Tutti senza nome
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Tutti senza nome - Renzo Cremona
TUTTI SENZA NOME
PROLOGO
quando scrivo ho come l'impressione di stare davanti ad un tavolo operatorio con un bisturi in mano: c'è sempre un attimo di luce prima di addormentarmi. poi comincia il conto alla rovescia.
CRONACHE DAL CENTRO DELLA NOTTE
I
quando si rese conto che erano in troppi dentro di lui e che tante erano le cose che lungo il cammino aveva preso dal mondo, lo spazio già scarseggiava da tempo. le pile di libri accatastati negli angoli della memoria, le scatole sigillate con i ricordi mai scartati, le impronte lasciate libere di percorrere le piastrelle della cucina erano diventate una mappa di strade intasate in cui qualsiasi viaggiatore sarebbe stato di troppo. perché la stanza che lo abitava non soffocasse, decise allora che avrebbe intrattenuto rapporti soltanto con mezze persone alla volta.
e fu questo che fece il giorno in cui conobbe caio: lo creò a sua immagine e somiglianza, ci parlò, ci dormì assieme, ci fece anche qualche escursione, visto che era estate e i boschi offrivano molta ombra, e prese poi di lui quello che gli sembrava andar meglio. una cosa la teneva, l'altra la lasciava, un'altra ancora la spuntava ed altre, infine, le amputò. fu così che ne rimase fuori metà. dopo di che decise di farlo entrare nella propria vita, che era una casa male illuminata con finestre che alla notte guardavano verso l'esterno e porte che sbattevano ad ogni corrente d'aria.
in questo modo passarono per tizio i giorni e le settimane. passarono mentre ascoltava musiche provenire dalle soffitte del suo cervello: mai che arrivassero attutite, sempre troppo vicine, sempre troppo forti, come se avesse delle cuffiette. passarono anche i mesi, senza che tizio si accorgesse che non era caio quello che gli dormiva accanto. non si voltava mai a vedere che quello riposava solo su un fianco, e che il profilo visibile era sempre lo stesso. l'altra metà gliel'aveva fatta lasciare fuori, dove il giardino cominciava a coprirsi lentamente di neve e le impronte si perdevano sempre di più, giorno dopo giorno.
ma ci sono delle notti in cui, nei sogni, tizio è libero di girare per la casa. è allora che sente, passando per il corridoio, che qualcuno bussa alla porta. sa che è l'altra metà che reclama di entrare: per questo da anni ha fatto murare l'ingresso e potete ancora vedere, se ci passate davanti, l'erba crescere a dismisura fino a coprire il nome sul campanello. è lì che in genere suona la sveglia e tizio si alza, coricato sull'unico lato che non gli è di troppo, il lato al quale ha concesso di rimanere con lui, mentre l'altro è da anni sepolto in cantina. anche lì non c'è più molto spazio, del resto, ma non importa: tanto è buio e non si vede niente.
II
è l'ora consueta, quella in cui il perimetro torna a stringersi, ed è tutto pronto. prima di far partire il colpo, però, fa una cosa: punta la sveglia, curioso di vedere come sarà il mondo, domani, quando le lancette varcheranno la soglia del nuovo fuso orario.
III
per anni non ci siamo lasciati scappare un fine settimana: non c'era venerdì che non ci inzuppassimo persino le camicie, non c'era sabato che non rincasassimo navigando dentro le tappezzerie delle nostre stesse macchine dopo essere riusciti a non scivolare nella melma di qualche cesso nel quale ci eravamo incagliati. le domeniche, poi, risorgevamo sopra il nostro sepolcro e scrutavamo le caverne che si erano scavate sotto gli occhi contando le sillabe che ci distanziavano dal nostro mal di testa. ci costringeva a ballare il dio dell'inquietudine, quello delle suole ardenti, e ogni passo ci sembrava un morso di vipera che arrivava diretto da una presa di corrente. come avremmo potuto opporci? così salivamo tutti al monte, quando capitava, o scendevamo tra le dune della spiaggia, e con passi simmetrici ma non ritmici calpestavamo le pile scariche sul nostro cammino, e quando arrivavamo sulla cima oppure in riva al mare, ridevamo tra noi inventando una lingua fatta di baci e saliva che sapeva di scorze di frutta e cortecce. fortunato chi riusciva ad orientarsi in quelle condizioni, perché le nostre mappe erano gli odori e le nostre scarpe la fretta. seguendo gli angoli e le rette della geometria che di volta in volta ci veniva imposta, all'inizio a fatica ma poi con più agilità ci adattavamo alla corrente che soffiava tra una stanza e l'altra del nostro cervello senza dire nulla, senza opporre resistenza, solo bofonchiando di tanto in tanto. e geometrie dure erano, come acuti erano gli spigoli attorno ai quali eravamo obbligati a doppiare i capi della nostra paura: un filo era tenuto all'ingresso della notte, l'altro dicevano che si trovasse più in là, verso l'uscita del corridoio. spesso abbiamo creduto di capire le vere direzioni della nostra vita, non di rado ci è capitato di vedere chiaro nella notte e di avere l'impressione di essere noi a tenere in mano i fili del nostro destino. ecco – dicevamo – non vedete che ne tengo stretto un capo qui, in una mano, e l'altro l'ho legato al calcagno per non perderlo?
