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La Strada
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La Strada

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About this ebook

Un giovane ragazzo compie 18 anni in una normale e felice famiglia che vive a Montagna Uno. Come regalo di compleanno decide di concedersi la scoperta del mondo. Incontrerà persone che diventano personaggi simbolici, ognuno portatore di paradossi e di contraddizioni, di desideri e frustrazioni. Il protagonista attraverso di loro inizierà a scoprire luoghi di se stesso fino al punto in cui, raggiunto l'apice, scoprirà un modo del tutto nuovo di guardare il mondo.

Il viaggio si concluderà in modo misterioso, lasciando nelle mani del protagonista un diario scritto ai confini della realtà.
LanguageItaliano
Release dateJan 18, 2013
ISBN9788867555437
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    La Strada - Marco Cassiano

    trama.

    Prologo.

    Era un pomeriggio piovoso d'Inverno, mia moglie non era in casa, una di quelle riunioni commerciali; io ero in malattia per quel maledetto dolore alla schiena ed avevo un po' di tempo per frugare in soffitta. Dalla finestrella del solaio entrava ad un tempo la luce rossa del sole al tramonto ed il ticchettio continuo e prolisso della pioggia. Davanti a me avevo il baule dei vecchi ricordi aperto ed invitante.

    Fu lì che trovai il vecchio diario di viaggio da cui trassi lo spunto per scrivere questo romanzo. Mi misi a sfogliare le pagine umide cercando di riportare alla mente le emozioni e gli episodi vissuti in quel tempo, quando ero ancora un ragazzo e cercavo la mia Strada.

    La fuga. L'inizio del viaggio.

    Quella mattina mia madre mi aveva preparato i biscotti con la marmellata. Era una splendida giornata ed il babbo s'era svegliato di ottimo umore. La primavera stava arrivando ed era il gran cinguettare per il bosco a ricordarcelo.

    Mi sembrava un buon giorno per partire.

    Tutto era pronto nel mio zainetto: sacco a pelo, vestiti di ricambio, pentolame, utensili ed attrezzi d'ogni genere.

    L'esperienza del campeggio con gli amici del Villaggio mi era servita moltissimo, ora conoscevo quei piccoli trucchi che in qualche occasione possono anche salvarti la vita.

    La mamma aveva già sparecchiato la colazione del babbo che era uscito a raccogliere qualche tronco e degli arbusti per il fuoco: la sera faceva ancora fresco ed il caminetto era un piacevole ritrovo.

    Ho sempre voluto bene ai miei genitori. Con le loro premure e la giusta dose di severità hanno fatto di me una persona deliziosa ed equilibrata, forse però un tantino immodesta.

    In realtà la colpa non era loro; vivendo in un piccolo villaggio come il nostro un ragazzo di buona famiglia spicca subito tra i suoi coetanei portandosi dietro il disprezzo dei compagni di scuola e le care parole di tutte le mamme benevolmente gelose della grazia di un figlio non loro.

    La mia decisione di partire era ignota a tutti. Nemmeno Kelemata, la mia più cara compagna di giochi lo sapeva, era un po' il mio segreto col mondo: una partenza improvvisa ed inspiegabile.

    Mi angosciava invece il dolore che avrei procurato alla mia famiglia.

    Non volli pensarci troppo, e decisi di partire senza lasciare tracce né bigliettini o messaggi su cui certo tutti si sarebbero arrovellati per capire di più e diversamente da quello che vi avrebbero effettivamente letto.

    Portai con me soltanto un piccolo diario ed una penna, niente libri.

    Decisi così perché il mio era un viaggio esplorativo, il viaggio della maggiore età.

    Mi ricordai più tardi il perché dei biscotti: quel giorno era il mio diciottesimo compleanno.

    L'austerità familiare non mi aveva educato al piacere ed alla sfrenatezza, ed il compleanno per me non giungeva mai accompagnato da feste e da doni: solo i biscotti alla mattina ed un pranzo più ricco.

    A noi ragazzi viene sempre prima o poi la voglia di fuggire di casa, di abbandonare parenti e amici per scoprire la vita da soli, senza l'intervento educativo delle istituzioni, sia familiari che scolastiche. Oppure siamo costretti a fuggire perché in disaccordo con i nostri genitori.

    Per me non era nulla di tutto questo: il mio era un viaggio, non una fuga né la ricerca di avventura; solo un viaggio per conoscere e diventare finalmente maturo, non solo per la legge.

