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Religioni e neospiritualità
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Religioni e neospiritualità

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Religioni e neospiritualità è un saggio ampio, ben strutturato, che affronta con tono divulgativo ma rigoroso un tema complesso quale la panoramica delle principali religioni del mondo, con l’obiettivo di chiarire le differenze tra religione e spiritualità e di fornire al lettore uno strumento interpretativo che gli permetta di orientarsi in una materia tanto vasta.
L’argomento ha imposto all’Autrice la scelta di alcuni elementi caratterizzanti sia le singole religioni, sia la visione del mondo occidentale e orientale, indicando tuttavia molti strumenti che il lettore desideroso di approfondimenti potrà utilizzare. Le tematiche importanti sono spesso comuni alla maggior parte delle religioni (la reincarnazione, la preghiera, la carità, il concetto di trinità…), ma sono anche fondamentali degli argomenti che appartengono, oltre che alla sfera religiosa, anche a quella più squisitamente socioantropologica, come la condizione della donna o l’omosessualità.
Nella conclusione, l’Autrice analizza il mutamento del sentimento religioso, l’influenza delle tendenze new age e il rinnovato interesse rivolto alla sfera della spiritualità.
In un momento di esplosione dei fondamentalismi, quasi ancore di salvezza in un mondo globalizzato in cui l’unico punto di riferimento sembra essere la tecnologia, la nuova spiritualità lascia spazio alla speranza, orientandosi verso un umanesimo spirituale che identifica i suoi valori nella crescita personale e nella visione olistica dell’uomo, aprendosi ad un fecondo eclettismo.
LanguageItaliano
Release dateFeb 26, 2014
ISBN9788866901730
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    Religioni e neospiritualità - Leonella Cardarelli

    Leonella Cardarelli

    Religioni e neospiritualità

    EEE-book

    Leonella Cardarelli, Religioni e neospiritualità

    © Leonella Cardarelli

    Prima edizione: Febbraio 2014

    Edizioni Esordienti E-book

    ISBN: 9788866901730

    Copertina: credits to Canstockphoto.com

    La sitografia relativa alle immagini inserite nel testo è in coda alla Bibliografia.

    Introduzione

    Questo libro è un viaggio alla scoperta delle principali religioni nel mondo, delle quali si esaminano aspetti utili per un confronto generale. L’obiettivo finale è quello di rendere manifesto il passaggio e la differenza tra religioni e spiritualità permettendo ai lettori di riuscire non solo a collocare culturalmente ed antropologicamente alcuni elementi oggi entrati nel modo di sentire collettivo ma anche di interpretare il complesso mondo religioso e spirituale nel quale viviamo. Oggi c’è un gran parlare di spiritualità ma quali sono le differenze fondamentali tra religione e spiritualità? E perché sono tanto tornate alla ribalta, anche in Occidente, le religioni orientali? La religione è entrata davvero in crisi o, piuttosto, è cambiato l’approccio verso il sacro?

     Inizialmente cercherò di dare una panoramica chiara dei concetti che sono alla base di ogni religione: mito, rito, rapporto con il sacro e religiosità; si passerà poi ad esaminare la magia e il paganesimo, senza tralasciare lo sciamanesimo, la stregoneria e la caccia alle streghe e accennerò al celebre etnologo napoletano Ernesto de Martino, noto per i suoi studi sulla magia e il tarantismo.

    Mi occuperò della geografia delle religioni, collocando i grandi movimenti religiosi senza trascurare di segnalare le differenze sostanziali tra la visio mundi orientale e la visio mundi occidentale, quindi si tratterà anche lo zoroastrismo e il mazdeismo. Il terzo capitolo si pone come spartiacque, a mo’ di presentazione, introduzione e chiusura tra le prime parti e le successive. Nel terzo capitolo accennerò anche al rastafarianesimo e alla religiosità dei nativi americani, seppur brevemente.

    Devo infatti delineare, per onestà, i limiti di questo testo: le religioni sono un argomento ampio e complesso e non è possibile parlare di tutto; personalmente ho quindi fatto una cernita, scegliendo di ogni fede solo gli elementi utili per un confronto. Per approfondimenti su determinati temi che susciteranno la vostra curiosità si rimanda alla bibliografia o a fonti più approfondite.

    Le religioni esaminate sono, nell’ordine:

    Ebraismo: origini, contesto e alleanza con il popolo di Israele; testi sacri; la concezione della religione presso gli ebrei; le caratteristiche di Dio secondo gli ebrei; feste e ritualità; la Genesi e il dualismo; la questione dell’omosessualità e le correnti di matrice ebraica; la cabala.

