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Il prezzo del silenzio
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Il prezzo del silenzio

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Gli attentati mafiosi degli anni Novanta, la trattativa con lo Stato e le vicende di Tangentopoli rivivono in una folgorante spy-story. Un vero pugno nello stomaco del lettore.

Esperto di intercettazioni, Davide era a Palermo nel ’92. Dal centro di spionaggio ha visto saltare in aria la poliziotta che amava. Da allora vive come un eremita. Quando il suo destino incrocia quello di una rapinatrice, è costretto ad affrontare i fantasmi del passato. Coinvolto suo malgrado in un gioco più grande di lui, scoprirà l’esistenza di un patto segreto tra Cosa nostra, politici e istituzioni.

Un racconto mozzafiato. Un’opera che varca il “confine che separa Stato e anti-Stato, crimine e legge, in un paesaggio umano dove Bene e Male sono inutili astrazioni” (Alan Altieri).
LanguageItaliano
PublishergoWare
Release dateNov 3, 2014
ISBN9788867972548
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    Il prezzo del silenzio - Alex B. Di Giacomo

    © 2014 goWare, Firenze

    in accordo con Thèsis Contents Agenzia Letteraria, Firenze-Milano

    ISBN 978-88-6797-254-8

    Copertina: Lorenzo Puliti

    Redazione: Marco Rosati

    Sviluppo ePub: Elisa Baglioni

    goWare è una startup fiorentina specializzata in digital publishing

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    Presentazione

    Gli attentati mafiosi degli anni Novanta, la trattativa con lo Stato e le vicende di Tangentopoli rivivono in una folgorante spy-story. Un vero pugno nello stomaco del lettore.

    Esperto di intercettazioni, Davide era a Palermo nel ’92. Dal centro di spionaggio ha visto saltare in aria la poliziotta che amava. Da allora vive come un eremita. Quando il suo destino incrocia quello di una rapinatrice, è costretto ad affrontare i fantasmi del passato. Coinvolto suo malgrado in un gioco più grande di lui, scoprirà l’esistenza di un patto segreto tra Cosa nostra, politici e istituzioni.

    Un racconto mozzafiato. Un’opera che varca il confine che separa Stato e anti-Stato, crimine e legge, in un paesaggio umano dove Bene e Male sono inutili astrazioni (Alan Altieri).

    * * *

    Alex B. Di Giacomo è lo pseudonimo di un noto sceneggiatore. Docente di scrittura creativa, autore di serie tv di successo, di un premiato corto e di un horror realizzato all’estero, ha scritto un manuale di sceneggiatura e diretto una collana di gialli. Al suo attivo il thriller Eva crudele (Ciesse, 2014) e il romanzo vincitore del premio Tedeschi Punto di rottura (Mondadori, 2010), di cui Il prezzo del silenzio è la versione rimaneggiata.

    Estate 1992

    Palermo

    La mafia è una confederazione di mafie: qualche volta in pace, qualche volta in accordo, spesso in conflitto. Conflitti che è da credere nascano appunto dalla volontà di prevaricare, di sconfinare, di sconvolgere l’equilibrio federativo per fare uno stato unitario e assolutistico.

    Leonardo Sciascia

    Gli ordini Davide non li discuteva. Li applicava alla lettera.

    «Voglio sapere che fa la signora Colaianni, con chi parla, se incontra il fratello», gli aveva detto il capocentro, Rizzo.

    Davide sfoderò la Kodak con dorso digitale e motore modificato. Scattò centinaia di foto. Gli alti papaveri del SISDE volevano un servizio completo. L’Obiettivo Umano li avrebbe accontentati.

    Ada Colaianni ritornava dal mercato di da piazza Verdi. Click. Aveva le sporte traboccanti. Click. Nessun mafioso nei paraggi.