. eppure dicevano che ammazzavamo con le auto durante quelle notti, e che ci ammazzavamo, dicevano. dicevano che uscivamo di testa, altroché balli, e che erano sparite persone e la gente aveva paura di entrare inavvertitamente nei boschi o di mettere piede su una statale dopo le quattro del mattino. quanto abbiamo creduto di essere liberi. quanto ci siamo sbagliati. ci sono voluti anni per capirlo, ma alla fine la disintossicazione è venuta, e da pazzi invasati che eravamo siamo ora i lucidi viaggiatori delle nostre stesse strade, quelle che ogni giorno apriamo ed asfaltiamo. riusciamo a calcolare con esattezza le nostre circonferenze e a tenere sotto controllo i diametri delle nostre paure, ma non facciamo mai in modo di poter perdere le distanze tra la nostra superficie e il punto equidistante da qualsiasi altro che la costituisce. qualche volta, il fine settimana, ripuliamo l'A4 che ci sta dentro come una radiografia dell'inconscio o come il filtro per i fritti nella cappa della cucina e cancelliamo con una gomma quello che non è stato scritto in modo morfologicamente e sintatticamente corretto. per far questo qualcuno si procura gli ultimi aggiornamenti delle grammatiche e ce ne legge le regole durante le notti di insonnia o i pomeriggi in cui piove. così il nostro foglio torna pulito e candido come la neve. amiamo questo senso di veglia sulla nostra vita, ci dà sicurezza, ci piace non essere più prede dello stordimento reciproco ed essere liberi di tracciare tutte le rette che vogliamo sul nostro A4.
che cosa ci sia di diverso rispetto alla vita che facevamo prima ve lo spiego subito, se non vi è chiaro: in origine c'era un foglio dentro di noi, e questo foglio lo tormentavamo in continuazione perché i nostri disegni laceravano la carta come le dita di un bambino fanno col pongo. le matite le trovavamo per terra e le punte erano ottuse, i tratti grossi e imprecisi, e le cancellature, poi, non si contavano. ora la gomma l'abbiamo abolita, non ci serve più. abbiamo imparato a congiungere nel modo più breve due punti sul piano senza tentennamento, e con la precisione che si addice ad un goniometro e ad un righello scandiamo i gradi di apertura che abbiamo sul mondo.
solo non capiamo cosa ci facciano attorno a noi tutte quelle righe e quei compassi, ogni mattina, né chi ce li abbia portati mentre dormivamo. e nessuno sa perché dai bordi non si riesca a togliere quella squadratura che da allora campeggia sull'A4. non capiamo perché sia lì, visto che non l'abbiamo disegnata noi, ma ce la portiamo dietro lo stesso. forse è il marchio di fabbrica. forse è un difetto di stampa. voi lo sapete?
IV
vediamo un po': il gas l'ho chiuso, le luci le ho spente, lo stereo – con i temporali non si sa mai – anche quello l'ho staccato. le finestre le ho chiuse prima, le tapparelle sono abbassate e il rubinetto, da quando l'ho imbavagliato, non mormora più. adesso posso uscire.
così prendo la valigia e lo faccio: esco. apro la porta, richiudo la porta, due giri di chiave in senso antiorario. sul pianerottolo, però, mentre sto per imboccare il corridoio cerco di accendere la luce che porta all'ascensore, ma sbaglio interruttore e premo il campanello di casa. questo in basso, questo è quello giusto. ecco fatto: ora vedrò dove metto i piedi. mi volto e me ne vado ancora una volta.
ma dei passi all'interno si muovono sordi e pesanti: vengono ad aprire la porta.