    Cristianesimo: ebraismo e cristianesimo; testi sacri e manipolazione delle sacre scritture; Gesù e la sua predicazione; la dottrina cristiana; il peccato; l’istituzione della Chiesa; la differenza tra cristianesimo e cattolicesimo; i concili più importanti; la Riforma protestante; la Chiesa e l’Illuminismo; feste e ritualità; simboli del cristianesimo; la secolarizzazione; le varie correnti del cristianesimo.

    Islam: definizione e diffusione; Maometto e la storia dell’islam; il Corano e le altre fonti islamiche; la moschea; il processo di islamizzazione; cenni di religione islamica (distinzione tra sciiti e sunniti); i cinque pilastri dell’islam; la distinzione tra puro e impuro; la questione del velo e delle donne; i jinn; la medicina tradizionale; le confraternite; il sufismo; il bahaismo.

    Taoismo: lineamenti di storia della Cina; la condizione della donna e la fasciatura dei piedi; lo sviluppo tecnologico in Cina; le ossa oracolari; gli Shang e il mondo degli dei; la scrittura cinese; il confucianesimo, il taoismo; le filosofie cinesi a confronto; il Tao - Te Ching; l’I Ching, i cinque elementi e l’astrologia cinese; medicina tradizionale cinese.

    Induismo: definizione dell’induismo; concetti base; il tempo ciclico; la questione del politeismo induista; testi sacri; correnti religiose, mistiche e filosofiche; i mantra; i guru; le vie di liberazione; storia dell’India e confutazione della teoria di Müller; India e matematica; la società indiana e la visione dell’omosessualità; conversione; sikhismo; ayyavalismo.

    Buddhismo: storia di Buddha; simboli buddhisti; scopo del buddhismo; etica buddhista; le quattro nobili verità; l’ottuplice sentiero; il nirvana; praticare il buddhismo; buddhismo e reincarnazione; le varie correnti buddhiste; testi di riferimento; culto e ritualità; la concezione degli dei e della preghiera; matrimonio, donne ed omosessualità.

    Il libro tibetano dei morti, il Bardo thodol: la paura della morte; la scoperta del Bardo thodol; il bardo e le relative invocazioni.

    Jinismo: storia; dottrina; l’omaggio ai jina; la quintuplice obbedienza e i tre gioielli; la divisione tra i jinisti; testi sacri; jinismo, buddhismo ed induismo; jinisti e vita professionale; Gandhi.

    Shintoismo: origini e storia; definire lo shinto; i simboli; i kami; i templi; ritualità; l’impurità della donna; pratiche, etica, vita dopo la morte; cosmologia; tenrikyo; conversione.

    Il 14° capitolo tratta un tema ormai caro a molti, cioè la reincarnazione e il rapporto tra religioni e credenza nella reincarnazione; il karma e i vari tipi di karma, le anime compagne e gemelle. La reincarnazione è presente in tutte le religioni di origine indiana ed è molto sentita da induisti e buddhisti.

     Tenterò poi un confronto tra le varie religioni: verranno prese in considerazione i fondatori, il digiuno, la storia, le pratiche meditative e la preghiera, la carità, la trinità, il ruolo dei guru, la condizione della donna e degli omosessuali, la vita dopo la morte e alcune date simboliche come il 25 dicembre.

     Per finire cercherò di delineare un quadro storico-antropologico-sociologico di come è mutato il sentimento religioso; partirò dalla secolarizzazione e tratterò la new age e la nuova spiritualità, i limiti della new age, le ragioni per cui è stata criticata ma al tempo stesso cosa ha favorito.

    1) Religione, etimologia, definizione e concetti chiave

    La storia delle religioni. La storia delle religioni è una disciplina che si occupa di individuare somiglianze e differenze tra le varie forme di fede cercando di decifrare il senso profondo dei fenomeni religiosi e il loro sviluppo storico. Le basi di questa materia sono sorte tra il XVII e il XVIII secolo per via dell’accumularsi di conoscenze sui costumi religiosi delle società extraeuropee. L’interesse per le religioni è sempre esistito, già dai tempi di Erodoto (che era un vero e proprio intellettuale, molto interessato agli uomini e alle culture in cui vivevano); a partire dalla fondazione della disciplina antropologica, che nacque nel 1871 con il testo Primitive culture di E.B. Tylor, troviamo tra i pionieri della materia lo stesso Tylor, J.J. Bachofen e R. Smith; poi J. Frazer che diede un notevole contributo a questa disciplina grazie alla sua monumentale opera Il ramo d’oro (dodici volumi, prima edizione 1890). Ciò che accomunava questi studiosi era la ricerca di elementi ricorrenti nei fenomeni religiosi, al fine di scoprire quali erano gli stadi evolutivi (in quel periodo vigeva come corrente l’evoluzionismo) attraverso cui il sentimento religioso si era sviluppato nella storia dell’umanità.