    Davide mise via la macchina fotografica. La scena si spostava dentro l’appartamento. La mini-telecamera occultata nel sensore antincendio filmava alla grande. La spesa sul tavolo, lumie che cadevano, Ada che le raccoglieva. Ripresa dal soffitto. Ada faceva ordine nel frigo.

    Davide pulì le lenti degli occhiali. Focalizzò il monitor e mise il ventilatore a piena potenza. Si sarebbe goduto l’intero spettacolo con obiettivo pin-hole. Era abituato alle lunghe attese. Il centro di sorveglianza puzzava di panelle e salsedine. Il resto della squadra era acquartierato sopra Palermo.

    Davide aveva odiato quella città. Fino a quando, l’anno prima, conobbe Teresa a Mondello. Si erano incontrati sulla spiaggia. Si erano capiti all’istante. Erano usciti e furono subito scintille. Lui le aveva detto «Meriti qualcos’altro». Lei gli aveva detto «Sei una persona speciale». Teresa faceva sul serio. Teresa lo aveva presentato alla famiglia. Lei aveva poco tempo libero. Lavorava al servizio scorte. Davide non le aveva mai rivelato il suo vero lavoro. Avrebbe dovuto dirle: Io sono pagato per fare il guardone, mentre tu fai la scorta ad un procuratore condannato a morte dalla mafia?

    Davide s’affacciò alla finestra. Sorrise. Bingo. Oltre chiazze di profumati gerani appesi ai balconi, apparvero due auto dai vetri scuri che stringevano a panino la Croma blindata del magistrato.

    Alberto Colaianni aveva il più alto indice di produttività dell’intera procura. Non poteva camminare in strada. Aveva cambiato dieci volte alloggio e nell’ultimo aveva montato una garitta con vetri antiproiettile. La sua abitazione era sotto vigilanza anche quando non c’era nessuno. Alberto con la sorella aveva un rapporto speciale. Ada era la sua migliore amica. Lei gli comprava le cravatte e gli regalava i dischi. Lei poteva entrare in un negozio, parlare con la commessa e fare un acquisto. Quello che non sarebbe stato possibile fare in Sicilia a un magistrato. Per Alberto c’erano percorsi segreti, programmi codificati, scelte di autodifesa. Una vita da guerra.

    Davide afferrò di nuovo la macchina digitale e sorrise. Una bella coincidenza. A Teresa quel giorno toccava il servizio di scorta. Mentre faceva colazione l’aveva sentita parlare al telefono con l’ufficio turni. Doveva sostituire un collega che aveva la febbre.

    Una berlina guidava il corteo sgommando nervosa. Click. Osservò la donna che aveva promesso di sposare. Si preparò allo show. La Croma si fermò davanti al portone a motore acceso. Click. Un angelo custode scese dall’auto di coda. Click. Smontò Teresa. Click. Controllava i tetti dei palazzi, un M12S alla mano. Click. La divisa le donava. Click. Due agenti scrutarono un passante ignaro. Click. Via libera al magistrato per raggiungere il portone.

    Alberto Colaianni aveva portato a termine centinaia di inchieste sulla mafia, infliggendo parecchi ergastoli. Si era tolto di dosso il fango con cui avevano cercato di distruggerlo. Per i risultati conseguiti aveva ottenuto attestati di stima dalla stampa, dall’opinione pubblica e dal mondo della politica. Ma aveva capito di essere scomodo. L’ultimo filone dell’inchiesta si occupava di mafiosi di rango, imprenditori, uomini delle istituzioni. Lavorava febbrilmente su migliaia di faldoni per restituire un briciolo di dignità alla sua terra. Era sul punto di spiccare i primi mandati di cattura. Sapeva di non avere molto tempo, ma non sospettava che il suo tempo sarebbe finito quella domenica.

    Davide staccò gli occhi dal teleobiettivo per bere il caffè appena uscito dal fornello. Sentì un sibilo penetrargli nelle orecchie. Poi il boato che doveva cambiargli l’esistenza. Il vuoto d’aria fu simile al soffio di un gigante. Lo gettò a terra con violenza inaudita.