V
ci saranno centri urbani con trentacinque milioni di abitanti tra qualche anno, lo spazio sarà solcato da enormi estensioni verticali che spunteranno dall'asfalto con le nuove primavere e la gente vivrà stipata dai sottoscala alle mansarde e dai marciapiedi fino ai tetti; per nutrire una massa di persone tanto elevata la terra verrà spremuta come le olive sotto il torchio e il ricorso alla sintesi diventerà una necessità e non più una scelta. si calcola che questa città, il luogo dal quale lui sta meditando nell'esatto istante in cui ci arriva il codice morse dei suoi pensieri, nell'anno duemilaventi dopo cristo avrà superato di due volte e mezza l'attuale popolazione, un sindaco sarà forte quanto un presidente e avrà bisogno di sempre maggior potere e infiltrazioni sempre più capillari per controllare le spinte centrifughe. si creeranno così quelli che finiranno per essere chiamati i nuovi feudi e si sfalderanno gli stati tradizionali. come un colabrodo il vecchio e il nuovo continente prenderanno a far acqua da tutte le parti e la barca, lentamente, comincerà ad affondare: la conformazione geopolitica del mondo così come lo conosciamo oggi non sarà che un ricordo, e i confini saranno drasticamente rimodellati per farli aderire ai nuovi corsi della storia. dall'aggregazione si passerà alla disgregazione, dal contenimento alle falle. il medioevo è prossimo.
fuori ha cominciato a piovere, il volume del televisore continua a rimanere basso e lui pensa: dall'aggregazione si passerà alla disgregazione e poi ancora ad un'altra aggregazione; di nuovo lotte per i confini, questo ci aspetta, di nuovo annessioni e conquiste, ancora i barbari che bussano alle porte. dall'aggregazione alla disgregazione, dunque: che sia questa la fine?
comincia adesso a fare effetto la pastiglia sciolta nell'acqua: la vuole normale oppure effervescente, ha chiesto stamattina il farmacista. effervescente, grazie, ha risposto, così la posso guardare mentre sparisce e lascia un alone biancastro sul tavolo attorno al bicchiere. l'orologio segna in questo momento le ore ventitré e cinquantotto e siamo nel mese di ottobre dell'anno duemilaquattro. fa caldo per il periodo, alle nove di sera il termometro ha toccato oggi i venti gradi centigradi. sono le ventitré e cinquantotto, dicevamo, e tutto avviene adesso. e lui, senza rumore e senza pretese, affonda lentamente nel sonno serale, il luogo dal quale sono assenti i contrari ma, per una imperscrutabile e inderogabile legge grammaticale, sempre più numerosi proliferano, indisturbati, i sinonimi.
VI
la casa dorme e ha tutte le finestre aperte. mormora il vento tra le sedie, e le cose vivono. anche senza di noi.
VII
non si sa esattamente quando sia successo. nonostante le ricostruzioni e le ipotesi il momento esatto resta fuori, inafferrabile. stando a quel che si dice, avviene all'incirca verso le quattro del mattino, sull'argine del fiume mentre torna dalla discoteca – ammesso che in discoteca sia stato – quello stesso argine che percorre ogni giorno per tornare dal lavoro quando c'è traffico sulla romea.
la macchina la tirano fuori più di nove ore dopo, quando forse a casa stanno già apparecchiando la tavola e la sua fototessera serve ancora per qualche modulo di iscrizione o una carta d'identità qualsiasi. e non lo troverebbero neppure se non fosse per qualcuno che, passando, nota quelle strane strisce di copertone nere che finiscono là, oltre la strada e giù dall'argine. basta dare un'occhiata nella direzione giusta ed eccola lì galleggiare o mezza affondata, la macchina, dentro l'acqua.