    In epoca più recente uno dei più autorevoli storici delle religioni è stato il rumeno Mircea Eliade, autore del celebre saggio Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi (1974). Secondo Eliade un fenomeno religioso può essere compreso solo se considerato nella propria specificità perché se lo si riconduce ad altro (psiche, politica, società) sfugge il suo carattere peculiare, che è il concetto di sacro.

    La storia delle religioni si caratterizza come uno studio sincronico¹ e comparativo, ad esempio si confrontano i miti, le forme di preghiera, le pratiche religiose ricorrenti, i gesti ecc. per poi arrivare alla comprensione globale del fenomeno che si sta esaminando. Quest’ultimo punto è molto importante: la disciplina integra i risultati di molteplici ambiti (antropologia culturale, storia, psicologia, sociologia) per presentare una veduta d’insieme di un dato fenomeno religioso. La storia delle religioni utilizza il metodo di ricerca storico ma anche archeologico, filologico e antropologico. Il termine storia, che spesso crea legittimi fraintendimenti, non è da intendersi in senso diacronico; si usa questa parola perché ogni religione esiste nella storia, ha un suo senso storico.

    La descrizione e l’interpretazione dei fatti e dei comportamenti relativi alle pratiche religiose costituisce la fenomenologia religiosa che stimola (e richiede) il confronto con l’antropologia culturale. Dal loro canto, gli antropologi sono sempre stati molto attenti alla storia delle religioni (abbiamo spesso antropologi che sono anche storici delle religioni) poiché all’interno di ogni sistema religioso troviamo le chiavi per la comprensione di una data cultura, la spiegazione profonda dell’organizzazione di una società. Per capire pienamente un gruppo sociale non possiamo prescindere dallo studio della sua fede; a sua volta la storia delle religioni non può trascurare lo studio dell’antropologia poiché una struttura religiosa esiste all’interno di una data società. Inoltre dobbiamo tener presente che queste due discipline utilizzano lo stesso metodo, cioè la comparazione di fenomeni culturali diversi. Tuttavia non dobbiamo pensare che il rapporto tra antropologia e storia delle religioni sia stato sempre sereno poiché ci sono sovente problemi di interpretazione e di approccio ai vari fenomeni.

    Al fine di studiare le religioni in modo veramente obiettivo non è necessario aderire ad una fede in particolare (uno storico delle religioni può essere anche ateo) ma è importante, piuttosto, avere un atteggiamento aperto, scevro di pregiudizi e attento al contesto culturale.

    Etimologia e definizione. L’etimologia della parola religione è sempre stata molto dibattuta, non abbiamo un’unica teoria a riguardo e il concetto stesso di religione è complesso; tuttavia sembra che in tutte le lingue europee il sostantivo derivi dal latino religio che a sua volta può derivare da diverse parole (e qui nasce il dibattito).

    Il termine religio designava anticamente lo scrupolo di fronte a un aspetto inquietante o incomprensibile della realtà, presso i romani si indicava con questa parola una serie di precetti e proibizioni, un’osservanza rispettosa, senza però riferimenti a particolari divinità. C’è quindi un sentimento di rispetto verso ciò che non si conosce come se l’ignoto possedesse una potenza misteriosa. Successivamente, con l’avvento del cristianesimo, sorge il concetto di vera religio intesa come tutto il complesso di relazioni che indirizzano l’uomo verso Dio.

    Per quanto riguarda l’etimologia di religio abbiamo due teorie: la prima sostiene che religio derivi da relegere (teoria di Cicerone) che significa ripercorrere (ripercorrere la via degli dei) ma anche avere cura, guardare con scrupolo. Per Cicerone

    religio è tutto ciò che riguarda la cura e la venerazione rivolti ad un essere superiore la cui natura definiamo divina.²

    La definizione di Cicerone si concentra sulla soggettività intesa come stretta osservazione di un obbligo. Notiamo il carattere di separazione tra Dio e l’uomo che deve venerarlo.

    Secondo Lattanzio, invece, religio deriverebbe da religare cioè legare, vincolare: Lattanzio aveva proposto questa etimologia per evidenziare il legame tra l’uomo e la divinità.³ La religione, in fondo, è un vincolo a tutti gli effetti perché se si decide di osservarla limita in parte l’agire umano. La spiegazione di Lattanzio si delinea come un atto di dipendenza dalla divinità, attraverso un insieme di atti (i riti, di cui parleremo più avanti). Questa definizione concerne dunque l’aspetto esteriore, formale, della religione.