    La tazzina distrutta. I vetri della finestra in pezzi. Gli occhiali sbriciolati. Una nube densa avvolse la strada. La Croma del magistrato spostata di venti metri. Dei suoi occupanti brandelli di corpi. Infissi di balconi pendenti nel vuoto. Il manto stradale scoperchiato, come se l’inferno si fosse materializzato sulla terra. Sirene di volanti perse in lontananza.

    Davide restò giù. Senza occhiali. (Per quanto tempo?)

    Faticosamente mise a fuoco i piedi del dottore Rizzo: sempre più vicini.

    Il capocentro, Sergio Rizzo. Gli urlò: «Che cazzo è successo?».

    Davide chiuse gli occhi da talpa. Non alzarti. Meglio fare la sua fine. Meglio essere divorati dalle fiamme. Come lei. Chiuderla lì per sempre.

    Rizzo fece entrare un suo sottoposto. Un bestione di un metro e novanta, le vene delle braccia tese come cavi di acciaio: il tenente Candida.

    Un’occhiata disgustata, come a un insetto da schiacciare.

    «Chi è stato?», domandò Candida.

    Non rispondere. Fingi di dormire.

    Candida sorpassò il monitor e gli apparecchi di sorveglianza. Calpestò schegge di vetro. Attraverso ciò che restava della finestra, vide che la fitta coltre nella strada si stava dissipando.

    «Sono morti tutti?».

    C’era una nota di angoscia nella voce di Rizzo.

    Candida assentì. Sull’asfalto le membra carbonizzate dei poliziotti di scorta.

    Non alzarti. E lascia che il sonno continui per l’eternità.

    27 giugno–4 luglio 1994

    Washington, Versilia, Roma

    L’uomo tende a creare in sé un quadro semplice e chiaro del mondo con un metodo più o meno adeguato; e ciò non solo per controllare il mondo in cui vive, ma anche per cercare di sostituire in qualche misura il mondo col quadro che se n’è fatto.

    Albert Einstein

    1.

    L’RFK Stadium di Washington gremito. Caldo torrido. Cinquantamila spettatori che soffocano sbadigli. Il soccer noioso. Gli azzurri facevano possesso palla, i messicani cercavano di contrattaccare. Alla ripresa Sacchi aveva tolto Casiraghi e inserito Massaro. Serviva un gol per la qualificazione agli ottavi e, dopo tre minuti, i tifosi furono accontentati. Un gran lancio di Albertini, Massaro girò a rete con un rasoterra imprendibile. Migliaia di spettatori si erano alzati come un solo uomo urlando forza Italia!

    In piedi nella tribuna d’onore, in camicia a pois gialli con le maniche arrotolate, il Professore non ebbe il tempo di gioire. Vide – con uno dei capovolgimenti tipici del calcio, sport cinico e imprevedibile – la palla trasmigrare verso la porta difesa da Marchegiani, Bernal stampare un diagonale lento e Marchegiani distendersi, allungare il polso, snodare le dita, e il pallone continuare a viaggiare insaccandosi con un rumore di lana.

    I tifosi del Messico si alzarono urlando da ossessi. Goal!

    «Come si fa a prendere una rete simile?», imprecò il Professore, che si lasciò cadere sul sedile. Il pareggio assurgeva a un valore su scala più ampia, di catastrofe. Il Professore era volato negli States per vigilare che tutto andasse secondo i suoi disegni. Conosceva i giocatori come tipi strani, con le loro stravaganze e debolezze. In caso di necessità, era pronto a dare loro un aiutino. Ma adesso le cose si stavano mettendo davvero male.

    Benarrivo chiudeva gli spazi, un timido contropiede di Massaro, una veloce fantasia di Baggio, e poco altro. Noia assoluta. L’Italia di Sacchi si avviava ad incassare l’ennesimo pareggio. Gli spalti rumoreggiavano.