    Mi fu facile inventare una scusa per uscire di casa con lo zaino in spalla, era mia abitudine infatti portare a certi amici gli attrezzi da campeggio quando, per un motivo o per un altro, ne avevano bisogno. Mia madre mi ha sempre apprezzato per questa generosità e per la volontà di dividere con gli altri la mia ricchezza. Dice che è un importante principio cattolico, cose di religione credo.

    Mi è dispiaciuto doverli ingannare, ma non avevo scelta: non mi avrebbero mai lasciato partire se avessi spiegato loro i miei motivi. La mia era una follia, ma l'ho sempre saputo: molto spesso, ciò che al buon senso appare follia in effetti è solo la realtà.

    La Strada che ho percorso è quella del Nord. Ho scelto quella direzione per una istintiva attrazione verso le scelte estreme, esse hanno il fascino dell'imprevedibile, racchiudono in sé l'emozione forte che deriva dalla decisione violenta e nichilista. Negare tutto e poi sceglierlo, affrontare per distruggere, conoscere decidere uccidersi. Eppure, in tutto questo quadro così apparentemente violento e drammatico della mia adolescenza, scopro solo ora di aver sempre amato la mediazione, la scelta saggia: il distacco dalle cose. Una sorta di dimensione separata in cui tutto mi toccava senza contagiarmi, dove tutto mi riguardava senza interessarmi. Una dimensione totalizzante, estrema come si è estremi da ragazzi.

    Il Nord rappresentava per me il futuro, il dopo, l'avanti: il senso della vita, insomma. Ciò verso cui è giusto andare, insindacabilmente. Perché, anche questo l'ho scoperto dopo, avevo un terribile bisogno di scelte sicure, capaci di darmi la forza di reagire anche di fronte alle situazioni più difficili. Credo dopotutto di essere stato un ragazzo normalissimo; i miei genitori desideravano che fossi il migliore, non so bene in che cosa poi.

    Ma ora vi racconterò cosa mi è accaduto durante il viaggio.

    Imboccata la Strada del Nord mi fermai ad osservare il panorama.

    Il sole era già caldo all'orizzonte, ancora coperto dalle vette più alte che lentamente perdevano il colorito azzurro del primo mattino fino ad assumere il nero opaco del controluce.

    Non mi piaceva che il sole nascondesse le montagne, ma proseguii tranquillo, sapendo che presto tutto sarebbe finito ed il sole avrebbe raggiunto il culmine del cielo nascondendo in ogni cosa la propria ombra.

    Il fondo stradale era sassoso e lo sarebbe rimasto fino a Valle dove si trovava Città Uno, la prima tappa del mio viaggio. Da lì poi sarebbe cominciato l'asfalto e, con esso, la civiltà.

    Mi piaceva ogni tanto fantasticare sulle simbologie tipiche: asfalto-civiltà, automobili-progresso, semafori-sovrappopolazione, grattacieli-solitudine ed infine denaro-felicità.

    Mia madre mi parlava spesso di queste cose, altre notizie poi le traevo dai romanzi della città, dai libri di scuola, dai racconti dei viandanti che, ogni stagione, valicavano il Passo fermandosi in qualche taverna del nostro modesto villaggio.

    Gli scarponcini si aggrappavano al pietrisco che franava a valle, le mani trattenevano le bretelle dello zaino in modo da ridurne le oscillazioni dovute al movimento del corpo. Gli occhiali scuri nascondevano il mio volto alla vegetazione che scorreva alla mia destra lentamente diradandosi ed impoverendosi. Mi angosciava vedere come la foresta morisse nella terra. Su da noi non accadeva così: era la roccia che si vedeva rubato il territorio dalla vegetazione; qui pareva il contrario, come se l'aridità dell'uomo fertilizzasse il terreno, rendendolo invivibile alla flora ancora selvaggia.

    Con buone gambe percorsi gran parte della strada senza avvertire la fatica. Ben presto però fu lo stomaco a farsi sentire: decisi di fare una pausa per il pasto. Ero riuscito a rubare un panino dalla cucina, lo tagliai a metà e vi misi una tavoletta di cioccolata che conservavo da tempo per questa occasione.

    Mentre mangiavo, seduto su di una pietra levigata, vicino al margine della strada, vidi un uomo salire dalla Valle.

    La Coscienza

    1.1. - Il montanaro solitario.

