Umburoska
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Umburoska - Cristiano Grumelli
Lunedì
Riuscirò mai a trovare pace. Il panico mi impediva di stare fermo. Dovevo uscire dall' ufficio. Era uno di quei giorni in cui i miei incubi ricorrenti non volevano darmi tregua, neanche da sveglio. In particolare quello dove la stessa vecchia donna piena di rughe e coi denti gialli mi continuava a ripetere - non innamorarti, non fidarti delle donne, poi soffrirai di più, nasconditi da loro – e poi solo un senso di nausea. Ma si poteva capire, un anno fa ho seppellito la donna che amavo. Oggi era uno di quei giorni.
Allora mi mettevo a gironzolare come un vagabondo per il centro senza una meta precisa. Faceva freddo per una giornata di ottobre, così alla fine decisi di fermarmi a bere un martini. Il barista, pardon barman come vogliono essere chiamati adesso, mi guardava storto, forse a causa del rutto che mi era scappato dopo il secondo intruglio, e poi il primo glielo avevo fatto rifare - le olive avevo detto, non il limone. - Ero pignolo quando si trattava del bere. Mi guardai allo specchio della bottigliera, i baffetti e il pizzetto mi donavano, mi davano un'aria via di mezzo tra Clark Gable e un trafficante colombiano. Dopo il terzo cocktail i miei fantasmi mi avevano finalmente abbandonato. Mi avviai verso l'uscita con gran piacere di quel rotto in culo del barista.
Alzai il bavero della giacca, leggermente brillo attraversai di corsa rischiando di esser messo sotto da un taxi e mi diressi verso l'edicola. L'ultimo numero di Penthouse US edition era già uscito. Una bionda seminuda da sballo ammiccava inginocchiata sul letto - 15 dritte per portarsele a letto - prometteva il titolo, presi anche la Settimana Enigmistica, avevo imparato più cose lì che da tutti gli insegnanti della mia lunga carriera scolastica. E ora via verso casa, camminavo in fretta, zigzagando tra la folla. Superata San Babila il traffico umano cominciò a diminuire e anch'io mi calmai. Passai davanti alla piccola agenzia viaggi, non c'era giorno che non pensassi di fermarmi, prenotare un volo, tornare là, dove l'avevo lasciata sotto due metri di terra. Ma non era ancora tempo, la rabbia mi corrodeva ancora, la colpa mi seguiva anche al cesso. Tutto passa anche le cose più brutte - mi dicevano, a me non passa una minchia, e allora mi sveglio, mangio, lavoro, mangio, dormo e così via aspettando.
Ci siamo, abito in uno stabile signorile io, con tanto di portone in legno intarsiato e giardino interno. Pago un occhio della testa di affitto, potevo comprarlo forse, ma mi piace pensare di essere libero di andarmene quando voglio. Il portiere, filippino, mi fa un cenno con la testa, non gli ho mai parlato. Sono un tipo riservato, mi vergogno anche di buttare la monnezza.
Avevo bisogno di una doccia calda. Mi preparai un sandwich al gorgonzola e uno con salame e maionese, aprii una bottiglia di rosato e mi rilassai sulla mia poltrona preferita. Era anche l'unica. La mia vita non andava un granchè bene. Quando uscivo bevevo quanto bastava per raggiungere quel senso di leggerezza, dove tutti i pensieri restavano nel limbo, e non mi importava con chi ero, di lì a poco sparivo, proprio un bello stronzo. A casa facevo lo stesso, non avrei preso la medaglia d'oro degli ubriaconi, ma un premio alla costanza me lo avrebbero dato.
Il suono del cellulare mi svegliò d’improvviso.
Sì, pronto
Dall'altro capo avevano riattaccato. Il numero era anonimo.
Guardai l’ora, mezzanotte e mezza, notai la bottiglia vuota. La festa era finita.
Squillò di nuovo.
Pronto
Avevo la bocca impastata.
Questa volta rispose una donna.
Lei non mi conosce, il mio nome è Marina, ho avuto il suo numero da Davide Colonna, sono una sua cara amica
Fece una pausa, si aspettava che dicessi qualcosa. Ma io niente.
Non voglio disturbarla più di tanto anzi mi scuso per l'ora, ma se fosse possibile incontrarla domani, se ha un po' di tempo, per me sarebbe importante parlarle.