    «Onorevole, non è un bello spettacolo, vero?».

    A rivolgergli la parola era stato un assistente brufoloso.

    Il Professore imprecò, deterse le labbra dal sudore e constatò che il suo attaccante preferito, Berti, non riusciva ad espugnare la roccaforte messicana.

    «Guadagnano miliardi, e sembrano di pasta frolla».

    «Neppure l’uggia dell’onore», fece eco una donna che faceva parte della delegazione, inguainata in un vestito rosa incurante dei quaranta gradi.

    Il Professore non diede confidenze. Si arroccò nel siculo mutismo. In verità aveva la testa a Roma. Erano stati giorni densi, prima della partenza. Eletto alla Camera dei Deputati con il 60% dei voti al collegio di Bagheria, aveva salito le scale di Montecitorio per la prima volta in vita sua. Ma il governo appena formato traballava, ricattato dagli appetiti di schieramenti dissimili. E poi c’erano le toghe rosse che demolivano il vecchio sistema e i principi del nuovo. La giustizia aveva sostituito al simbolo della bilancia quello delle manette. Il legame tra giornalisti di sinistra e giudici campioni di narcisismo era stretto, e il segreto istruttorio un mistero buffo. Cosa Nostra – che aveva comprato i suoi voti – avanzava pretese. I mediatori dei clan vincenti raccomandavano di rispettare gli accordi. E lui si era rimboccato le maniche, aveva pescato nel mazzo e tirato fuori il jolly. I Mondiali! L’Italia campione del mondo!

    Quando la partita terminò col pareggio, il Professore sprofondò nella delusione. Vide la muraglia di bandiere, volti e sudore aprirsi come il mare davanti a Mosè. Vide il suo progetto sgretolarsi. Vide il pubblico che sciamava lentamente dallo stadio a testa bassa.

    «Cosa succede adesso?», domandò al collaboratore brufoloso.

    «A eguale differenza reti, decidono i gol segnati. Messicani e irlandesi passano il turno, mentre la Norvegia resta fuori».

    «Della Norvegia non me ne fotte una minchia. Io voglio capire che sarà della squadra che rappresenta il mio paese».

    «Il passaggio del turno è appeso a un filo: per essere ripescati come migliori terzi, servono due classificate terze con punteggio inferiore. La prima c’è: la Corea del Sud ha chiuso il gruppo con due punti... per l’Italia, serve la seconda».

    «E quindi?», chiese spazientito il Professore che di calcoli non ne voleva sapere.

    «L’Italia prosegue il torneo solo se il Camerun non fa punti con la Russia. Insomma, dobbiamo pregare che il Camerun perda».

    Concesso un pomeriggio di libertà ai poliziotti della scorta, il Professore rinunciò a visitare il Wilson Building e percorse i sotterranei di uno stadio americano con una valigetta di cuoio. Aveva infinite risorse, lui. Era in grado di prevedere l’imprevedibile. Aveva numeri che non si trovavano nell’elenco.

    Nel lungo corridoio illuminato dal neon l’accompagnava una ragazza in rosa, con un terzo dei suoi anni. La famiglia di Partinico aveva insistito per farle fare le ossa a Roma. E la ragazza nei fine settimana era diventata la sua amante. Il Professore l’aveva portata a Washington, senza sapere che gli sarebbe tornata utile. I sotterranei erano un antro rabbrividente. Un posto inadatto a un influente deputato.

    «Io non capisco... Che c’entra la nazionale di Baggio con la politica nazionale, e con la vita del nostro partito?», protestò la ragazza.

    «Puoi smetterla di fare domande, per una volta, ed eseguire semplicemente un ordine?».

    «Volevo dare un contributo. Scusami».

    Il Professore ebbe un sussulto di tenerezza. Le carezzò il viso di porcellana, pentito. Decise di impartirle una lezione di saggezza.