    Quando mi fu più vicino potei osservarlo meglio: era un montanaro (a giudicare dallo zaino e dall'abbigliamento) certamente molto allenato perché saliva ad un passo lungo e costante, tipico di chi conosce la montagna e i suoi ritmi.

    Indossava una camicia di panno grezzo grigio antracite, un paio di calzoni alla zuava, scarponi leggeri, calzerotti di lana ed aveva un fazzoletto rosso che gli circondava la testa per assorbire il sudore della fronte. Nel complesso lo trovai ben vestito: avevo sempre avuto una certa attrazione per quel tipo di abbigliamento, lo trovavo comodo per le passeggiate e pratico per le arrampicate. Nel viso gli si leggeva evidente la fatica, anche se mi parve di scorgervi qualcos'altro. Quando mi passò accanto lo guardai con ammirazione: chissà da quale rifugio proveniva e verso quali vette stava andando.

    - Ragazzo - disse voltandosi subito dopo avermi superato - non avresti qualcosa da mangiare anche per me?

    Lo guardai stupito e un po' deluso, me lo ero immaginato molto più orgoglioso ed eroico, mai avrei sospettato che potesse provare la fame. La cosa mi imbarazzò molto in quanto non avevo cibo a sufficienza nemmeno per me, e dividerlo sarebbe stato molto doloroso.

    - Certo signore, - gli risposi porgendogli il mio panino - posso chiedervi dove andate?

    Il montanaro afferrò il panino con avidità e lo addentò con violenza, in pochi istanti lo mangiò tutto.

    Mi dava sui nervi vedere un montanaro così distinto abbassarsi a livelli così infimi: dopotutto esiste anche una dignità, e la fame non è motivo sufficiente per venirvi meno. Tra l'altro adesso ero praticamente digiuno e non avrei resistito fino a Valle in quelle condizioni.

    - Scusami ragazzo - riprese a parlare - se ho divorato il tuo panino, ho capito che avevi solo quello, ma non avercela con me per questo. Ho molta strada da fare e non ho denaro, probabilmente il gelo della notte mi avrebbe stroncato prima di raggiungere il rifugio di Monte Alto. Capisco che la cosa non ti riguarda, ma credo di sapere come ricompensarti.

    - E come ? - gli chiesi con grande curiosità.

    - Ti darò un buon consiglio che ti servirà di sicuro quando sarai a Valle.

    Strano, un attimo prima lo disprezzavo per avermi deluso, adesso lo odiavo per la sua presunzione. Ma chi si credeva di essere: il solito adulto operoso incaricato di dar buoni consigli? Non sapevo che farmene delle sue prediche, comunque l'ascoltai.

    - Quando la sete di successo porterà un uomo a venire a patti con la propria coscienza, allora quell'uomo sarà il mio amico: digli che hai incontrato il Montanaro Solitario, lui ti darà qualcosa.

    Proprio non riuscivo a capire cosa volesse dire, ciò nonostante non chiesi spiegazioni e, quando riprese il cammino, lo salutai debolmente.

    Avevo fatto la prima esperienza del mio viaggio. Era stato uno strano incontro e qualcosa mi diceva che sarebbe stato il primo di una lunga serie, tutti ugualmente misteriosi e affascinanti, anche se non del tutto positivi.

    Decisi così di prolungare la pausa e di prendere qualche appunto sul mio diario.

    Quando ripresi il viaggio lo stomaco taceva, ma ero certo che non sarebbe stato zitto a lungo; non aveva importanza, avrei trovato qualcosa da mangiare.

    Mentre camminavo vidi un leprotto rifugiarsi tra la vegetazione ormai scarsa. Mi accadde qualcosa di strano, dovetti inseguirlo.

    L'animale era assai più agile, ma io molto più furbo, i nascondigli erano pochi e la lotta sembrava ad armi pari.

    Dapprima tentò di arrampicarsi su di un cucuzzolo, poi, accortosi che scivolava all'indietro, cominciò a sgattaiolare tra gli arbusti. La piccola radura in cui ci trovavamo non gli permetteva però di fuggire lontano ed era costretto a passare di albero in albero rischiando sempre di finire nelle mie mani che, come la rete di un pescatore, gli apparivano davanti improvvisamente, lasciandolo stupito e terrorizzato. Io correvo avanti e indietro davanti alla macchia in cui s'era nascosto, cercando di stringerlo in una morsa naturale da cui non potesse uscire. D'improvviso, vistosi spacciato, spiccò un balzo fuori dai cespugli tentando la sortita. Questo gli fu fatale: le mie mani lo catturarono senza dargli nemmeno la possibilità di divincolarsi.

