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Beautiful Face. La Saga
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Ebook579 pages7 hours

Beautiful Face. La Saga

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About this ebook

La raccolta dei primi tre ebook di Beautiful Face Saga.
Concludi questa raccolta con l'acquisto di "Forever parte 2" oppure "Forever Full Story"

Sinossi:
Si può amare due persone? E se avessero lo stesso volto?
Un'imprevedibile storia d'amore piena di colpi di scena.
Per Samantha, sedicenne alle prese con i primi sentimenti forti, non esistono mezze misure in amore. Se ama non si divide.  "La scelta è solo l'inizio"
E se Samantha questa volta fosse in grave pericolo?
 
LanguageItaliano
PublisherMara B. Gori
Release dateSep 24, 2013
ISBN9788868553821
Beautiful Face. La Saga

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    Beautiful Face. La Saga - Mara B. Gori

    Indice

    Beautiful Face (# 1)

    Prologo

    1 - Estate Calda

    2 - L’Onore dell’Uomo

    3 - Il Primo Bacio

    4 - Nel Buio

    5 - Senza Volto

    6 - Il Colpevole

    7 - Nuova Vita

    8 - Ricordati di me

    9 - Fantasma

    10 - Le Verità Nascoste

    11 - Laguna Blu

    12 - Attrazione Fatale

    13 - L’Arte della Guerra

    14 - Gelosia

    15 - A Volte Ritornano

    Choice (# 2)

    1 – Vendetta

    2 – Tenera è la Notte

    3 – Strani compagni di letto

    4 – Ballerine

    5 – Vacanze Romane

    6 – Paura d'Amare

    7 – Nell’ Ombra

    8 – Le parole che non ti ho detto

    9 – Amore e Orgoglio

    10 – Amore e Guerra

    11 – La Congiura

    12 – Innamorati Cronici

    13 – La Decisione...

    14 – Angolo di Paradiso

    Epilogo

    Forever -Parte 1- (# 3)

    1 – Chi semina vento

    – Raccoglie tempesta

    – La tempesta diventa uragano...

    – L’uragano distrugge ogni cosa

    – Resistere diventa l’unica via...

    – Continuare a respirare.

    Prologo

    Samantha

    Si poteva impazzire nello spazio di un secondo? Il tuo mondo, tutto ciò che conoscevi, o credevi di sapere, poteva esplodere e diventare qualcos’altro? E tutto, tutto questo, poteva accadere solo perché la Signora Casper era malata e mi ero ritrovata ad aiutare in un polveroso archivio al posto suo?

    La risposta a queste domande era una sola: ed era affermativa.

    La gridava quel breve testo dattiloscritto che riempiva i campi di un modulo anonimo e simile a molti altri. Mi era capitato in mano per caso, sfuggito al fascicolo di appartenenza per incastrarsi nel cassetto dello schedario che, a causa sua, stentava a chiudersi perfettamente.

    Che strano modo di giocare aveva il destino mi dissi amaramente, ripensando alla solerte -quanto acida- assistente segretaria che mi aveva ordinato di porre rimedio a quel noioso inconveniente.

    Quel pezzo di carta spiegazzato, in un lampo era divenuto la fonte della mia pazzia, perché portava con se una verità sconvolgente che mi avrebbe cambiata per sempre.

    Mentre, con l’ultimo angolo della mente rimasto razionale, tentavo di raccontarmi tutto ciò, il mio sguardo traballava sulle parole assurde che spiccavano fra le pieghe del modulo come fossero state scritte col rosso del sangue: Edgar Carlton: nome di nascita Steven Moore.

    1 Estate Calda

    Steven

    (Winter Harbor, Maine)

    Quest’anno le previsioni dicevano che sarebbe stata un estate più secca e calda del solito, ma a Sand Cove, ai damerini impettiti del canale meteo, pochi davano credito.

    Erano i stessi che, qualche volta, prevedevano intere settimane di sole in inverno e, sulle coste del Maine, questa è una panzana bella e buona.

    Come sempre, il primo di agosto, me ne stavo seduto sul vecchio dondolo del portico aspettando il suo arrivo.

    Come sempre l’umidità mi faceva incollare la t-shirt al corpo.

    Spostai il naso in giù e mi osservai: tanto per essere certo di non avere l’aspetto disastroso che sospettavo.

    Notando il mio respiro leggermente ansante, non potei far a meno di chiedermi come diavolo avevo fatto in un solo inverno a diventare tanto imponente rispetto al ragazzetto smilzo che ero sempre stato.

    Non facevo palestra. Proprio no, anche perché, nessun attrezzo avrebbe potuto farmi faticare tanto quanto aiutare un padre cieco a condurre una fattoria. E poi mi bastava lo sport a scuola che era già abbastanza noioso.

    Sogghignai, con un colpo secco impressi un moto regolare al dondolo che oscillò scricchiolando lasciando correre i pensieri sul motivo della mia attesa.

    Di solito Samy, per venire da Ted a passare le vacanze, prendeva sempre il volo che atterrava a Bar Harbor la mattina del primo di agosto, e, sempre, alle quindici in punto di quello stesso giorno, l’uomo veniva a salutare mio padre con la figlia; un abitudine presa da quando si era separato dalla moglie. Io e Samantha all’epoca eravamo due bambini abbastanza soli: io soffrivo per la morte di mia madre, lei per il divorzio dei suoi, ed era stato inevitabile giocare facendo squadra dal primo momento.

    In inverno spesso mi mancava la mia sorellona.

    La chiamavo così perché, lei si ostinava, a far pesare che aveva quasi un anno di più.

    Era sempre molto protettiva con me: si preoccupava della mia irruenza, della mia allergia ai legami e alla serietà.