sul cellulare, intanto, sono ore che le chiamate si moltiplicano, ma il prodotto è sempre lo stesso: nessuna risposta. l'utente potrebbe essere momentaneamente non raggiungibile. e non solo di familiari si tratta: questo utente lo sta chiamando anche qualcuno che ha da poco conosciuto in discoteca, ci s'immagina, un qualcuno di cui non sappiamo niente e del quale mai sapremo niente e che immancabilmente dirà ecco, un altro buco nell'acqua, ancora tutto a vuoto, il solito scambio di numeri che lascia tutto come prima. solo noi sappiamo che questa non è che l'altra faccia del codice dell'indifferenza. il numero resterà in rubrica ancora un po' e poi, invariabilmente, verrà cancellato e sostituito da altri.
non si possono sentire quindi né i messaggi né gli squilli nel posto in cui si trova, perché in quel mondo liquido e ovattato che è il fiume a febbraio dove è finito nulla esce in superficie, nulla affiora. solo la corrente lambisce la lamiera dello sportello e ne segue le linee, sempre procedendo verso il mare.
è lecito pensare che quei messaggi siano i familiari a mandarli, come si può pensare anche che qualche nuovo incontro stia dando i primi segni dell'impazienza che lo contraddistingue. analogamente, però, con i dati a nostra disposizione possiamo dedurre anche un'altra cosa non meno plausibile: che sia cioè il mondo di qua che vuole comunicare con l'altra parte della porta e stia in qualche modo tentando di fare una breccia e capire, e codificare. solo che quella di là è una stanza insonorizzata in cui non passa nemmeno la fessura di una sillaba o di un rumore. e in quella stanza, assolutamente isolata da tutto il resto – anche se in che cosa consista questo resto non si sa ancora di preciso – c'è sempre qualcuno che aspetta, ed è lui. aspetta che bussino, questo deve fare. nient'altro. e rimane pazientemente all'ascolto, solo che non sa di non poter sentire nulla.
c'è chi giura di averne sentito i passi, chi invece dice di averlo udito mormorare appena oltre la soglia. ma sono soltanto fantasie, si sa che non trapela nulla dall'altra parte. così rimane tutto il giorno e tutta la notte in attesa sull'altro lato della porta. in attesa che qualcuno bussi.
la sua foto tessera, intanto, è riuscita a farsi strada dalla parte di qua e finisce sui muri della città: annuncia al mondo intero che si trova in quella stanza. e che da lì non uscirà più.
VIII
il giorno in cui perse la memoria capì anche che aveva perduto per sempre la cognizione di come si cambiassero le marce. fu così che la notte gli scese, in folle, a precipizio sugli occhi.
IX
come nella favola della bella addormentata, in cui il castello veniva d'un tratto avvolto da un sonno senza memoria e tutti quanti si addormentavano all'istante circondati da rovi e da spine, così lei, dopo la lezione di fisica di quel lontano mattino di quarta superiore, da ventisette anni esatti se ne sta seduta immobile sulla sedia del soggiorno con lo sguardo fisso rivolto all'interno, attenta ad ogni minimo rumore e vigile a qualsiasi cenno di movimento. alla seconda legge della termodinamica pensa, a quella che afferma che l'universo diventa ogni giorno sempre più disordinato. ma professoressa – aveva obiettato lei – ogni giorno si costruiscono case, si stendono ponti, si asfaltano strade. ogni giorno nascono bambini: com'è possibile che si vada verso il disordine?
se l'ordine aumenta da una parte – aveva ribattuto l'insegnante – questo significa che da qualche altra l'ha vinta il disordine; l'energia si disperde e non è più recuperabile. l'entropia di un sistema isolato, pertanto, non diminuisce mai
.
tornata a casa aveva smesso di colpo, in preda ad una strana inquietudine, di riordinare le proprie cose, e già mangiando la minestra di mezzogiorno aveva indugiato un attimo tenendo il cucchiaio sospeso sul piatto con la mano sinistra. da allora è stato un rallentamento continuo finché, eccola qua, non è diventata quella che vedete: non è morta, non è viva, semplicemente non si muove. anche i suoi pensieri li ha fatti rallentare sempre di più mettendo un divieto di alta velocità sulle autostrade del suo cervello e consigliando a tutti gli autisti della domenica di non uscire neppure di casa. qualsiasi cosa faccia, lo sa bene,