Condannato senza possibilità d'appello.
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Condannato senza possibilità d'appello. - Francesco Toscano
Note
Sito web e blog dell'autore:
http://www.siciliaterradelsole.com/
http://www.anticoastronauta.blogspot.it/
Pagina Facebook dell'autore:
https://www.facebook.com/francescotoscano1969
E-mail dell'autore:
francescotoscano1969@gmail.com
Uno.
Di quel dì in cui la mia vita e il mio destino cambiarono per sempre, ricordo solo che era un uggioso pomeriggio di fine febbraio, uno dei mesi più freddi nella provincia di Palermo, l'area geografica di questo piccolo globo in cui, sono nato, cresciuto, e più volte mi sono reincarnato. L'aria intrisa d'umidità, spinta da delle folate di un freddo vento di maestrale, entrava in maniera irruente nelle nostre ossa, poveri mortali, costringendoci a stringerci nei nostri scialli di lana di concia, a volte puzzolenti, sino quasi ad asfissiarci, e a imbacuccarci nei nostri paltò di panno robusto che coprivano i nostri pantaloni di fustagno che denotavano le misere condizioni socio economiche in cui eravamo costretti a vivere. Nulla di strano se ciò fosse avvenuto in un altro posto al mondo. Era molto strano per noi siciliani che, oltre a soggiacere alle intemperie, fossimo ancora costretti a marcire nella nostra miseria, nonostante l'Italia fosse stata creata e il governo monarchico ci avesse garantito, a più riprese, che da lì a qualche anno la nostra vita sarebbe migliorata. Purtroppo non avevamo fatto i conti con la crisi di fine secolo
, un periodo di recessione economica che contribuì, infatti, all'aumento della tensione sociale e politica, che si tradusse nella successione di undici governi nei dieci anni che seguirono. Correva l'anno 1893 e il primo governo Giolitti era già in parlamento da circa nove mesi, e lì vi sarebbe rimasto in carica, se non ricordo male, sino al mese di dicembre di quell'anno, per un totale di cinquecento settantanove giorni. Non so dirvi che cosa mi accadde quel giorno nefasto, e mai sarò in grado di spiegarlo ad alcuno, sebbene me l'abbiano chiesto in tanti in questi ultimi due secoli di oscurità.
Non credevo, prima di passar a miglior vita
, quando ancora mi trovavo sulla Terra, che l'Inferno esistesse, sebbene la mia cultura, e la religione da me professata sino a qualche anno prima che io morissi, mi avessero insegnato tutto il contrario. Quello era un Inferno più dantesco che cristiano, più allegorico che metafisico. La mia anima, pur tuttavia, allontanandosi in vita dalla Luce, così precipitando nel buio degli abissi tenebrosi, aveva avuto modo di conoscere e di sperimentare ciò che significasse, per davvero, vivere nella tristezza più assoluta, nell'estremo dolore, nell'enorme disperazione e tormento eterno. Facevo mille supposizioni del perché fosse successo proprio a me, alla mia anima, nel reincarnarmi in quelle nuove vite, chiedendomi ogni istante che cosa avessi potuto realizzare se fosse andata diversamente; per quale motivo la mia anima aveva fatto le stesse esperienze delle vite precedenti, così costringendomi a rimanere in quest'universo fatto di sofferenze e di malvagità?
«La Giuria!»
Tutte le anime che affollavano l'assemblea si alzarono dalle poltrone in cui sedevano, inchinandosi in direzione della Suprema Corte.
«Che l'imputato si alzi!» disse il giudice a latere che sedeva a fianco del Presidente della Corte. Non obiettai. Mi alzai in piedi pronto ad accettare la Sentenza di condanna che da lì a poco sarebbe stata emessa nei confronti della mia anima, forse per l'eternità.
«Che cosa ha da dichiarare a sua discolpa?» disse il Presidente della Corte, guardandomi quasi volesse procedere a un'introspezione psicologica.
«Nulla vossignoria!» dissi timidamente.
«Ammetto le mie colpe e chiedo la clemenza della Corte…», dando così sfogo, ed esternando, tutti i sentimenti di contrizione che in quegli ultimi anni avevo man mano concepito.
«Allora ammettete i fatti che vi vengono contestati? Vi dichiarate colpevole di aver trucidato la vostra famiglia, in un momento d'ira sfociato in un raptus omicida?»
«Sì!»