    Per carattere amavo sdrammatizzare la vita: questa era già abbastanza pesante, non aveva bisogno che un inutile pessimismo la rendesse peggiore. Mi piaceva affrontare il mio destino con un sorriso sfrontato.

    La mia amica era diversa, troppo sensibile, lei ponderava ogni sua mossa con ragionamenti estenuanti, questo per impedirsi di soffrire nel caso di errore.

    Il controllo era la sua droga e sapevo perché: aveva già sopportato troppo dopo la fine dell’unione famigliare.

    Il rumore degli pneumatici mi fece alzare lo sguardo strappandomi alle mie riflessioni: la jeep della forestale di Winter Harbor avanzava dal viale d’accesso verso lo spiazzo davanti alla fattoria.

    La polvere bianca della ghiaia baluginava sollevandosi nella calura del primo pomeriggio.

    Il fuoristrada si arrestò nel posteggio davanti all’ingresso di casa.

    Theodor Lee scese immediatamente, mentre una frettolosa Sam armeggiava per liberarsi dalla cintura.

    Un sorriso m’increspò le labbra.

    Sempre la solita Samy.

    Quando lei, finalmente aprì lo sportello e scese, mi dava le spalle ed era controsole, dovetti proteggermi gli occhi per vederla. Improvvisamente si voltò, e, io capii, che quest’estate sarebbe stata veramente troppo calda, e non perché il canale meteo per una volta ci aveva azzeccato, ma perché il mio corpo improvvisamente andava a fuoco insieme al mio cuore: senbrava che un sole si fosse formato dentro di me e stesse cercando di dispiegare i suoi raggi in ogni mia vena.

    Steve ma che diavolo ti prende?

    Sapevo la risposta ma non era certo il momento di darmela, dovevo calmarmi, e andare ad abbracciare la mia amica. La mia Samy. La ragazza adulta e bellissima che non riconoscevo; sbocciata come uno dei quei fiori che ogni tanto punteggiavano senza preavviso i campi della fattoria.

    L’attrazione, provata a quello sguardo, mi disse la verità che non mi ero mai confessato: amavo la mia migliore amica da sempre.

    La mia dolce, buffa Samantha, che adesso era anche un colpo di fulmine che mi accendeva il fuoco dentro.

    Scossi la testa cercando di schiarirmi le idee, dandomi un contegno nell’alzarmi dal dondolo.

    Scesi esitante i due gradini del portico, e poi, per un lungo momento, il mio mondo implose in mille colori, perché lei aveva fatto in una corsa i pochi metri che ci separavano buttandomi le braccia al collo per salutarmi; non accorgendosi che, ormai, stavo inesorabilmente esplodendo per creare il mio personale sistema solare; mi resi conto che malgrado la lava che mi bruciava, non ero una stella. No, ero un pianeta che avrebbe per sempre gravitato intorno a lei.

    «Ciao Steve! Mi sei mancato!».

    Ritrovai -non so come- la parola mentre impazzivo tentando di non stringerla troppo.

    Mi scostai un poco fissando i suoi occhi di un caldo grigio. Ci annegai.

    «Ciao Sam... adesso sei qui!», non ti lascerò più andare lontano dal corpo e dal cuore.

    E poi le sue parole spensero il sole.

    «Steve! Ho un sacco di cose da raccontarti...credo di essermi innamorata!».

    Dietro di noi, Ted, cogliendo il suo bisbiglio, sbuffò irritato.

    Io invece, ripresomi, non so come, dallo shock momentaneo che mi aveva provocato, ero furioso come non mai. Le mani appoggiate sulla sua schiena tremarono per la rabbia. No! Non mi sarei arreso. Non sapevo chi fosse, ma avrebbe dimenticato presto quel misero fantasma.

    Io. Ero. Da sempre. Perfetto per lei.

    Samantha

    (Poco dopo)

    «Sam! Cercare di assomigliare a sua sorella, non mi sembra una gran tattica! Specie se mi dici che è una tipa tanto sexy!».

    Steven mi rispose stizzito, sbuffando e voltandomi le spalle; sembrava che stesse per scoppiare alla stregua di un bollitore lasciato troppo sulla fiamma.

    Non lo riconoscevo. Solitamente non perdeva mai il sorriso e potevo contare sulle sue battute che sdrammatizzavano le mie tragedie mentali. Era il mio opposto e mi completava: rendeva il mio carattere incline al pessimismo meno pesante anche per me stessa.

    Cercai di mediare, non mi piaceva l’espressione con cui mi aveva dato repentinamente la schiena.

    Mi avvicinai di un passo, poggiando il palmo aperto nel solco sotto le scapole che si intravedeva attraverso la t-shirt che portava.

    Era solo un gesto gentile per calmarlo, eppure, per la prima volta dopo dieci anni che passavo tutte le estati con lui, sfiorarlo con una carezza affettuosa mi rese nervosa, quasi imbarazzata.

    Potevo sentire i suoi muscoli guizzare a quel tocco, e, mi resi conto, -più inconsciamente che altro- che il mio compagno di giochi era cresciuto, e, io con lui.

    Ritrassi la mano, come scottata, mentre insistenti brividi nascevano da dentro il mio ventre. Che diavolo mi succedeva? Una sensazione di imbarazzo simile l’avevo provata solo per Edgar Anthony Somerset: l’oggetto della nostra conversazione. Ma forse, con lui, era meno sorprendente provare qualcosa di simile: il mio amore segreto per il mio compagno di corso lo consideravo quasi un’infatuazione ossessiva, come quella per un divo. Era irraggiungibile per me: insignificante secchiona la cui attività principe era cercare di confondersi con la tappezzeria per riuscire a digerire le ore scolastiche -o meglio- le interazioni sociali con gli altri studenti.