    Le due etimologie proposte da Cicerone e Lattanzio presentano la religione come un patto tra Dio e gli uomini, mostrando che c’è un legame ma anche una separazione (almeno a livello concettuale) tra queste due entità. Vedremo che l’esigenza di separare è una caratteristica dell’Occidente e non è un caso che il bisogno di definire la religione sia anch’esso prettamente occidentale perché è da noi che c’è una separazione tra la religione e la vita quotidiana. Per questo motivo dobbiamo precisare sin da subito che il nostro concetto di religione (comprensivo, come abbiamo visto, di un senso di separazione) non si adatta a tutti i contesti culturali: quando ci accingiamo a studiare la fede di un’altra cultura avremo sempre un’idea parziale di essa perché partiamo già con un’idea di fede che è valida solo per noi.

    Prendiamo il caso di una civiltà pervasa in ogni suo aspetto dal carattere religioso. Se ogni dimensione della realtà è intesa come segno o riflesso del potere divino, ne consegue che viene meno l’esigenza di delimitarla. In altri termini, non si avverte il bisogno di avere un termine specifico da applicare all’insieme delle credenze o dei culti perché questi sono diffusi ovunque nelle pieghe della vita sociale. Ne deriva anche che nelle diverse civiltà potremo trovare un termine corrispondente al nostro religione solo dove avviene un processo di distinzione e differenziazione.

    Così, per ovviare agli equivoci derivanti dalla polisemia del termine religione, Mircea Eliade l’ha definita l’esperienza del sacro⁵, esperienza che si canalizza con il rito. Tuttavia, se è possibile studiare e comparare i diversi sistemi religiosi c’è evidentemente qualcosa che li accomuna, cioè vi sono degli elementi chiave che andremo ad esaminare.

    Obiettivo. Lo scopo della religione, di qualsiasi tipo di religione, è sempre quello di dare un senso a questa vita terrena: l’uomo in ogni parte del mondo, da quando esiste sulla terra, ha sempre avuto bisogno di trovare un senso all’esistenza, al di là di ciò che vede.

    Gli esseri umani non riescono ad afferrare la totalità del reale; qualche cosa ci scappa: il senso essenziale dell’esistenza, il perché si vive, la ragione nascosta dietro agli oggetti.

    La religione è quindi una ricerca di Dio da parte dell’uomo, è un modo per (ri)avvicinarsi alla divinità e all’universo⁷: probabilmente l’uomo da qualche parte dentro di sé ha la sensazione di essere parte di un tutto e cerca di ritornarvi attraverso la religione. Ogni fede coinvolge l’uomo nella sua totalità: volontà, atteggiamenti, sensibilità, socialità, infatti troviamo nelle religioni elementi diversi come misticismo e ritualità.

    Concetti chiave. Il fenomeno religioso si basa su immagini collettive condivise, su riti e simboli in cui una determinata civiltà si rispecchia e partecipa; è quindi parte dell’identità di ogni singola cultura. Abbiamo detto che non è possibile dare un’univoca definizione di religione per il fatto che le culture sono diverse le une dalle altre; tuttavia è possibile estrapolare un’essenza comune e degli elementi che ritornano. Il primo elemento è, come giustamente ha osservato Eliade, il rapporto con il sacro.

    Secondo M. Mauss⁸ (esponente dell’antropologia sociale nel periodo tra le due guerre e allievo di E. Durkheim), più che un’essenza chiamata religione, l’antropologo può osservare dei sistemi religiosi che comprendono i seguenti fenomeni:

    1) forme di rappresentazione (mito, credenze);

    2) pratiche (riti, preghiere);

    3) organizzazione (chiesa, setta, società sciamaniche).