La mia bocca ora faceva fatica ad aprirsi, le estremità delle labbra si erano rinsecchite ma alla fine riuscii a sibilare qualcosa del tipo
Riguardo a cosa mi vuole parlare?
E' una faccenda delicata per me, non posso per telefono
Anch'io comunque non ero dell'umore giusto, diedi alla donna l'indirizzo dell' ufficio.
La testa mi scoppiava. Andai in bagno e orinai. Tornai nel salone, mi sedetti sul divano in pelle. Ero in mutande, sedendomi provai una sensazione di freddo. Il pavimento in marmo era gelato, scalzo in punta di piedi decisi allora di andarmene a letto. Come sempre pregai silenziosamente di non farmi avere incubi, non quella notte. Ma cosa aveva di diverso da tutte le altre. Preparati al calvario.
Martedì
La mattina seguente arrivai in ufficio di buonora. Studio di architettura era la targhetta sul portone. Con la A maiuscola. Ero il primo, naturalmente dopo Guendalina, la nostra segretaria.
Guen e’ arrivato qualcosa?
Buongiorno anche a lei capo, niente di importante, si ricordi dell' appuntamento di oggi con Rabosi
disse col sorriso stampato. Guen dava del lei a tutti i soci, ma solo io la ricambiavo con lo stesso rispetto. Era con noi fin dall' inizio, minuta e agile, aveva superato i quaranta da un po', ma aveva l'energia di una ventenne. Era lei che faceva filare tutto dritto compreso gli stagisti. Non c'era segreto di quello studio che non conoscesse, ma aveva anche la riservatezza di un agente del Mossad.
Mi stavo avviando verso il corridoio quando mi ricordai della telefonata della sera prima. Mi venne il dubbio di aver sognato, ci pensai un momento, presi il cellulare e controllai. Cominciavo a dubitare della mia salute mentale, chissà perchè provai un senso di gioia. Tornai sui miei passi davanti alla scrivania di Guen.
A proposito aspetto una certa Marina, quando arriva la può far accomodare nel mio ufficio, ma solo se è una bella donna
era l'unica lì dentro con cui scherzavo.
Agli ordini, capo
Sfogliai il memorandum di Rabosi per essere un pò preparato alla riunione di quel pomeriggio, ma come al solito alla fine se la sarebbero dovuta sbrigare i miei soci. Ormai ero diventato un quadro da tappezzeria, un quadro d'autore s'intende. L'unica cosa a cui servivo era presenziare alle prime riunioni con i nuovi clienti a causa della mia passata fama di nuova speranza dell'architettura. Questo giovane sarà il nuovo Renzo Piano, dicevano tutti, ignorando che non avevo mai seguito la scuola high-tech. Ma poi le speranze si rivelarono infondate, non tanto per gli altri quanto per me stesso.
La frattura si formò dopo i primi anni. Subito dopo la laurea al Poli io e Ivan non perdemmo tempo, raccimolammo due soldi lavorando come sguatteri e viaggiammo per l'Europa intera. Toccammo con mano le opere su cui avevamo sputato sangue negli anni dell'università. In Olanda il neoplasticismo, il Weissenhof di Stoccarda, poi a Dessau per il Bauhaus. Viaggiavamo senza meta da una parte all'altra, oggi a Poissy per Le Corbusier, l'indomani a Cambridge per il Brutalism. Appena tornati non pensammo neanche un secondo a trovare lavoro in qualche studio, sfrontatamente aprimmo il nostro. Furono tempi duri, io facevo tre lavori, avevo i calli alle mani, ma eravamo bravi e vincemmo alcuni concorsi per giovani. Cominciavamo ad avere un nome nell'ambiente soprattutto per la nostra scelta di lavorare solo dove avremmo potuto mettere in pratica le nostre idee senza compromessi. Poi le cose cominciarono a complicarsi, vincemmo un bando importante in Spagna. Convertire una parte del porto di Alicante in un centro multimediale. Gli spagnoli volevano un edificio in stile blob. Avevamo bisogno di ingegneri, esperti di sofisticati programmi CAD. Quindi banche, prestiti. Dovemmo far entrare un altro socio, Paolo, più manager che architetto. Si occupava lui della burocrazia, ma non so come cominciò anche a dettare la politica interna dello studio. Questa cosa è troppo rischiosa, è meglio non farla
e Ivan gli andava dietro. Alla fine si scartavano i progetti più ambiziosi e si prendevano quelli più sicuri, più noiosi. Eravamo diventati dei palazzinari. Ma a loro stava bene. I soldi entravano. Ivan aveva la sua bella Porsche e la casa in Sardegna. Paolo sognava di mandare il figlio ad Harvard. Tutto legittimo ma io non ci stavo, mi sentivo stretto in quel ruolo.