    E, il difficile dialogo di questo momento, con il mio confidente preferito -diciamo pure l’unico e il solo, data la mia ritrosia a parlare con chiunque- era per spiegargli che, malgrado sapessi fosse una completa pazzia, volevo, dovevo, cercare di interessare, quello che era, e restava, il più bel ragazzo della Texas Sunset High School, di cui mi ero irrimediabilmente innamorata.

    Innamorata? Ma Sam, tu sai cos’è l’amore? Il pensiero insolente era entrato in me, come un fulmine a ciel sereno, strappandomi alle riflessioni mentre ancora fissavo le possenti spalle di Steven.

    Ma da quando è così muscoloso?

    Avvampai, e i brividi nello stomaco divennero mostri che me lo rosicchiavano senza pietà.

    Lui si ostinava ancora a non guardarmi. Scossi la testa ed esclamai la mia protesta all’indirizzo della sua nuca, rinunciando a farlo voltare per non rischiare di provare di nuovo quella strana sensazione.

    «E’ proprio questa l’idea zuccone! Io sono troppo topo di biblioteca e...» Ma non mi fece proseguire, si girò di scatto afferrandomi una mano, per poi, farsela scivolare fra le dita, e, con un espressione a metà fra l’iroso e il triste, mi apostrofò: «E... non continuare! Dacci un taglio Sam! Fine della modalità confidente!» Detto ciò, mimando, ironicamente con le dita, virgolette inesistenti, si allontanò di qualche passo finendo per sedersi su un tronco spiaggiato guardando il mare.

    Eravamo a Sand Cove. L’avevo trascinato alla spiaggia appena ero arrivata alla fattoria.

    Per tutte le ore di volo da Dallas non avevo fatto altro che pensare a Steven, a come avrei potuto esporgli i fatti.

    Appena l’avevo visto, aspettarmi sul portico come tutte le estati, ero corsa ad abbracciarlo, e quasi non lo riconoscevo: era più alto e longilineo. Ma, lì per lì, non mi ero accorta di quanto fosse anche ben piazzato.

    Lui mi aveva fissato con quei suoi occhi calmi, in cui mi ero subito specchiata, trovando il coraggio di dare corpo e voce ai miei dubbi sentimentali.

    Ero con Steven: la mia famiglia, il porto sicuro, il faro che vedi nel buio delle acque nere e minacciose in cui navighi e ti dice che sei tornato a casa, dandoti sollievo e speranza.

    Ma, presa com’ero da me stessa e dai miei drammi, solo adesso -notando le sue labbra indurirsi pronunciando quella frase di chiusura totale- mi resi conto che il mio fratello mancato in un inverno era diventato un ragazzo estremamente affascinante.

    Sorpresa da questa repentina consapevolezza, rimasi a fissarlo a bocca aperta come un pesce idiota mentre poggiava i gomiti sulle cosce, il mento alle mani e scrutava l’orizzonte dove cielo e mare si congiungevano.

    Iniziai senza rendermene conto ad indagarlo: i tratti decisi e il naso leggermente aquilino, davano carattere al suo volto espressivo, notai, improvvisamente, che i suoi occhi erano grandi come quelli che popolavano le mie ultime notti. Ma quelli di Anthony erano verdi: giada chiara che mi rapiva. Mentre quelli di Steve invece erano caldi come il miele che suo padre Ciack usava per dolcificare il caffè. Mi avvolgevano come una coltre dal tepore invitante.

    Battei le palpebre e cercai di ritornare in me andandomi a sedere vicino a lui.

    Ci riprovai: «Steven, so che sono...beh pazza, a fare a un ragazzo questo tipo di confidenze». Deglutii, per darmi un minimo di coraggio.

    Dannazione è Steve! Non puoi essere imbarazzata con lui! Pensai stizzita, mentre ripescavo un po’ di logica per riprendere il filo: «Ma, mi conosci...sai che sono così chiusa! Mi fido solo di te e vorrei tanto un consiglio... se ...beh... non so... Insomma!».

    Annaspavo, inspirai e buttai fuori l’aria per calmarmi, riprendendo: «Tu sei un maschio e puoi dirmi se sto sulla strada giusta! Se mi respingesse... io non sono affascinante come Reb, sua sorella, ma se... se imparassi da lei a valorizzarmi, forse...».

    Lasciai morire la frase sulle labbra. Adesso anche io mi ero chinata a sorreggermi il capo osservando il mare, per non guardarlo mentre gli confessavo i miei dubbi.

    Dopo l'ultima parola, sospirata con il tono di chi non crede nelle proprie capacità, neanche mi resi conto che Steven si era alzato; non fino a quando non fece ombra alla luce accovacciandosi davanti a me. Era talmente alto che anche così mi superava, mentre ero china, quasi accartocciata su me stessa per proteggermi.

    Due mani grandi mi avvolsero le guance. Scioccata lo guardai spalancando gli occhi, i suoi adesso erano ipnotici come quelli del ragazzo che credevo il mio amore impossibile, ardevano come il fuoco e gli avevano rubato colore e calore; e poi capii che forse non sarebbe stata la fredda giada, ma la calda ambra a regalarmi il mio primo bacio. Ammesso che, le sue labbra, a un millimetro dalla mia bocca, stessero schiudendosi per prepararsi a sfiorare le mie, e non solo ad atteggiarsi per proferire parole.

    Attesi l’avverarsi del mio sospetto, spostando istintivamente lo sguardo sulla sua bocca.

    Possibile stesse veramente per baciarmi? Il suo respiro tiepido soffiò e...

    2 L’ Onore dell’Uomo

    Edgar Anthony

    (Dallas, Texas, qualche minuto prima)

    Mio padre Edgar Senior mi fissava con i suoi occhi grigi, freddi come il ghiaccio..