    Era un piccolo leprotto bianco, morbido come il cotone prima della filatura. Non capivo perché lo avevo preso, non certo per fargli del male, né per mangiarlo; forse solo per poterlo guardare. Ed infatti fu ciò che feci per tutto il tempo che lo tenni tra le mani.

    Gli animali avevano sempre destato in me attrazione e repulsione a un tempo. Ero attratto dalla sensazione che in loro vivessero molte risposte agli interrogativi dell'uomo, mi affascinava la complessità dei loro organismi, l'intrigo dei comportamenti e il calore della loro compagnia. Eppure, in un quadro così roseo, troppo spesso sentivo verso di loro (ed in particolare verso quelli più domestici) un disprezzo apparentemente ingiustificabile: mi disgustava il loro odore; il vederli fare le cose simili alle nostre, ma in modo così selvaggio; mi infastidiva la totale stupidità e l'incapacità con cui si rapportavano a noi; ma, più di tutto io credo, non volevo pensare di potermi affezionare ad un organismo che sarebbe certamente morto, provocando in me solo angosce e preoccupazioni.

    Rifiutavo il condizionamento che mi sarebbe derivato dall'affetto per qualcosa non strettamente indispensabile alla mia crescita umana e culturale. Fu per questo che lasciai andare il tenero coniglietto bianco che ansava tra le mie mani, impaurito.

    Tornato sulla strada ripresi il cammino verso Valle. Avevo perso tempo e avrei dovuto correre per rispettare la tabella di marcia che mi ero imposto.

    1.2. - Il coniglietto bianco.

    I sassi ripresero a sgretolarsi sotto le suole degli scarponcini, questa volta con più fragore perché il mio passo era molto svelto e ad ogni pietra trasferivo l'ansia di arrivare a Città Uno prima di notte.

    Dopo circa quaranta minuti di discesa mi fermai un attimo a riprendere fiato, voltandomi a guardare indietro: mi accorsi che a pochi passi da me era seduto un coniglietto bianco.

    Istintivamente pensai ad una coincidenza, poi mi parve di riconoscere il quell'animale il mio coniglio, o almeno quello che avevo catturato poco prima.

    - Che fai tu qui? - gli chiesi sorridendo.

    - Voglio venire con te. - mi rispose.

    Sinceramente scrivere questa cosa mi imbarazza non poco, non vorrei che qualcuno mi credesse pazzo; tuttavia quell'animale mi rispose davvero, e non si trattò di allucinazioni.

    - E perché? - chiesi facendo finta che fosse del tutto normale parlare con un coniglio.

    - Perché voglio accompagnarti nel tuo viaggio: io sarò sempre con te, sarò la tua coscienza ed il tuo consigliere.

    Incredibile, uno sconosciuto mi fermava per strada spacciandosi per la mia coscienza e volendomi accompagnare, senza rendersi conto di essere un coniglio, neanche grande: un coniglietto.

    - E va bene - risposi - se ti fa piacere, ma ad una sola condizione.

    - Quale?

    - Che non parlerai o farai cose strane in presenza di estranei.

    Era pazzesco, stavo dettando le condizioni ad un animale.

    - Va bene accetto! - mi rispose con grande soddisfazione.

    Avevo trovato un compagno di viaggio, chissà se mi sarebbe andato bene. Ho una mia teoria a riguardo, credo infatti che solo in un viaggio si possano conoscere veramente le persone (non so nulla circa i conigli). Durante un viaggio infatti si fanno nuove esperienze, si entra in contatto con gente e mondi diversi dal nostro, si devono dividere le gioie e le restrizioni, bisogna rinunciare e sacrificarsi per l'altra persona, bisogna scegliere insieme, agire insieme, mangiare dormire: vivere insomma in contatto più stretto ed in situazioni del tutto nuove. Solo in questo caso quindi si può stabilire se due persone vanno d'accordo e si rispettano.

    Mi veniva da chiedermi se si può rispettare ed essere rispettati da un coniglio.

    Un po' perché il viaggio era appena iniziato, un po' perché ero ancora sconvolto, un po' perché non avevo ancora preso confidenza: non parlai affatto con Coniglio (lo chiamai così per comodità), limitandomi ad accertare se mi seguisse sempre.

