’impaginazione ricalcavano il modello del libro umanistico. Fu questo il contributo principale dell’Italia alla nuova arte[12]: i caratteri tondi o ‘romani’ derivati dalla cosiddetta littera antiqua degli umanisti, l’impaginazione a larghi margini e la decorazione classicheggiante ispirati agli stessi modelli. La novità era che ora per fare duecento copie di un libro ci volevano cento giorni e il lavoro di non più di tre uomini, come rimarcava Leon Battista Alberti discutendo con un amico romano nel 1466[13], mentre per ottenere lo stesso risultato Vespasiano da Bisticci doveva impiegare nell’opera 45 amanuensi per 22 mesi.

    Nel 1467 i due trasferirono le loro attrezzature a Roma presso Campo Fiore nella casa di Pietro e Francesco de’ Massimi, un palazzo nobiliare, e lo stesso anno vi stamparono le Ad familiares di Cicerone, proseguendo poi fino al 1473 per complessive 50 edizioni, note anche grazie al listino della loro produzione, il primo della nostra editoria, che risale al 1470 ed è arrivato fino a noi mischiato tra le carte dell’umanista tedesco Hartmann Schedel. Il secondo Lattanzio, stampato a Roma nel 1468, contiene le prime frasi italiane a stampa[14], due terzine di Dante:

    Cossì per li gram savi se confessa | Chella phenice muore e poi renasce | Che al cinq[ue] centeno ano se apressa. | Herbe ne biado in sua vita non pasce. | Masol de incenso lacrime et amomo | E nardo e mirra sun le ultime phasce (Inferno, c. XXIV, vv. 106-111) .

    Nel 1472 Sweynheym e Pannartz presentarono una supplica al papa, elencando i titoli di 28 libri stampati, alcuni in più volumi, con una tiratura media di 275 copie e una produzione totale di 12 745 grandi in folio: non erano riusciti a venderli e il palazzo che ospitava la tipografia era pieno di libri ma vuoto di cibo[15]. L’anno dopo chiusero bottega.

    Non bastava stampare buoni libri, bisognava saperli vendere. Passato il primo entusiasmo, l’affare si rivelava complesso[16]: occorreva calcolare bene tirature e prezzi preventivando costi (la carta incideva per la metà del totale) e tempi di smaltimento. Non esisteva una città, neppure universitaria, in grado di assorbire rapidamente le centinaia di copie che comportava una singola edizione; la distribuzione doveva avvenire su grande scala.

    Il libro a stampa era insomma una ‘merce’[17]. Non per niente riuscì a mettere radici nelle regioni più ricche d’Europa, là dove esistevano infrastrutture e capitali. Non per niente la prima capitale fu Venezia, ricca di traffici, dove due fratelli tedeschi, Johann e Wendelin von Speyer, ottennero nel 1468 il primo privilegio di stampa e l’anno dopo iniziarono a stampare sottoscrivendo così orgogliosamente i primi libri:

    Una volta ogni tedesco si portava un libro dall’Italia. Un tedesco darà ora più di quanto essi non presero. Perché Giovanni, un uomo che pochi superano in abilità, ha dimostrato che i libri possono essere scritti meglio con l’ottone.

    Ma presto giunse in città un pericoloso concorrente, il francese Nicolas Jenson, secondo la tradizione dopo aver condotto, per conto del re Carlo VII, una riuscita impresa di spionaggio industriale: abile operaio della zecca, era stato infatti mandato a Magonza per impadronirsi dei segreti di Gutenberg. A Venezia non solo fondò la prima grande compagnia editoriale in terra italiana, la ‘Nicolas Jenson Sociique’, ma dimostrò una perizia straordinaria nel disegno e nell’incisione dei caratteri, tanto che dai suoi ‘romani’, con i quali nel 1472 stampò una bellissima edizione della Naturalis Historia di Plinio e che poi passarono ai Torresano, soci di Aldo Manuzio, parte la storia che porterà al Times New Roman, il più usato tra i font del computer.

    Quando morì, nel 1480, a Venezia erano da poco arrivati i fiorentini Giunta, la prima grande dinastia di librai editori, con agenzie anche a Firenze e Lione. Nel 1483 arrivò Bernardino Stagnino, primo di una lunga serie di abili tipografi originari di Trino Vercellese. Alla fine del decennio da Carpi, dove era stato pedagogo per una famiglia di prìncipi, venne il laziale Aldo Manuzio, il più grande stampatore umanista e, con Gutenberg, il personaggio più celebrato nella storia della stampa.