    Le mani erano fissate saldamente ai fianchi, le gambe leggermente divaricate. Le narici dilatate soffiavano all’esterno il suo respiro seccamente: ciò tradiva la sua irritata impazienza.

    Ad un’occhiata d’insieme, malgrado non indossasse la divisa in quel momento, anche al più ignaro degli estranei sarebbe parso per quel che era e, cioè, un Generale.

    Era un maestro nell’imporsi con la postura autoritaria, anche in famiglia.

    «Edgar Anthony, hai sempre saputo la data della tua partenza, non ammetto esitazioni, è il tuo destino ed è bene che lo affronti, posticipare l’arrivo in Accademia di una settimana non è un opzione».

    Il tono era calmo, risoluto nella sua pacatezza, era un ordine talmente imperioso che non aveva bisogno di essere pronunciato con emozione o foga, era semplicemente letale, come la punizione che ne sarebbe seguita per un’eventuale insubordinazione.

    Era il tono del comando, dell’orgoglio e della forza della ragione, ma anche della prevaricazione. Doveva esserlo, la vita militare non era una democrazia.

    In cima alla muro che difende la nostra nazione, si prendono decisioni di vita o di morte.

    Il suo motto lo definiva bene. Decisamente.

    Non era una persona violenta, anzi, era un uomo di una correttezza molto rigida, e tutti noi sapevamo che ci amava più della sua vita, e del suo paese, a cui aveva votato l’esistenza. Ma questa la passava essendo se stesso in pubblico come in privato, e ciò si traduceva nel fatto che, casa nostra, era governata come il suo battaglione, almeno esteriormente.

    Nella realtà, mia madre Elisabeth con la sua voce sottile e dolce, lo teneva in pugno in un modo, che i suoi nemici potevano solo sognare.

    Ma non valeva per noi figli. Noi eravamo ancora da inquadrare e guidare nelle grandi manovre della vita che vedeva dispiegarsi per noi.

    Mio fratello Jason era il più giovane capitano dei Marines, e, aveva all’attivo, già svariate missioni nelle zone calde del Medio Oriente.

    Era il suo orgoglio.

    Rebecca, la sua bambina, sarebbe diventata un’analista del ministero della difesa: un ingegnere informatico.

    E io... io che portavo il suo nome, avrei seguito le sue orme alla lettera. Io sarei stato la sua copia, il suo lascito al futuro, così Edgar Somerset sarebbe vissuto per sempre; perché lo sapevo: lui sperava che continuassi con la mia progenie la tradizione di famiglia.

    C’erano stati già tre Generali Edgar Somerset: sul mio capo di neonato, oltre al nome, era stato imposto un destino preciso durante la cerimonia di battesimo.

    Non che me ne lamentassi. Proprio no.

    Mio padre non aveva dovuto faticare a inculcarmi, fin da piccolo, i valori dell’onore, dell’amor di patria, del valore della vita umana da difendere, succhiando via altra vita ad altri uomini: il nemico da combattere per affermare questi presupposti.

    No, era stato sempre il mio fato, ma anche la mia inclinazione naturale.

    Io ero letteralmente nato per essere un soldato, ne amavo i valori, l’iconografia, la profondità, come la caducità e le contraddizioni.

    Non ero fanatico, non ero violento. Ero l’esatto opposto, ma volevo dedicare la mia vita a difendere il prossimo in ogni modo possibile, ad ogni costo.

    Per ironia della sorte, la mia generosità e dedizione -ereditata da mia madre- faceva di me una perfetta macchina da guerra.

    Eppure, in questo preciso momento, stavo irritando mio padre, e non era da me.

    Non gli piaceva.

    Non mi smontai, perché da qualche mese, le mie priorità avevano subito un inversione, non che fossi diventato improvvisamente un disertore delle aspettative paterne, ma esattamente come lui adesso dentro al cuore custodivo la mia vera ragione di vita: diversa da quella ufficiale.

    La sua aveva gli occhi verdi e profondi di mia madre che io avevo ereditato.

    La mia invece custodiva il suo sguardo dolce dietro un cuore grigio intenso che mi toglieva il sonno.

    Il Generale Somerset doveva capire che Beth era già sua, ma Isy -come la chiamavo io in segreto- non era mia, non sapeva neanche che esistessi, e non potevo partire per l’Accademia, prima di salutarla. Prima di dichiararmi.

    Quindi non mi smontai per nulla.

    «Papà, l’arrivo ufficiale dei cadetti è previsto per il quattordici settembre, l’arrivo anticipato per gli iscritti al pre-corso è permesso dal venti al venticinque agosto, chiedo solo di posticipare il mio programma precedente di cinque giorni. Sarò all’Accademia il venticinque agosto. Ho deciso di andare a trovare zio Charles che sta passando le vacanze alla villa di Winter Harbor. Sai che amo il trekking e l’attività fisica mi preparerà al pre-addestramento previsto per gli allievi».

    Il mio tono era deciso.

    Non era contemplato che un figlio di Edgar Somerset pregasse o proponesse: se si doveva ammutinare, doveva farlo con decisione e onore.

    Edgar Senior strizzò gli occhi impercettibilmente, si avvicinò, mi girò attorno lentamente con aria fredda, poi si fermò di fronte a me fissandomi negli occhi, un guizzo veloce attraversò i suoi: lo riconobbi, era un tentacolo del suo profondo affetto che sfuggiva alla gabbia imposta al suo cuore dalla sua rigida esistenza.

    «Tony, c’è di mezzo una ragazza, figliolo? Solo la verità ragazzo».

    «Sì. Signore» Deciso e diretto: il solo modo di rispondergli.

    I suoi occhi si spalancarono, un mezzo sorriso spuntò all’angolo delle sue labbra, e mi vidi quasi allo specchio: tranne gli occhi verdi e i capelli biondo scuro –eredità di mia nonna paterna- eravamo praticamente uguali.