    «Hai mai sentito parlare dell’effetto farfalla?».

    La bionda scrollò i suoi meravigliosi capelli: stava per uno sconsolante no.

    «Si dice che un semplice battito di ali di un insetto in Brasile causi una catena di movimenti di molecole fino a scatenare un uragano in Texas... Questo per dire che a volte si fanno delle azioni che non sono apparentemente collegate alle altre, ma che servono a innescare delle reazioni».

    «Ho capito», disse la ragazza con l’aria di chi non aveva capito affatto.

    «Ora non te lo sto a spiegare per filo e per segno... ma questo c’entra con l’attentato a Colaianni, e può provocare benefici al nostro corso politico... Effetto farfalla: appunto. Gli eroi sportivi catturano la luce dei riflettori, assorbono le energie degli spettatori. Sono una concausa di disattenzioni, rimozioni, investimenti... Sono anni che i concittadini mi rompono i coglioni col martirio del giudice antimafia, e vedrai che è la volta buona che Colaianni se lo dimenticano! Tutti! Grazie ad Arrigo Sacchi! E noi potremo fare il bello e il cattivo tempo!».

    Nel corridoio si sentirono dei passi, amplificati da una vasta eco. Il rumore risuonava per i sotterranei. La ragazza si strinse all’onorevole. Il Professore la scansò. Aprì la valigia e ne verificò il contenuto. Un flacone romuro di pinaverio e atropina appena usciti da un laboratorio clandestino. Le giuste dosi per diminuire le prestazioni senza condurre a una paralisi del sistema nervoso dei giocatori. Il Professore richiuse la valigia e spronò la ragazza.

    «Portala al nostro uomo... e poi torneremo a Roma a festeggiare il passaggio del turno».

    Il suo contatto, il preparatore atletico del Camerun, era rimasto a una trentina di metri. Il luogo fissato per la consegna era vicino all’uscita delle tribune. Per il Professore era più prudente non farsi vedere.

    «È nero come la cioccolata», sussurrò alla ragazza incoraggiandola con una leggera spinta.

    La bionda esitò, con la valigia in mano, prima di farsi inghiottire dalla lunga ombra. Il Professore sorrise, pregustando la figura che avrebbe fatto la nazionale camerunense. Ripensò a uno dei letterati da lui più amati, che aveva scritto che il calcio era l’ultima religione moderna. Beh, lui stava per dissacrare anche quella.

    2.

    La politica nettata dalla magistratura. Il mezzobusto del giornalista snocciolava il rosario degli arresti. Tangenti versate da sedici imprenditori. Perquisizioni in casa Andreotti. L’ex ministro della Sanità in carcere. Sotto accusa le precedenti legislature. Tangentopoli: una bufera che minacciava di portarsi via tutto.

    Davide non seguiva il bollettino giudiziario in cui s’era trasformato il tg. Spense il televisore. Osservò il mondo intorno a sé in uno stato sonnolente, come in una sbornia senza felicità. La villa sulla Riviera Apuana in cui si era trasferito dava l’idea di un bastimento. Silenzio assoluto, intervallato dal mare gorgogliante. Un divano. Pochi mobili. La scalinata in pietra che portava al piano superiore. Mura spoglie, senza segni distintivi. La porta finestra costituiva l’unica via di fuga in uno spazio deserto.

    La nuova casa acuiva la sensazione di provvisorietà. Troppo grande per una persona sola. Il luogo ideale per perdersi, o per ritrovarsi.

    Davide continuava a sentire l’odore di esplosivo. Una bomba che, ogni giorno, gli esplodeva nella testa. Al suono del campanello, represse l’ansia.

    «Accomodati», disse mentre apriva la porta a Michele.

    Afflitto da alopecia, Michele era stato suo compagno di liceo, ma sembrava avere il doppio degli anni. Una modesta carriera di dottore di provincia non lo aveva reso soddisfatto e gli aveva dato un’aria tediosa e depressa.