«Orbene, a conclusione di questi cento anni d'investigazioni, tenuto conto delle circostanze attenuanti ammesse, e in virtù dei poteri a me conferiti», disse il Presidente della Corte, «condanno quest'anima a espiare duecento anni di pena sul pianeta Terra, reincarnandosi per ben tre volte in una nuova vita.».
Continuando disse: «Quest'anima avrà cura di condurre queste altre tre vite nella preghiera e nella penitenza, al fine di lenire il dolore arrecato ad altre anime, le quali nel corso di questo processo hanno chiesto a questa Corte, in ragione dei sentimenti d'amore che vi legarono in vita, di esser assai clemente nel formulare questa Sentenza di condanna appena emessa nei vostri confronti.».
Non dissi nulla. Non replicai. Accettai di reincarnarmi per altre tre volte in una nuova vita sul mio pianeta d'origine. Ero consapevole del fatto che la mia anima mi avrebbe costretto a vivere nel pentimento, Ad maiorem Dei gloriam, di luterana memoria.
Prima di uscire dalla sala dell'assemblea, il Presidente disse: «Accompagnate quest'anima nella sala dell'oblio, affinché si possa reincarnare in una nuova vita.».
E ancora, rivolgendosi direttamente al mio spirito: «Ricordati che ti restano solo queste tre possibilità di redenzione, e che se dovessi fallire miseramente la prova di virtù che ti è stata assegnata, ti ritroverai a dover lottare con le fiere, i prossimi tuoi simili.».
Girai lo sguardo verso i miei due carcerieri che mi stavano per accompagnare nella sala dell'oblio quando, a un tratto, mi balenò in mente un ricordo di una vita da me già trascorsa, sintetizzabile in questa massima ricca di saggezza: «Chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso.».
Mi feci coraggio, lasciandomi trascinare in quella nuova realtà e dimensione dell'essere.
Due.
Venerdì, 4 maggio 1990. In una modesta casa del quartiere Ballarò di Palermo.
Un neonato piange disperato per la fame.
«Non piangere piccolo mio, che la tua mamma ora ti canterà questa bellissima canzone: Apri i miei occhi Signore… Apri i miei occhi Signore. Voglio vederti, voglio vederti…. Apri i miei occhi Signore… Apri i miei occhi Signore….Voglio vederti, voglio vederti.. Vederti splendere su me… Nella luce della Tua gloria.. Versa il Tuo amore su noi.. Mentre cantiamo Santo ..Santo…Santo, Santo, Santo.. Voglio vederti! Santo, Santo, Santo..Santo, Santo, Santo…Voglio vederti! »
«Comare Piera, chi ci avi ù picciriddu?» disse la zia Tina, urlando con voce febbrile dal basso accanto.
«Zia Tina, zia Tina, presto, presto, entrate! Non riesco a far quietare la mia creatura.».
«Puvirazzu! Ha le coliche addominali...» precisò la zia Costantina, alle donne del quartiere meglio nota come à zì Tina. Era una piccola donna, ormai prossima a compiere sessantacinque anni, che in gioventù si era prostituita perché costrettavi dal marito, che si premurava ora, in età avanzata, a compiere quelle opere di bene che la vita dissoluta, che aveva condotto, sino a un ventennio addietro, non le aveva fatto ultimare, tenuto anche conto che era ormai prossima a morire, e che avrebbe fatto di tutto per salvare la sua anima da una sicura dannazione eterna; almeno così le disse, un giorno, Fra Rosario, un fraticello della chiesa di San Domenico, all'uscita dalla messa vespertina.
«Il dottore mi ha prescritto delle gocce da dargli, macché... nulla!» disse Piera, con le lacrime che le rigavano il viso, mossa da quell'istinto materno che le avrebbero fatto fare di tutto per alleviare le sofferenze alla sua prole. E in preda ad una crisi di nervi, continuò dicendo: «Sono le 20.00 e quel debosciato di suo padre ancora non è rientrato. Che ve ne pare, zì Tina? Il bambino ha bisogno di cure, d'amore, e lui che fa, va girando taverne, taverne, ogni giorno sempre più ubriaco fradicio!».
La zia Tina, mossa a compassione, le disse: «Non ti preoccupare figlia mia, non disperare che le cose si aggiustano. Tutto sommato è un brav'uomo, timorato di Dio, che arranca a trovare un lavoro; è per questo, secondo me, che sfocia nei fumi dell'alcol la sua rabbia, proprio perché non può dare a suo figlio una vita più dignitosa e agiata.».
Mentre l'anziana donna parlava, tessendo le lodi del giovane compagno di