    Mi arrivò una manata sulla spalla.

    «Anthony, va bene! Ma voglio il punteggio migliore nel test di conclusione del corso pre-semestre, questo anche se ti iscriverai con cinque giorni di ritardo».

    «Non mi accontenterò di nulla di meno. Non è da me, lo sai».

    «Perfetto figliolo, e adesso va da tua madre, che, sicuramente, sta origliando dietro la porta dello studio, e baciala per me». La manata si trasformò in un abbraccio.

    Il Generale Somerset era letale, ma se voleva era il padre migliore che un ragazzo potesse avere, ero orgoglioso di essere suo figlio e di poter raccogliere la sua eredità.

    Sciolsi l’abbraccio, lo fissai un momento, e corsi fuori dallo studio troppo velocemente; Edgar Senior alzò un sopracciglio e scosse il capo tornando a sedersi alla sua scrivania.

    Non lo vidi, ma fui sicuro, che stava prendendo in mano la cornice con la foto di famiglia sorridendo all’immagine di noi cinque con orgoglioso affetto.

    Appena nell’anticamera trovai mia madre e Reb che mi sorridevano.

    Le baciai sulle guance e mi precipitai fuori in giardino, dove corsi fino al gazebo: il mio posto preferito per isolarmi.

    Trovai ad attendermi la poltroncina che con le sue volute riprendeva gli intrecci della volta ricoperta dai tralci di rose rampicanti rosse e bianche.

    Mi ci lasciai cadere sopra e composi il numero che avevo ottenuto da Ector: il ragazzo di Carla Santiago, un’amica della mia Samantha.

    Mia... smettila Tony ti stai illudendo troppo!

    «Pronto? Samantha?» sembravo sereno -autocontrollo sviluppato fin dalla tenera età- in realtà ero terrorizzato come mai prima: mi sentivo pronto ad affrontare una mina anti uomo ma non a questo.

    «Sì, chi parl...parla?!» Isy sembrava sconvolta, e esitante. Esitante? L’ho disturbata? «Sono Ton... Edgar Anthony, frequentiamo letter-letteratura insieme...». Autocontrollo andato a farsi benedire.

    Stavo ridicolmente balbettando, ringraziai il cielo che non mi sentisse nessuno dei miei fratelli, mi avrebbero impietosamente preso in giro per mesi.

    «Ah... ma come hai avuto il mio numero?» L’incredulità continuava, mista ora a sospetto.

    «Ector l'ha avuto da Carla... mi devi scusare, ma non ho fatto in tempo a chiedertelo personalmente»

    Un cagnolino: sembravo un cucciolo che si rammaricava mettendosi a pancia in su.

    Patetico. Tony ma che ti prende?

    «Perchè? Perché... ti interess... mi cercavi?» Imbarazzo, aveva un tono incerto.

    Chissà che figuraccia stavo facendo! «Emm... mio zio ha una villa a Winter Harbor... e speravo di poterti incontrare domani quando arriverò lì ... vorrei salutarti, sai, poi parto e...»

    « Parti?» Inquietudine. Le interessa?

    «Sì a settembre non riprenderò le lezioni a scuola, andrò direttamente all’Accademia Navale».

    «Ah... ma come mai, cioè, insomma... salutarmi, noi non siamo amici...voglio dire...».

    Cavolo! Che figura! Capirà tutto se non m’invento qualcosa!

    «Emm... Reb... ho anche un suo messaggio urgente per te, e quindi...poi vedi...io non sono mai stato a Winter Harbor, sei l’unica che conosco in città e magari potresti... farmi da guida...che so...se ti va certo».

    Che imbecille, sei patetico Somerset!

    «Sì...Okay...bene» mi rispose in fretta; eccitato ribattei subito: «Okaaay, allora! Puoi raggiungermi a villa Carlton? Arrivo domani a mezzogiorno è al 345 Blueberry Hill Rd. Sai come arrivare? Sennò dimmi tu...».

    «No, so dov’è! A domani allora...» sembrava serena anche se un po’ distaccata.

    Forse non mi giudica tanto patetico in fondo. Speriamo!

    Stavo ancora analizzando le sue reazioni quando udii uno scrocchio secco, e la comunicazione cadde improvvisamente, tentai di ristabilirla qualche momento dopo, ma il suo telefono era improvvisamente spento, strinsi gli occhi sospettoso, ma dopo mi rilassai, forse le si era scaricato il cellulare, e in realtà...

    In realtà avevo finalmente un appuntamento con Samantha Lee!

    Mi sentii forte, mi sentii potente, mi sentii un Dio, ma soprattutto mi sentii vivo e fremente come non mai in vita mia.

    Le avrei confessato il mio amore subito senza inutili giri di parole.

    Dovevo farlo, dovevo sapere se mi avrebbe aspettato.

    Quella era la missione che aspettavo con terrore, ed era l’unica in cui avevo veramente paura di morire, perché perderla ancor prima di averla, era la sola fine a cui non mi ero preparato.

    Assurdo.

    Tony sei un drammone!

    Mi prendevo in giro da solo, ma mi conoscevo, non ero tipo da mezze misure: amarla da lontano, e non sapere i suoi veri sentimenti, non me la rendeva meno importante.

    Ormai è parte di me.

    Qualche speranza l'avevo tuttavia. Negli ultimi tempi Samantha era diventata più espansiva con mia sorella domandandole di me casualmente, e a volte, in classe, avevo colto qualche suo sguardo furtivo al mio indirizzo.

    Quei piccoli gesti mi avevano incendiato l'anima come una pioggia di fuoco amico che mi inebriava.

    Dovevo sperare.