    «Sono due mesi che ti sei trasferito... e ancora non hai sistemato?»

    «Non ne ho avuto il tempo», mormorò Davide seccato.

    «La gente si sta facendo un’idea strana su di te. Cinquale è un piccolo paese, e l’arrivo di un forestiero fa parlare».

    «E che dicono?».

    «Che sei un tipo particolare. Stai sempre a guardare il mare, a fissare le persone. Parli poco. Insomma, credono che sei un po’ matto».

    «Non mi importa quello che pensano».

    Michele preferì non insistere. Si massaggiò la testa calva e si guardò intorno. La sala era intasata da scatole di cartone e imballi da trasloco, che nessuno si era degnato di svuotare. Alzò le spalle. Non era quello il problema maggiore. Aprì una cartellina dell’ospedale e tirò fuori le analisi mediche. «Cuore, sangue e tutto il resto sono a posto. Insomma: sano come un pesce».

    Davide diede un’occhiata distratta. I valori erano nella norma.

    «Io ancora mi chiedo come hai potuto...? Ci conosciamo da una vita... Adesso che sei uscito dal tunnel, promettimi che non ci ricadrai».

    Davide annuì. Restò in silenzio per un minuto e sospirò, come se quella casa fosse il suo ultimo rifugio. Non aveva mai fatto parola della missione in Sicilia e dell’appartenenza al SISDE. La segretezza era parte integrante del lavoro.

    «Leo? Si è più fatto vedere?», domandò a Michele.

    «Lo conosci com’è fatto. Appare, scompare. Deve essere sempre originale. Ha detto che presto faremo una rimpatriata».

    «Ha le sue manie di grandezza, ma gli sono grato... come anche a te... Mi siete stati vicini, in questi ultimi mesi, e non lo dimenticherò».

    «Abbiamo fatto quel che potevamo».

    «Leo mi faceva visita ogni settimana al centro di recupero. Ho apprezzato il suo impegno... e anche il tuo».

    Michele ammirò il mare nero come l’inchiostro, poi sembrò ridestarsi dal torpore. Indicò una porta metallica che attirava la sua attenzione. «E dietro quella porta che c’è?».

    «Le mie attrezzature tecniche».

    «Il solito topo di informatica», aggiunse lui con un sorrisetto.

    «Grazie di avermi portato le analisi», disse Davide ritirando la cartellina e congedando Michele con uno sguardo.

    Michele era consapevole della sua mediocrità e invidioso del successo altrui. Aveva un carattere sfuggente e astioso. Eppure Davide gli voleva bene come a un fratello, forse perché dopo una lunga frequentazione era portato a tollerare i suoi difetti. Da uno schermo collegato alle telecamere, osservò l’amico allontanarsi attraverso il giardino. Si versò del tè freddo e raggiunse il patio. I suoi passi riecheggiavano nel silenzio. L’oscurità divorava la costa zigzagante cosparsa di luci. Il patio sembrava galleggiare nell’ignoto. Si accomodò su una sdraio e bevve. Il fresco della bibita. La fragranza della sera. La spuma delle onde. Le costellazioni sopra la testa svuotata. La solitudine che sapeva di dolce e amaro. Tornò ai pensieri che – sempre a quell’ora – lo assalivano.

    Dopo la carneficina, la psicologa gli aveva parlato di una malattia che si impossessa delle persone che assistono a una strage. Lui credeva che avrebbe assorbito la botta. Aveva ripreso servizio, come niente fosse. Però aveva sempre una grande tristezza, accompagnata da una strana assenza di dolore. Una patologia con sintomi indefiniti. Aveva eretto barriere su barriere. Improvvisamente, era andato in tilt. Il suo equilibrio aveva ceduto, schiantato di netto. Gli era sembrato di impazzire. Visioni. Voci nella testa. Crisi di nervi per lo scoppio di un palloncino. L’aggravio dei segreti: la sua versione dei fatti. I principali incubi: Ada Colaianni e Teresa.