    Esaminando tutte queste osservazioni diventa facile notare che ogni religione comprende dei concetti chiave:

    - il rapporto uomo- Dio (cioè uomo-sacro⁹);

    - la volontà, attraverso la religione, di dare un senso alla vita terrena e ultraterrena;

    - il fondamento di ogni sistema religioso è un’esperienza visionaria (che può coincidere con la ierofania) o mistica (quella che A. Maslow, esponente della psicologia transpersonale, chiama esperienza di picco¹⁰) attraverso la quale ogni religione nasce (ad esempio l’apparizione dell’arcangelo Gabriele a Maometto). Per misticismo si intende l’unione con il sacro, o con Dio, che spesso avviene tramite meditazione o contemplazione, in poche parole il misticismo è più che altro un sentimento di fusione totale con la sacralità, che comporta un’emozione forte;

    - questa esperienza visionaria o mistica è, appunto, totalizzante, genera forti sensazioni in chi la sperimenta, perciò quando viene incorporata nella tradizione religiosa viene veicolata attraverso miti, simboli e metafore;

    - di conseguenza ogni religione possiede sempre un mito di origine, cioè una narrazione sacra sull’origine del mondo. In antropologia culturale il mito deve contenere due tratti salienti:

    1) il carattere fondatore, cioè deve raccontare la nascita o la creazione di qualcosa conferendo un senso a ciò che viene a nascere;

    2) il simbolismo, cioè deve contenere degli elementi che è impossibile spiegare a partire da dati empirici.

    I miti compongono la mitologia che appartiene alla tradizione orale di un popolo, la quale viene trasmessa di generazione in generazione; forse è proprio per via dell’oralità che di ogni mito abbiamo spesso diverse versioni. È importante sottolineare questo perché dobbiamo dare dignità a tutti i miti nonostante la storia ci imponga il mito originale. Generalmente i miti di origine sono simili, ad esempio in quasi tutti troviamo il diluvio universale e/o la presenza dei giganti; si distacca dalla mitologia tradizionale la cosmogonia (miti cosmologici) che non spiega la creazione dell’universo ma la sua ordinazione. Il mito, pur narrando un evento passato, continua ad operare nel presente poiché essendo costituito in forma simbolica contiene sempre la potenza dell’esperienza originaria, quindi smuove qualcosa nel nostro inconscio anche se noi non ce ne accorgiamo, infatti mito significa etimologicamente parola efficace.

     Secondo C.G. Jung, padre della psicologia del profondo (psicologia analitica), così come c’è un’anatomia fisica comune a tutti gli uomini, vi è anche una struttura psichica analoga che lui ha chiamato inconscio collettivo, che contiene dei simboli detti archetipi. La presenza universale degli archetipi (anche se questa esistenza non è mai stata dimostrata) spiegherebbe perché in ogni civiltà abbiamo le stesse immagini simboliche e gli stessi elementi mitici.¹¹ Queste identità e corrispondenze sono state ben delineate da Eliade. Poi, a seconda dell’adattamento geografico e sociale, ogni gruppo avrebbe sviluppato una sua cultura peculiare a partire da archetipi uguali.

     Il celebre antropologo francese C. Lévi-Strauss ha effettuato negli anni ’60 uno studio molto importante sui miti, scomponendoli in unità minime e costitutive dette mitemi (in molti miti troviamo ad esempio il sole, quindi il sole è un mitema; oppure troviamo i giganti, che rappresentano un altro mitema); i mitemi sono elementi che presi singolarmente non hanno un significato ma lo acquisiscono entrando in relazione fra di loro e combinandosi in modi sempre nuovi. I mitemi stessi a volte sono costituiti da relazioni e per la precisione Lévi-Strauss li definisce fasci di relazioni, intendendo con tale espressione i gruppi di elementi da considerare globalmente. In ogni racconto, i miti possono essere letti sia diacronicamente che sincronicamente (il mitema è come il fonema in linguistica e l’atomo di parentela in antropologia culturale).

    Lévi-Strauss aveva notato che lo studio sui miti era piuttosto caotico poiché nessuno si era accorto che essi sono formati da elementi in relazione tra di loro, cioè sembrano privi di logica, ma se uno stesso mito lo ritroviamo in varie parti del mondo, e spesso addirittura con i medesimi particolari, vuol dire che ci sono degli elementi in comune. Per Lévi-Strauss il mito, quindi, non è affatto un racconto fantastico o irrazionale ma è un modo di conoscere e interpretare la realtà e i modelli comportamentali. Il mito esprime verità simboliche, culturali o universali.

    Riconosciamo piuttosto che lo studio dei miti ci porta a constatazioni contraddittorie. Tutto può succedere in un mito; sembra che in essi la successione degli avvenimenti non sia subordinata a nessuna regola di logica o di continuità. Ogni soggetto può avere qualsiasi predicato; ogni relazione concepibile è possibile. Eppure questi miti, in apparenza arbitrari, si riproducono con gli stessi caratteri, e spesso gli stessi particolari, nelle diverse regioni del mondo. Da qui il problema: se il contenuto del mito è del tutto contingente, come si spiega che, da un capo all’altro della terra, i miti si assomiglino così tanto?¹²

    Per Lévi-Strauss la sostanza del mito sta nella storia che vi è contenuta e la presenza di elementi in comune ha dato spunto all’antropologo per l’elaborazione della nozione di inconscio strutturale, cioè di un inconscio che funziona per tutti allo stesso modo, in maniera binaria: ho il concetto di alto perché ho il concetto di basso; ho il concetto di crudo perché ho il concetto di cotto; ho il concetto di natura perché ho quello di cultura, anche se poi non esiste mai una distinzione netta tra questi due concetti (lui insisteva molto sulla dicotomia natura e cultura: quando finisce la natura e quando inizia la cultura?).