    Chiusi gli occhi, e lasciai correre la fantasia.

    L’avrei incontrata a casa di zio Charles. Sapevo che la villa sarebbe stata vuota: i miei parenti non sarebbero arrivati prima di qualche giorno.

    Mia madre aveva chiesto a suo fratello le chiavi per me, e lui, che mi era molto affezionato, non aveva battuto ciglio.

    La villa era un gioiello di muratura e vetro, incastonato in una meravigliosa natura in cima ad una scogliera a picco sull’oceano.

    Avevo bellamente mentito: conoscevo bene quelle parti, c’ero andato spesso.

    Ricordavo ancora la stanza degli ospiti che occupavo l’ultima volta: aveva una bellissima vista.

    Il ricordo contro la mia volontà prese contorni diversi e gli occhi della mente indugiarono sull’immagine del grande letto matrimoniale che troneggiava al centro dell’ambiente e su cui avevo dormito. Mi immaginai condurla nella camera per parlarle dei miei sentimenti e se lei non mi avesse respinto avrei potuto baciarla e...

    Scossi la testa tentando di dominarmi, non era da me indugiare su certe dissertazioni mentali poco edificanti, ero molto rigido e moralista, anche se era anacronistico.

    Mi impedivo di pensare a lei in quei termini perché non sapevo se avevo il diritto di farlo.

    Non ancora...

    Però non potevo impedirmi di pensare al momento in cui mi avrebbe ascoltato.

    E se la sua risposta fosse stata positiva avrei buttato alle ortiche la rigidità che mi caratterizzava. L’avrei stretta a me talmente forte che avrebbe capito che la lontananza non sarebbe riuscita a sbiadire nemmeno un po’ il tatuaggio vivido del suo corpo contro il mio, della sua anima fusa con la mia. Neanche una guerra avrebbe potuto dividerci a quel punto. Lei in qualche modo sarebbe stata con me.

    Quell’abbraccio l’avrei stretto attorno al cuore, profondamente.

    Ero assorto nell’immaginarne tutti i particolari: le mie mani a stringerla, le sue braccia intorno alla mia nuca, e il mio viso seppellito nei suoi splendidi capelli.

    Non so quanto rimasi a fantasticare cullato dal profumo delle rose, e poi il telefono squillò, vidi il numero e il cuore sussultò.

    Era lei! Spinsi il tasto sul touch screen del cellulare. Il polpastrello era sudato: improvvisamente ero teso come le corde del mio pianoforte.

    «Sì? Pronto, Samantha?»

    «Non è lei all’apparecchio». La voce maschile mi colpì come uno schiaffo, d’istinto ripresi immediatamente il controllo. Strinsi gli occhi. Ero ancora teso ma adesso ero pronto all’azione, non ansioso.

    «Allora, chi parla, prego?» Secco: l’erede del Generale Somerset.

    «Il suo fidanzato».

    Gelo: intorno al cuore, nelle vene, nella testa.

    Un ghiacciaio che aveva rubato il freddo letale delle nevi perenni era sorto nel mio cervello, ibernando il mio essere.

    «Capisco»: l’affermazione era distaccata, fredda come quel gelo che mi rosicchiava l’anima.

    «Bene, purtroppo per te, Samy, domani e sempre, è impegnata con me. Se vuoi riferirmi il messaggio per lei da parte di tua sorella...»

    «Non è necessario, dille che Reb la chiamerà, e... scusami...?»

    «Steve».

    «Steve» il nome mi uscì come uno sputo, anche se poi questo estraneo non aveva colpe se non quella di aver diritto all’amore della mia vita.

    «Puoi salutarmi Samantha? Non credo che verrò a Winter Harbor, non... ci vedremo più».

    Cazzo più calmo! Non ti far tremare la voce. Deficiente!

    «Perfetto, riferirò».

    Sento la tua esultanza, e ti capisco. Dio come ti capisco! E vorrei ucciderti sconosciuto.

    «Ottimo».

    Quando la mia bocca pronunciò la ‘o’ finale seccamente, quasi ringhiando, lanciai il telefono, contro la fioriera di cemento accanto alla sedia, con quanta forza avevo.

    Sentii un crack e volarono delle schegge di plastica e alluminio, un ronzio e, lo schermo si spense, subito dopo che il cellulare ebbe finito la sua corsa sulle mattonelle del gazebo.

    Grande. Esultai.

    Ero riuscito a ucciderlo, chissà se con un po’ di aiuto non riuscissi ad avere la stessa fortuna con me stesso.

    Tutto, anche la morte era meglio del dolore che sentivo in ogni fibra del mio essere.

    Eppure ero come di pietra, imperturbabile, quando rifeci la strada indietro e andai a bussare alla porta dello studio del Generale.

    Entrai, mi avvicinai alla scrivania, papà alzò un sopracciglio, mi guardò, e per la prima volta vidi della paura nei suoi occhi.

    Molto strano, mi sentivo controllato, non credevo di avere un espressione particolare.

    «Volevo comunicarti che partirò nei tempi previsti, ho cambiato idea».

    «Edgar...cosa è successo?» Ancora più strano: mi parlava con voce incrinata, e mi chiamava col suo nome.

    Lui, il Generale. Assurdo.

    Il mondo aveva deciso di girare al contrario anche fuori di me, e non solo dentro.

    «Nulla, Signore».

    «Edgar ma... è per la ragazza? Cosa...».

    Insisteva a chiamarmi con quel nome.

    Mi irritai. Io non ero lui. Lui non avrebbe fallito. Si sarebbe mosso prima.

    Io. Non. Sono. Edgar. E sono stato esitante e...l’ho persa.

    Un soldato che esita muore.

    Sorrisi beffardo, c’era di peggio che morire.

    C’era vivere senza di lei.