    Fu con molta sorpresa che mi accorsi di aver trovato un compagno rispettoso del silenzio altrui e di buone gambe. Per adesso mi bastava.

    La strada era ormai quasi orizzontale, la vegetazione era scomparsa del tutto e gli edifici di Città Uno cominciavano a spuntare all'orizzonte dove adesso il sole stava tramontando. Le cime delle montagne erano ancora innevate ed il pulviscolo dell'aria, colpito dai raggi obliqui del sole, si infervorava di rosso depositandosi sulla neve ormai vicina a trasformarsi in gelidi ruscelli senza sale.

    Coniglio era sempre con me anzi, forse per timore della notte che si avvicinava, mi si era affiancato molto, tanto che più di una volta ho avuto paura di calpestarlo.

    Città Uno era ormai giunta e con essa era andato via il sole.

    Le case della periferia erano tutte uguali: un tetto, una finestra grande tutta la facciata, un portoncino a due ante ed un giardinetto. Semplici ma irrimediabilmente uguali. Ognuno aveva tentato di personalizzare la propria casa con le piante, gli attrezzi da giardino, verniciando con colori strani e guarnendo con lampade d'ogni forma e dimensione.

    La strada adesso era asfaltata: la civiltà era giunta e con essa sarebbero cominciati i problemi. Problemi per mangiare, per dormire, per trovare ospitalità, per fare amicizia, per conoscere senza rischiare. Ma, dopotutto, questo viaggio era stato concepito per questo, ed affrontare la civiltà sarebbe stata la mia strada.

    Primario obiettivo adesso era trovare una locanda dove passare la notte, per pagarla poi avrei prestato qualche servizio.

    - Ehi! - mi disse Coniglio balzandomi sulla spalla - lì c'è una piccola locanda, forse può andar bene per noi.

    Io lo guardai con aria di rimprovero, ma dopotutto mi aveva aiutato e passai sopra al fatto di non aver rispettato le procedure che gli avevo posto come condizione all'inizio del viaggio in comune.

    Era una locanda veramente molto piccola, ma pareva ben tenuta. Un'insegna diceva: Al viaggiatore e su di un piccolo cartello aggiunto: Prezzi modici!. Ispirava fiducia: decisi di seguire il consiglio del mio morbido amico.

    Mi accorsi dopo di essermici già affezionato.

    Appena entrato mi accolse il locandiere, un anziano signore con una folta barba incolta e due occhietti vispi che lasciavano immaginare come da giovane avesse avuto una vita movimentata.

    - Salve ragazzo - mi disse appena entrato - posso fare qualcosa per te e il tuo amico?

    Come facesse a sapere che eravamo amici non sono ancora riuscito a spiegarmelo, comunque gli risposi normalmente.

    - Vorrei una stanza per questa notte, però non ho denaro per pagarla, in compenso posso lavare i piatti o spaccare la legna o pulire le stanze. Se mi aiutasse le sarei grato, vengo dalla Montagna e sono molto stanco.

    Il locandiere si fregò le mani pensieroso, poi disse: - Certo che è un brutto affare. Non saprei proprio cosa farti fare.

    Prima che potessi controbattere comparve dal buio del salotto un uomo di mezza età, claudicante, che intervenne nel dialogo dicendo: - Pagherò io per lui, così mi aiuterà a copiare le poesie.

    Lo guardai stupito, poi mi volsi verso il locandiere in cerca di spiegazioni.

    - Certo signor Poeta! - esclamò il locandiere con ironia.

    - Non ci fare caso - disse poi rivolgendosi a me parlando a bassa voce - è un mattacchione che crede di essere un grande poeta, disturba tutti i clienti propinandogli le proprie poesie; ma non posso farci nulla in quanto paga sempre e lascia mance sostanziose.

    - Non è vero - esclamò il Poeta - non sono matto, è che non sono più in grado di scrivere per colpa dell'artrite alle mani, e se qualcuno non mi aiuterà tutto il mio genio andrà perduto per sempre. Ti prego ragazzo scrivi per me i versi che ti detterò e avrai vitto e alloggio.

    La proposta non era malvagia, del resto era un buon modo per cominciare la mia avventura: accettai la sua offerta.

    1.3. - Il poeta sensibile.

    Mi alloggiarono nella stanza n_ 7. Era una stanzetta carina interamente rivestita di carta decorata a fiorellini il cui mobilio e le stoffe erano intonati con il rivestimento delle pareti; un cassettone

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