    L’analogia delle strutture mitiche fa supporre che anche tali racconti, come le parentele e come i linguaggi, devono essere l’opera di un automatismo che li costituisce secondo un inconscio e uniforme ordine architettonico. Il concetto di inconscio formulato dallo strutturalismo e in particolare da Lévi Strauss si differenzia dall’ipotesi di Carl G. Jung sull’inconscio collettivo che conterrebbe gli archetipi o le immagini primigenie da cui scaturirebbero le storie mitiche. Ciò che si presuppone come inconscio è la funzione di simboleggiare secondo connessioni sempre individualizzabili. La dimensione inconscia non è tanto un contenuto quanto un contenente, è un processo più che un dato e costituisce appunto lo specifico umano.¹³"

    Quindi sia per Lévi-Strauss che per Jung la similarità dei miti si spiega presupponendo l’esistenza di un inconscio simile ma i due studiosi avevano idee differenti:

    per Lévi-Strauss, antropologo strutturalista, l’inconscio di ognuno di noi, indipendentemente dalla zona geografica in cui vive, è simile nel senso che funziona allo stesso modo (cioè in maniera binaria);

    per Jung, psicanalista, è simile perché contiene gli stessi elementi, ovvero gli archetipi.

    Secondo l’antropologa M. Zucca, che dà ai miti una interpretazione molto junghiana, il mito è un viaggio verso la conoscenza, cioè un modo per riappropriarci, attraverso il linguaggio figurato, di una consapevolezza che abbiamo perduto. Per lei i miti in realtà più che spiegare un mistero lo rendono ancora più impenetrabile. ¹⁴

    È per questo che i miti non potranno mai essere sostituiti dalle scoperte della scienza che spiegano il mondo esteriore, ma non quello profondo, interiore, in cui si penetra nel sogno, nella trance, nell’allucinazione, nella creazione poetica ed artistica, nella follia. La società che sarà in grado di curare e mantenere vivi i propri miti potrà alimentarsi degli strati più solidi, vivi e ricchi dello spirito. […]. Quando le forme simboliche nelle quali le diverse culture popolari sono personificate, vengono interpretate non come riferimenti a qualche personaggio o evento presunto o reale ma sono lette in senso psicologico, spirituale, come riferimenti ai saperi e alle potenzialità interiori del genere umano, allora in tutte appare qualcosa che può essere definito come il progetto antropologico originario: ritrovare lo spirito comune fra i vari popoli che abitano sulla terra. Costruito sugli archetipi, attraverso il mito, la poesia, la religione, il rito.¹⁵

    - riti. Il mito rivela i modelli delle attività umane significative (si esegue una certa pratica in un certo modo perché così facevano i nostri progenitori) perciò dopo il mito c’è necessariamente il rito. Il rito è un atto codificato che viene celebrato all’interno di un cerimoniale, di una festa o di un culto di cui generalmente il rituale rappresenta il momento culminante; ha uno scopo preciso e simbolico, connesso con la sfera del sacro; nel rituale convergono oggetti o frasi antiche, anch’essi investiti di forte carica simbolica: ad esempio consumare l’ostia perché è il corpo di Cristo o effettuare un rito magico per scongiurare una disgrazia, pregare ecc. Il rito ha quindi una convenzionalità, nel senso che segue un ordine preciso di gesti e parole, possiamo dire che è un insieme di regole che prescrive il modo in cui l’uomo deve comportarsi con il sacro e le forme in cui può verificarsi un rapporto tra sacro e profano. Secondo il sociologo E. Durkheim, esponente dell’antropologia sociale, il rito ha anche lo scopo di consolidare i legami sociali: la religione è un fatto sociale, come un qualcosa che esiste all’infuori di noi, a prescindere da noi, e a cui noi poi ci adattiamo. Per Durkheim la religione è necessaria alla società perché risponde a bisogni reali e legittimi. Per E. de Martino, invece, il rito magico serve a superare la crisi della presenza.¹⁶

    Un’altra caratteristica del rito è la sua ripetizione, che fu notata già da Durkheim e dai suoi colleghi funzionalisti¹⁷ ma non solo, anche Freud ne fu affascinato, trovandoci un nesso con gli atteggiamenti ossessivi compulsivi.¹⁸ Per Mircea Eliade invece la ripetizione del rito è un modo per riconnettersi al tempo mitico delle origini, è quindi una ripresentazione dell’antica cosmogonia (ovviamente il concetto di ripetizione del rito non può essere disgiunto dal modo in cui ogni cultura calcola e intende il tempo).