    «Nessuna ragazza Signore, era solo una mia illusione, e come tale è svanita» freddo, cinico, ero fiero di me, neanche mi tremava la voce.

    «Edgar...vuoi parlarne figliolo?». «No Signore. Non ne vale la pena, e... papà?». «Sì dimmi».

    «Non chiamarmi più Edgar, sono Tony. Solo Tony. Io non sono te: ma spero di diventarlo, se riesco. Per te, per la famiglia».

    Il Generale si alzò facendo strisciare indietro la sedia rumorosamente, in due falcate mi raggiunse e mi abbracciò stretto, più stretto di quanto avessi mai ricordato; le mie braccia rimasero rigide lungo i fianchi, accerchiate dalla morsa del suo affetto, incapaci di muoversi. Mi sentivo come inebetito, come se tutti i miei sentimenti si fossero spenti con la mia disillusione nei confronti di colei che amavo, ma appoggiai il volto alla spalla di mio padre.

    «Figliolo, tu puoi essere ciò che vuoi, ma una cosa sarai sempre tuo malgrado: mio figlio, nostro figlio, e questo fatto non cambierà mai. Mai Edgar Anthony! Qualsiasi scelta farai, tu sei comunque importante per noi».

    Sorrisi contro il tessuto teso. Un sorriso che mi costò l’energia accumulata in diciassette anni.

    «Non per lei».

    Mi staccai dal suo abbraccio in un movimento repentino e corsi fuori, non volevo vedere il suo sguardo deluso quando si fosse reso conto che avevo bagnato il velluto della sua camicia.

    Non potevo sapere che, anche i suoi occhi d’acciaio grigio si erano velati, toccando la stoffa umida con le dita.

    L’acqua salata alla lunga corrode anche il metallo più duro.

    Nella mia corsa folle verso la mia stanza mi scontrai con mia sorella Rebecca che scendeva la solida scala di legno tirato a lucido, ero deciso a non farmi vedere in quello stato.

    Insaccai la testa nelle spalle superandola, senza neanche scusarmi per averla sbilanciata con una lieve spallata.

    «Tony, ma cosa? Tony!» sbottò sbigottita correndomi dietro, ma io avevo già sbattuto la porta della camera alle spalle chiudendola a chiave.

    Una pioggia di pugni sul legno: «Ehi fratellino! Anthony! Che succede?! Apri! Avevi una faccia! Che è successo?! Credevo che il Generale ti avesse ascoltato... Tony!».

    Altri pugni. «Rispondi! Oppure chiamo la mamma... non è da te! Edg...».

    «Zitta Reb! E non chiamarmi con quel nome! Lascia perdere mamma, sai che si preoccuperebbe! Non ho niente, sto facendo i bagagli, lasciami in pace!».

    Ma avevo una voce roca, irriconoscibile persino da me stesso.

    Non riuscivo più a dominarmi e ne ero terrorizzato.

    Nessuno doveva vedermi così, meno che meno mia sorella e mia madre, che erano già iperprotettive.

    «Edgar Anthony Junior, apri la porta o ti giuro che chiamo tutti, e intendo tutti! Anche Jas in Iraq».

    Fissavo il legno bianco della porta, ma la mia mano non si muoveva, non poteva. Sussurrai: «Reb, non farlo, non deve sapere nessun’altro che il mio cuore ha smesso di battere».

    Rebecca emise un gridolino soffocato di sgomento, non avevo mai parlato così a mia sorella. Ma anche lei era una Somerset: aveva una mente logica e pragmatica che schiacciava se occorreva la sua sfera emozionale. Ci mise un nulla ad elaborare.

    «E’ stata la Lee vero? Maledizione! Che ti ha detto?! Quella insignificante, piccola...».

    «Rebecca! Smettila! Lei non c’entra! Ho aspettato troppo e... l’ho persa, o meglio, adesso so che non potrà mai essere mia».

    Un altro colpo, una manata aperta contro il legno bugnato della porta.

    «Tony, ti arrendi così?! Non è da te! Sei eccezionale in tutti i sensi: il più bel ragazzo della... ».

    «Reb! Basta! Ho parlato con lui, capisci cosa intendo?! Il suo tono... non sono uno stupido e lo sai! E’ vero Rebecca! E lo deve amare tanto, se ha permesso che rispondesse al posto suo.

    Fine della storia! Mi passerà sorellina, domani parto e... ».

    «Domani?!... ma devi essere all’Accademia solo fra venti giorni!» si allarmò lei.

    «Vado lo stesso da zio Charles a Winter Harbor, ho le chiavi, almeno per qualche giorno sarò solo».

    «Almeno per qualche giorno... sarai vicino a lei! Tony, dacci un taglio netto, se non vuoi combattere!».

    Sentivo che si era appoggiata con la schiena alla porta e la martellava impaziente col retro del tacco dei suoi sandali.

    Mia sorella aveva ragione, ma sebbene morto, il mio cuore apparteneva ancora a Samantha Lee, e voleva solo stare per un ultima volta vicino a lei: c'era solo una cosa che potevo fare a questo punto, e l'avrei fatta.

    Steven

    La guardavo intensamente, non avrei voluto essere così impulsivo, diretto, ma diavolo stava esagerando!

    Non riuscivo più a starla a sentire affannarsi a spiegare i suoi dubbi, le sue speranze, per quell’idiota che neanche conoscevo.

    Non sopportavo la voce incrinata con cui aveva concluso la sua sparata sulla ricerca del mio appoggio per irretire lui!

    Il mio aiuto! Diavolo era grottesco!

    Quel suo tono triste, di chi si sottovaluta, non lo avevo proprio retto.

    Dovevo agire, parlarle, dirle che davanti a me, dopo un inverno in cui non era cambiato gran che nella mia solita quotidianità, si era fatto sentire il calore dell’estate con la sua meraviglia accecante.