    Furono le autorità e gli uomini di legge, quanto e forse più degli ecclesiastici, i migliori clienti dei librai[18]. Quale sistema migliore per uniformare e diffondere raccolte di leggi, atti pubblici, manifesti? A Torino, piccola città in procinto di diventare capitale, gl’incunaboli si ripartiscono tra diritto e religione. In vent’anni, i Decreta Sabaudiae ebbero tre edizioni. Il primo libro stampato dal prototipografo francese Johannes Fabri[19], già collaboratore di Jenson a Venezia, fu un Breviarium Romanum (1474, forse l’editio princeps). In una produzione molto standardizzata, l’eccezione fu rappresentata dalla Summa Lacticiniorum di Pantaleone da Confienza, suo sodale nell’opera dei libri, il primo trattato sui tipi di formaggio, consigliati secondo necessità (Pantaleone era il medico di corte).

    Il dato che a prima vista qualifica l’incunabolo è l’assenza di frontespizio. Per trovare l’indicazione dello stampatore, dell’editore, di luogo e data di stampa, bisogna andare al colophon finale, che comincia a distinguersi da quello dei codici quando vi si introduce la marca tipografica. Per decorare i loro libri dapprima i tipografi si rivolsero agli artisti dell’illustrazione, i miniatori, lasciando in bianco gli spazi riservati al loro intervento, soprattutto negli esemplari di lusso stampati su pergamena nel vano tentativo di vincere le resistenze dei bibliofili (tra i preziosi libri del duca di Urbino, assicurava Vespasiano da Bisticci, non ce n’era ignuno a stampa, ché se ne sarebbe vergognato[20]). Poi si cominciò a usare la silografia, che, essendo basata su un procedimento in rilievo, presentava un’assoluta compatibilità con la tecnica tipografica.

    Ad un illustrato italiano va il titolo di più bel libro del Rinascimento: è l’Hypnerotomachia Poliphili, stampata da Aldo a Venezia nel 1499, gioiello non della letteratura ma della bibliofilia per la perfezione dei caratteri, nati dalla rielaborazione dei romani di Jensos, e dell’impaginazione e l’altissima qualità delle silografie, oltre al mistero che continua a circondarne gli autori. Tra gli altri capolavori ricordiamo l’illustrazione purtroppo rimasta incompleta della Commedia fiorentina del 1481, col commento di Cristoforo Landino, basata su disegni di Botticelli; il De re militari di Roberto Valturio stampato a Verona nel 1472, il primo illustrato in campo tecnico-scientifico in assoluto, e il Fasciculo de medicina di Johannes de Ketham edito a Venezia nel 1494, con dieci tavole di cui quattro a piena pagina di scuola mantegnesca, tra le quali è famosa la ‘lezione di anatomia’ colorata con una tecnica particolare[21].

    Il primo illustrato stampato in Italia è l’edizione delle Meditationes del citato Torquemada pubblicate a Roma nel 1467 dal tedesco Ulrich Han, al quale è stata anche attribuita la palma del primo libro a stampa in volgare italiano, contesa tra i Fioretti di San Francesco e il volgarizzamento dell’Apocalisse, due libri devoti non sottoscritti e non datati, che si ritiene siano stati stampati a Roma alla fine degli anni 1460[22].

    Secondo attendibili stime, quasi un terzo delle trenta-trentacinquemila edizioni di incunaboli furono stampate in Italia[23]. In Europa, tre edizioni su quattro sono in latino, l’italiano con il 7% è la seconda lingua; in Italia, il rapporto è di ottanta a venti. Della Bibbia in Italia si stampano trentotto edizioni (quella romana di Sweynheym e Pannartz del 1471 è la prima fuori dalla Germania), quasi tutte a Venezia; quelle in volgare sono una decina (anche in questo caso la prima è del 1471)[24]. I manuali per confessori vendono come best-seller: il Confessionale di Antonino Pierozzi, vescovo di Firenze morto nel 1459, tocca le centocinquanta edizioni, e la Summa Angelica del francescano Angelo Carletti, molto popolare, sarà bruciata da Lutero sulla piazza di Wittenberg in risposta alla scomunica papale. In quasi cento edizioni sono pubblicate le opere di Savonarola. Best-seller assoluti sono la Legenda aurea di Iacopo da Varagine, in latino e in volgare, la più famosa raccolta agiografica; l’Imitazione di Cristo, il primo classico della spiritualità moderna, di cui escono diciotto edizioni in italiano sulle centosei complessive (sessantadue in latino)[25]; e, a un livello più popolare, il Fiore di virtù con cinquantasette edizioni incunabole, che fu anche il più diffuso testo di lettura nelle scuole dal Rinascimento in avanti[26]. Ottimi affari si facevano anche con gli altri libri di scuola, la grammatica di Donato e le Favole di Esopo.

    Grazie agli umanisti gli stampatori italiani sono all’avanguardia nella pubblicazione dei classici. Il più stampato è Cicerone, seguito da Virgilio; tra i cristiani, Agostino e Gerolamo. Il primo libro completamente in greco è la grammatica di Costantino Lascaris stampata a Milano nel 1476, che sarà ripubblicata con aggiunte da Manuzio per la cura di Pietro Bembo. Tra le prime edizioni, molto importanti quelle dell’opera omnia in greco di Omero (Firenze, 1488-89) e di Aristotele (Venezia, Aldo Manuzio, 1495). Nel 1475 il tipografo ebreo tedesco Avraham Garton stampa a Reggio Calabria il primo libro in assoluto in caratteri ebraici, un commentario al Pentateuco, ma la prima Bibbia è pubblicata nel 1488 dai Soncino, la prima dinastia di stampatori ebrei, nell’omonima città di origine presso Cremona[27].