     La pratica rituale che a noi è più familiare è la preghiera. Esistono due tipi di preghiera: quella liturgica, che si basa su parole predefinite e riconosciute dalla collettività (ad esempio il Padre nostro) e quella personale, privata. Ci sono tanti modi per pregare, a seconda della società e della concezione religiosa personale: si può pregare in ginocchio, con le mani alzate, attraverso inni, canti, danze, laudi, mediante l’uso di amuleti, talismani, con pezzi di stoffa appesi a un albero, con bastoncini (come i pueblo), con i rotoli usati dai buddhisti e in tanti altri modi. La parola preghiera significa etimologicamente interrogare, domandare, quindi c’è una richiesta effettuata dall’uomo a Dio. In quanto discorso o formula rivolta a una divinità, la preghiera conferisce una sacralità alla parola e quindi può essere considerata una forma di incantesimo, di magia.

    Nonostante il termine preghiera tragga origine dalla forma di culto cristiana, il fenomeno deve essere visto in una prospettiva più ampia, cioè deve essere concepito come una categoria di valore interculturale. Ogni religione comprende delle preghiere e analizzandole possiamo farci un’idea del modo di vedere il mondo all’interno di una data società e possiamo renderci conto della comunanza di sentimenti di fronte a Dio o alla divinità in generale.

    Ed è altrettanto sorprendente osservare come, dietro il velo delle parole e dei simboli, si celi un mistero che da sempre attira la psiche umana, come un polo magnetico nascosto tra le pieghe di quel luogo che si usa definire impropriamente il Cielo e che a tutti gli effetti è una dimensione della psiche, un centro spirituale interiore accessibile in primo luogo per mezzo della preghiera, qualora non si verifichino chiamate straordinarie.¹⁹

    - Un’altra caratteristica del rito è che esso introduce una dimensione diversa nella vita quotidiana. Nel famoso libro Il piccolo principe (1943) di A. Saint Exupéry, alla domanda cos’è il rito?, la volpe, pur non essendo antropologa, risponde in modo molto semplice e chiaro:

    È quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un'ora dalle altre ore. C'è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza.²⁰

    A. Van Gennepp, antropologo sociale e funzionalista francese, nel suo libro I riti di passaggio (1909) si concentra su quei riti che segnano il passaggio da uno stadio socioculturale all’altro della vita (ad esempio il matrimonio, la menopausa, il menarca, ma anche l’adolescenza e i riti di iniziazione in molte culture, come quelli per diventare sciamano) e li divide in tre fasi:

    separazione (distacco da una certa posizione, fase preliminare), ad esempio l’individuo viene portato in una foresta;

    margine (non sei né nella prima posizione né nella seconda, fase liminare), in questa fase avviene la trasformazione vera e propria, ad esempio una volta portato nella foresta l’individuo affronta una prova;

    aggregazione (nuova condizione sociale, fase postliminare): il soggetto torna nella sua comunità e, avendo affrontato la prova, viene reintrodotto con uno status sociale superiore.

    I riti di passaggio si legano alla vita individuale di ognuno di noi, al nostro processo di formazione, segnano ogni nostro cambiamento. Sono particolare oggetto di studio per l’antropologia del corpo poiché sono caratterizzati da una forte fisicità, ovvero i cambiamenti oltre ad essere interiori sono anche, e soprattutto, fisici, evidenti, corporali.

    - dicotomia sacro/profano. Si tratta di una dicotomia fortemente privilegiata da Durkheim e dai suoi allievi della scuola sociologica francese. Secondo Durkheim ogni religione comprende una divisione in due sfere: sacro e profano, che si escludono reciprocamente ma che in particolari circostanze possono comunicare l’uno con l’altro.²¹ Per il sociologo francese la religione è un sistema di credenze e pratiche (relative a cose sacre, cioè separate e interdette) che uniscono la comunità che vi aderisce. Sacro significa separato, protetto; in origine indicava anche ciò che è tremendo, orrendo, affascinante, spaventoso ed era un ambito, quello del sacro, che rendeva lecito anche l’illecito (ad esempio permettendo i sacrifici umani). Dalla dicotomia sacro/profano deriva la dicotomia puro/impuro, messa bene in evidenza dall’antropologa inglese M. Douglas, da cui nasce il nostro senso della vergogna.