    E quel miracolo aveva solo un volto e un corpo: il suo.

    Tutto di lei mi affascinava: Il viso minuto ed espressivo -adesso più adulto- in cui spiccavano i grandi occhi luminosi, le labbra piene e rosee, il naso grazioso, i suoi capelli caldi dai riflessi dorati come la luce del tramonto imminente.

    Con i pollici le carezzavo le guance che avevano preso colore.

    Ero balzato davanti a lei, dirle che doveva smetterla di sottovalutarsi, ma le parole non volevano uscire nonostante stessi schiudendo le labbra per parlare.

    Le ero troppo vicino e più che spiegarle l’ovvio, volevo baciarla e farglielo penetrare nella pelle attraverso la lava dei miei baci.

    Ero quasi arrivato a sfiorarle la bocca ma poi il suo telefono squillò.

    Mi allontanai di scatto, quasi svegliato da una trance, ed imprecai sottovoce.

    Lei con mani tremanti estrasse il cellulare dalla tasca dei jeans e rispose.

    Lì per lì non avevo badato alla conversazione, impegnato com’ero a maledire la sfortuna che mi aveva interrotto.

    Poi mi ero voltato di scatto a guardarla colpito dal tono emozionato delle sue parole.

    Ero distratto, sì, ma non cretino! E ci misi poco a capire che al telefono era lui. Potevo sentire la sua voce compassata da damerino pieno di soldi attraverso l'apparecchio.

    Lei sembrava esitante, confusa, ma indubbiamente lusingata che quel deficiente le stesse dando un appuntamento con una scusa.

    Non capiva che voleva solo provarci?!

    Quando stava per terminare la conversazione, non riuscii a trattenere la furia. Le strappai il cellulare di mano, interrompendo la comunicazione, per poi urlarle roco: «Samy! Non dirmi che vuoi incontrarlo a casa sua, da sola! Ho sentito l’indirizzo: è una strada privata che si inoltra nella macchia fino alla scogliera per due miglia!»

    Lei mi guardò stralunata, si era alzata dal tronco per parlare al telefono, ora si lasciò ricadere nuovamente sull’improvvisato appoggio. Sbuffando alzò il mento con aria di sfida. Sapevo il perché: odiava essere prevaricata. L’avevo presa dal verso sbagliato.

    Sono il solito impulsivo idiota! Maledizione non può andare da lui! Lo uccido quel deficiente!

    Prevedibilmente sbottò con livore: «Steve! Come ti permetti? Ridammi il mio cellulare! E’ un compagno di scuola, non un estraneo, e poi mi ha solo chiesto una cortesia, dubito che ci sia qualcosa sotto. Non mi ha mai notata, non vedo perché debba farlo adesso, non sembrava interessato a me, quanto annoiato, forse imbarazzato», le si stavano smorzando le parole mentre rifletteva sulla conversazione, poi riprese fiato per continuare con nuova energia.

    «E poi, non ti azzardare a parlarmi così! Non sei Ted! E sei anche più piccolo di me! Adesso dovrò richiamare per scusarmi e...».

    Eh certo che non ero il Ranger Lee! Se ne accorgeva solo ora?! Doveva smettere di sottovalutarmi!

    Mi irritai e questo mi diede coraggio: «No, non sono tuo padre, o tuo fratello! E non sono piccolo Samy! Vuoi capirlo?! ».

    Avevo ancora il suo cellulare in mano e lo spensi rabbioso. Non avrei tentato la sfortuna due volte.

    Lei mi fissava furente, ma prima che potesse proferire parola, ero di nuovo a un millimetro dalla sua bocca. Stavolta non attesi che ci interrompessero: non volevo, non potevo sprecare l’occasione!

    Se... se quel bastardo l’avesse baciata? Prima che potessi dirle che l’amavo?

    Doveva dare il suo primo bacio a me... non a lui.

    Lei era mia da sempre, doveva solo scoprirlo: i suoi occhi emozionati me l’avevano confermato un attimo prima che fossimo interrotti.

    L'attirai con uno scatto: la mia mano avvolgeva da dietro il suo collo.

    Sentivo solleticarmi il palmo dai suoi capelli come fossero impalpabili piume, che però pungevano come spilli impietosi.

    Le mie labbra premevano sulle sue, le serravo la nuca.

    Lei dapprima esitante, si era protesa istintivamente verso di me, ma adesso con i due palmi delle mani aperti, spingeva le mie spalle indietro con la bocca serrata, anche se aveva il mio stesso respiro affannato che le gonfiava il petto.

    Io ripresi subito il controllo, mi staccai tentando di proferire una scusa, ma lei caricò il braccio e mi stampò uno schiaffo a mano aperta sul volto.

    I suoi respiri adesso erano un ansimare furioso, gli occhi le lampeggiavano.

    Le cinque dita di Sam avevano impresso un marchio sulla mia guancia che mi pizzicava fin dentro il cervello.

    Non ragionavo -per niente- eppure, sapevo dal suo sguardo che mi trapassava furioso, di avere ancora una speranza.

    Troppa rabbia. Troppo interesse.

    Dovevo crederlo -in questo momento- sennò sarei uscito di senno.

    Dovevo impedirle di commettere l’errore di non accorgersi di me, di preferire lui.

    «Samy io... scusa ma, era l’unico modo che... devi capire...» mi interruppe rabbiosa: «Cosa devo capire?! Che sei uno stupido maschio? Sì! Complimenti Steven Moore! Sei stato esplicativo! Hai ragione Steve! Non sei mio fratello, e non sei piccolo... per niente, tutt’altro, ma... lo so già maledizione! Ma... non sei neanche maturo! Io non... io... prima...

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