    Che provava in definitiva? Niente. Si sentiva vuoto. Era attraversato da un’oscena sensazione di vacuità. Dentro di sé c’era solo il deserto.

    La droga gli era apparsa come una liberazione. Fortissime sensazioni di piacere. Dimenticare la Colpa. Stare bene per la prima volta. Andare a migliaia di chilometri dal mondo. Allucinazioni, dispnea, cefalea. Stare male. Intossicazione. Aveva visto i drogati sfruttare il proprio disagio per ottenere ciò che volevano. Lui non aveva mai utilizzato la sua debolezza come strumento di manipolazione. Il centro medico lo aveva liberato dalla droga. Dosi massicce di naloxone. Terapia di gruppo. L’aiuto della comunità. Capire gli errori. Superare le paure. Aveva abolito la parola futuro. Era andato nel buco di paese dove era nato. Aveva ristrutturato la casa paterna. Aveva acquistato un motoscafo. Aveva lasciato i suoi strumenti tecnologici in un laboratorio pieno di ragnatele. Aveva sconsigliato al mondo intero di occuparsi di lui.

    Una telefonata lo strappò dal bilancio esistenziale. Davide tornò in salone. I ripetuti squilli avevano rotto la pace serotina. Era tentato di non rispondere. Quasi obbedendo a un istinto incondizionato, alzò il ricevitore.

    «Va bene. Verrò a Roma», concluse glaciale. Quando mise giù la cornetta, ebbe un brivido. In molti avevano preannunciato il suo ritorno ai Servizi, ma era qualcosa davanti a cui aveva chiuso gli occhi. Fino a quel preciso momento, quando una voce familiare lo aveva ridestato. Ragionò sul suo percorso ciclico. Il dato assurdo era di essere tornato al luogo esatto da cui era partito.

    3.

    «È considerato uno dei migliori addetti alla sorveglianza audiovisiva, ma comprenderà che non possiamo reintegrarla senza aver valutato la sua salute mentale».

    «Sono qui per questo».

    Lo torchiavano per l’ennesima volta. Il tenente Candida e una psicologa desiderosa di fare bella figura. Sicuri. Spavaldi. Senza rispetto. Ignoravano la sua storia. Chissà che avrebbe detto il grand’uomo, Fabrizio Bazzichi, di quel trattamento. Al terzo giorno di colloqui, test e perizie psichiatriche, Davide era stordito. Si sentiva come un anacoreta che, dopo un lungo ritiro, è costretto ai commerci della carne. Aggiustò gli occhiali, scivolati sulla punta del naso.

    La capitale non gli era mai piaciuta. Era un puro simbolo, il centro espansivo di una civiltà guasta. Gli agrumi che in Versilia si mischiavano a fragole ed erbe aromatiche qui si crogiolavano sotto biossido di azoto. Per fortuna la mattina dopo sarebbe ripartito.

    La psicologa gli chiese di raccontare, con parole sue, in cosa era consistito il suo lavoro a Palermo.

    Davide ricostruì i fatti in modo logico, senza emozioni. La bonifica delle procure. Le intercettazioni sui parenti dei mafiosi. Il passaggio alla sorveglianza di casa Colaianni. L’esplosione di cui era stato testimone. Era come se avesse visto un film dell’orrore e ne raccontasse la trama. La prima regola per sopravvivere: anestesia percettiva. Glielo aveva insegnato il padre: metti uno scudo tra te e il prossimo.

    «Ha notato movimenti sospetti attorno all’abitazione?».

    «No. Ada Colaianni aveva orari regolari. Non vedeva molte persone. E la via dove abitava era abbastanza tranquilla».

    «Ha mai sentito la signora parlare di un diario tenuto dal fratello?».

    «Ricordo con precisione una sua frase: "Alberto ha un’agenda elettronica in

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