    - il sacrificio. Il sacrificio (parola che significa rendere sacro) è un rito e costituisce una pratica atta a mediare con Dio attraverso un dono (offerta): l’oggetto offerto funge da mediatore con la sfera del sacro. In genere il sacrificio ha la funzione di raccogliere le colpe collettive ed espiarle, oppure è un omaggio dato alla divinità per chiedere qualcosa in cambio (qui rientrano, ad esempio, le libagioni, ovvero il versare gocce di vino in onore del dio, oppure offrire le primizie del raccolto).

    Uno dei primi studiosi ad occuparsi del sacrificio fu R. Smith che nel 1889 studiò tale pratica nell’ambito della società semitica attraverso degli studi sull’Antico Testamento. Per Smith il sacrificio era una cerimonia pubblica di un clan o di un villaggio in cui la folla si radunava attorno al santuario (o tempio) per dare un’offerta alla divinità. Nel caso dell’uccisione di un animale, la vittima sacrificale - una volta entrata nel recinto - diventava sacra (trasformazione simbolica della vittima) e dopo l’uccisione veniva consumata dalla comunità in festa all’interno dello spazio consacrato.

    Troviamo nel sacrificio due elementi importanti: l’offerta alla divinità (mediazione) e la condivisione di gesti e di significati da parte di una comunità (concetto evidenziato dalla scuola sociologica francese). Le carni venivano poi spartite all’interno della comunità; in alcune popolazioni come quella greca la spartizione delle carni rifletteva l’organizzazione sociale, ad esempio chi praticava forme religiose atipiche veniva escluso dalla spartizione.

    La natura dell’offerta, il significato, le modalità e lo scopo del sacrificio variano da cultura a cultura. Anche una preghiera, un ringraziamento o un incenso costituiscono una sorta di sacrificio, tuttavia è opinione comune che gli spiriti desiderino sangue, ecco perché per molti secoli non sono mai tramontati i sacrifici cruenti, di animali o di uomini (come nel caso degli aztechi), uccisi appositamente per gli dei.²² In alcune società anche la vittima umana immolata veniva consumata (cannibalismo), spesso anche per incorporare i suoi poteri (trasmissione di virtù magiche e divine). Il cannibalismo è in parte ancora praticato, per motivi rituali e/o curativi, in alcuni gruppi sociali della Melanesia, Polinesia, Papua Nuova Guinea, Asia, America meridionale e Africa nera; un testo interessante in cui si parla di alcune società cannibali è Nei mari del sud, testimonianza diretta di R.L. Stevenson (1896). Se ci riflettiamo, anche la nostra eucarestia è una sorta di cannibalismo metaforico: noi mangiamo, nel senso proprio fisico della parola, il corpo e il sangue di Cristo, seppur sotto forma di ostia e vino.

    Per quanto riguarda i sacrifici di animali, la scelta dell’animale non è mai stata casuale: si sceglievano vittime che avevano una particolare simbologia o che avevano caratteristiche ritenute favorevoli al gusto degli dei da invocare, ad esempio nel mitraismo si immolava un toro in riferimento alla costellazione del toro. Ancora oggi all’interno delle religioni occidentali si praticano in modo più o meno diretto sacrifici di animali: ad esempio i cristiani mangiano l’agnello a Pasqua; nella religione islamica c’è la festa del montone, dopo il periodo del ramadan, in cui si immola un montone in onore di Abramo. Nell’islam gli animali devono essere uccisi mediante sgozzamento, con la recisione della giugulare che permetta al sangue di defluire, poiché il sangue è ritenuto impuro.

    I sacrifici cruenti sono stati condannati da orfismo e pitagorismo, due correnti esoteriche che tra l’altro criticavano il consumo di carne legato a questo tipo di sacrifici (proponendo quindi una dieta vegetariana).

    - Abbiamo poi il concetto di religiosità che sta ad indicare la forma del vissuto religioso. Tanto per intenderci, con questo termine si intende l’attitudine, la predisposizione a cercare nei fenomeni che viviamo un senso, un significato più profondo.

     La religione implica l’adesione a un sistema di convenzioni specifico, cioè a una dottrina. Aderendo ad una religione se ne seguono (o se ne dovrebbero seguire, per coerenza) i confini concettuali, quindi c’è un discorso di esclusione: se io sono cristiana escludo dal mio sistema

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