L'orologio al muro segnava le undici, ci voleva un aperitivo. Presi la giacca e uscii dalla porta quando vidi Guen e una donna venirmi incontro. La signora Marina
Dopo i convenevoli la invitai ad entrare e a sedersi.
Ma lei stava forse uscendo..
No , niente di importante!
mentii.
Marina era una splendida donna, forse appena sopra i quarantanni, molto elegante ma senza ostentarlo. Sicuramente una signora dell'alta società, come tutte le amiche di Davide.
Bene signora, come posso aiutarla?
La osservai meglio. I capelli biondi era raccolti in uno chignon. Erano così tirati che gli zigomi già alti, sembravano ancora più appuntiti, lasciando le guancie scavate. Le labbra per contrasto erano carnose, risaltate da un caldo rossetto bordeaux. Ma il punto forte erano gli occhi di un color verde indefinito, incastonati a delle palpebre tese che gli davano una leggera aria orientale.
Volevo innanzitutto ringraziarla per avermi voluto incontrare senza una ragione, sono qui per chiederle un consiglio.
Accavallò le lunghe gambe e chinò il busto leggermente in avanti, come per ricercare un pò di confidenza.
Vede la questione riguarda mia figlia, Benedetta. E' andata in Brasile, precisamente a Salvador, circa un mese fa per una vacanza studio, dice lei. Ora è quasi una settimana che non ho notizie di lei e sono molto preoccupata. Non è certo la prima volta che viaggia in posti lontani ma di solito ci sentiamo ogni due tre giorni. Insomma Davide mi ha detto che lei conosce Salvador molto bene
Cercò un cenno di conferma dal mio sguardo, ma io rimasi impassibile. Allora continuò.
Non conosce qualcuno là che può aiutarmi ad avere notizie? io non so dove sbattere la testa, sono stata alla polizia ma dicono che non mi possono aiutare più di tanto. Hanno comunicato una nota al consolato ma sa come vanno queste cose, mi hanno consigliato di prendere qualcuno sul posto, ma io non conosco nessuno.
Riflettei per un attimo sulla risposta, sulle prime volevo dirle di no. Con qualche scusa me la potevo sbrigare, ma poi pensai, era forse il destino, insomma con tutti i paesi che ci sono al mondo, questa si perde la figlia in Brasile, a Salvador dove ho lasciato un pezzo di me stesso e non solo. Potevo fare un tentativo.
Forse conosco qualcuno che può aiutarla ma mi dovrebbe dare qualche informazione, qualsiasi cosa le venga in mente, dove alloggiava, se ha degli amici, un riferimento e non si scordi una foto recente
Certo, le farò avere tutto, naturalmente non bado a spese, se c'è da pagare qualcuno, non so un investigatore
i suoi occhi sembravano sinceri. Esitai un attimo. Mi diedi un'aria importante come di uno che deve risolvere un conflitto nucleare.
Facciamo così, io cerco di mettermi in contatto con questo mio amico, era un poliziotto. Lei mi manda per e-mail tutte le informazioni che ha e la foto, e appena posso la richiamo
Non so proprio come ringraziarla
disse scuotendo la testa.
Non ho ancora fatto niente
le sorrisi.
La accompagnai all'uscita.
Adesso avevo proprio bisogno di bere.
Guen, esco, sono qui al bar
dissi frettolosamente e sgattaiolai fuori.
Non appena uscii dal portone m'imbattei in Rabosi. Cosa diavolo ci faceva lì. L'appuntamento era nel primo pomeriggio.
Architetto carissimo non sa che fortuna trovarla in ufficio.
- Imbecille – pensai - non vedi che sono già in strada -
"Lo