    Due anni prima della Commedia, nel 1470, compare a Venezia, per i tipi del già citato Wendelin von Speyer, l’editio princeps del Canzoniere del Petrarca, la prima opera in volgare a stampa con data certa impressa in italiano, e di grande fortuna gode anche il Decameron di Boccaccio, la cui prima edizione, non datata, fu probabilmente stampata Napoli nel 1470, seguita da due altre nei due anni successivi, una veneziana e l’altra mantovana, e poi da numerose altre, prima di finire al rogo sulla pubblica piazza di Firenze, auspice Savonarola, nel 1497. In campo tecnico-scientifico si segnalano il trattato di architettura di Leon Battista Alberti (1485), che segnò una svolta per la ripresa degli studi in questo campo, e quello di agricoltura di Giovan Pietro Crescenzi (1486), che era stato il più diffuso nel medioevo.

    Se vogliamo fissare una data simbolica alla fine dell’epoca del manoscritto, nessuna è così precisa come il 1479, quando a Firenze chiude la sua attività, nella centralissima via dei Librai, Vespasiano da Bisticci, il più famoso imprenditore del settore, come con burocratico distacco registra il catasto dell’anno dopo:

    La bottega che soleva fare Vespasiano non va più a fare nulla e rimase ad Andrea di Lorenzo chartolajo[28].

    2. Tanti libri, pochi lettori

    Pur perdendo presto il quasi monopolio editoriale[29], nel Cinquecento l’Italia impone il suo modello di libro al resto d’Europa: è il trionfo del Rinascimento. Il libro moderno si apre con il frontespizio, usa il corsivo, è maneggevole e portatile, asseconda nuove abitudini di lettura. Il frontespizio, pagina d’inizio sulla quale si spostano le indicazioni prima contenute nel colophon, diventa il documento ufficiale per l’identificazione del libro, una sorta di ‘carta d’identità’. Nasce per ragioni commerciali, per evidenziare un prodotto, alla fine di una ‘ricerca’ tutt’altro che lineare: dato che dalla tipografia i libri escono a fascicoli sciolti, pronti per esser spediti stipati dentro barili, si lascia il primo foglio in bianco come protezione dei successivi; quando qualcuno ha l’idea di stamparvi il titolo, nasce l’occhiello, al quale poi si aggiungono le altre indicazioni. Presto si comincia a decorarlo, da una parte, con marche editoriali a carattere allegorico: le più famose sono l’áncora aldina col delfino ed il motto ‘Festina lente’ (affrettati lentamente!), il giglio fiorentino dei Giunta, la fenice dei Giolito; dall’altra, con una cornice architettonica, un arco o un portale che invita il lettore a varcare l’ingresso per addentrarsi nel testo.

    Grazie ai progressi della silografia e alla straordinaria abilità dei maestri l’illustrazione libraria diventa un mezzo di diffusione nuovo ed efficace delle conoscenze scientifiche: è questo il maggior contributo della stampa al progresso della scienza[30]. La data di nascita delle moderne discipline universitarie coincide con quella di pubblicazione dei più famosi illustrati, come l’atlante anatomico De humani corporis ƒabrica di Andrea Vesalio (Basilea 1543), professore allo studio di Padova, capolavoro assoluto dell’editoria medica le cui tavole sono attribuite a un allievo di Tiziano[31]. Il volgarizzamento del De architectura di Vitruvio, pubblicato a Como nel 1521 con splendide figure di scuola leonardesca, diventa il punto di riferimento obbligato per lo sviluppo dell’architettura rinascimentale.

    Un simbolismo a tratti esoterico ispira i fortunatissimi libri di emblemi[32]: le pagine hanno in alto l’illustrazione, in basso un breve testo, l’interpretazione dipende dalla complementarità dei due linguaggi. Ad aprire la strada sono gli Emblemata di Andrea Alciati (1531: 39 edizioni in vent’anni), seguiti da un migliaio di altri libri, in un secolo e mezzo: tra i più famosi, il Libro delle imprese militari et amorose (1555) di Paolo Giovio (nell’edizione lionese del 1559 compare lo struzzo col motto spiritus durissima coquit, oggi marchio editoriale Einaudi) e l’Iconografia (1593) di Cesare Ripa.

    Tra gl’incunaboli prevalevano i libri di grande formato, in-folio o in-4° (la definizione si riferisce al numero delle piegature del foglio di stampa), che si leggevano appoggiati ai plutei delle biblioteche, cui spesso erano incatenati. Piccoli

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