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Il grande (fallimento) Gatsby
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Il grande (fallimento) Gatsby

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Il Grande Gatsby , tratto dal celebre romanzo omonimo di F. Scott Fitzgerald, è stato recentemente (2013) riproposto sul grande schermo, per la regia di Baz Luhrman, interpretato da Leonardo DiCaprio. Quest’ultima, com’è noto, non è l’unica rielaborazione filmica dell’opera: una prima pellicola muta, andata perduta, vide la luce già nel 1926 (un anno dopo la pubblicazione del romanzo), la seconda nel 1949, e la terza uscì nel 1974, con Robert Redford e Mia Farrow nel ruolo dei protagonisti.
Nonostante la versione del 1974 si ricordi come la più famosa, non ebbe un gran successo, infatti la critica bocciò quasi all’unanimità quella pellicola.
Attraverso il testo qui proposto ci si interroga non solo sul motivo per il quale un romanzo degli anni Venti fu riproposto negli anni Settanta, dopo già ben due fallimenti cinematografici, ma anche sui motivi per cui anche questo terzo tentativo, che la Paramount aveva già preventivamente annoverato fra i suoi grandi successi, fu inesorabilmente un flop, nonostante la presenza di un affermato sceneggiatore quale Francis Ford Coppola.
Attraverso uno studio sociologico vengono ripercorsi gli “umori” della Storia degli anni in cui videro la luce sia l’opera che la sua trasposizione filmica. Vengono inoltre analizzate le scelte tecniche operate dal regista, dovute alla sua interpretazione della trama e dei personaggi.
Questa analisi può rappresentare lo spunto di partenza per un’eventuale critica relativa al successo o al fallimento del nuovo film.
LanguageItaliano
Release dateJul 7, 2013
ISBN9788866901419
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    Il grande (fallimento) Gatsby - Claudia Scavo

    Claudia Scavo

    Il grande (fallimento) Gatsby

    EEE-book

    Claudia Scavo, Il grande (fallimento) Gatsby

    © Claudia Scavo

    Prima edizione: luglio 2013

    Edizioni Esordienti E-book

    ISBN: 9788866901419

    Tutti i diritti riservati, per tutti i Paesi

    Capitolo 1: Premesse

    1.1 Fitzgerald e il sogno americano

         Prima di poter affermare con certezza di aver compreso l’essenza stigmatizzante e stigmatizzata di Gatsby, di aver vissuto e sofferto con lui alla mercé di una forza anelante ardente e distruttrice, di aver addentato con lui la vita, per un breve istante prima del tuffo nel nulla, bisogna almeno in parte aver conosciuto l’odore dell’atmosfera che impregnava le sue costose camicie: un odore acre di gin distillato clandestinamente, simbolo di presunta giovinezza, di presunta libertà, di presunta felicità. Questo stesso odore ristagnava e rifluiva costantemente nelle narici del padre-creatore di Gatsby, nonché il suo alter ego, Francis Scott Fitzgerald.

    Il nome di costui è stato per lungo tempo associato a quello del poeta della giovinezza e della sua caducità¹: egli ha vissuto la sua vita come un’adolescenza senza fine, ballando al ritmo sincopato del jazz, sperperando la sua fortuna in cerca di una felicità innocente e di un credo, ruggendo di fronte ai limiti impostigli da una società obsoleta, e facendosi portavoce e catalizzatore di tutte le delusioni dei giovani tristi.

    Per quanto frivola la sua vita potesse apparire, e in parte lo è stata davvero, i suoi ruggiti, presenti in tutti i suoi scritti, sono solo un’eco dei ‘Roaring Twenties’, e suggeriscono una più profonda critica sociale.

    La critica di Fitzgerald si rivolge infatti a ciò che rimase dell’America, in particolare degli Stati Uniti, dopo la devastante esperienza della Prima Guerra Mondiale, ma si radica su idee già espresse in precedenza con il nascere dell’ottica modernista²; sin da Emerson (1803-1882), gli americani cercavano di darsi una nuova identità distaccandosi dal materialismo, dalla formalità e dal purismo obsoleti imposti dalla società.

    Nel 1910 la nuova organizzazione sociale portò in misura sempre maggiore ad un indebolimento delle costrizioni sociali che avevano fino ad allora impedito ogni rinnovamento culturale e collettivo.

    La parola amuleto degli anni immediatamente successivi fu ‘nuovo’: si faceva parte di una ‘nuova storia’ alla quale partecipava attivamente anche una ‘nuova donna’; in cui si praticava un ‘nuovo teatro’ e si dava vita ad una ‘nuova poesia’, e ci si rivolgeva a tutti coloro cui era stata negata da troppo tempo, secondo i fautori del ‘nuovo’, ogni promessa di partecipazione alla vita americana. Si inseguiva quindi un’utopia umanitaria che nel 1917 sarebbe diventata l’utopia di una democrazia universale. Quell’epoca fu però anche quella dell’America degli isterismi, dovuti proprio alla paura di quegli stessi soggetti a cui le nuove istituzioni avevano dato una più forte e indipendente autorità: in primo luogo si manifestò la grande Paura Rossa, quando centinaia di scioperi gettarono l’America nel panico. Qualsiasi atto rivoluzionario venne identificato con il bolscevismo, così il sindaco di New York proibì l’uso delle bandiere rosse, i soldati e i marinai – anche se non autorizzati dal governo – si assunsero il compito di disperdere le riunioni socialiste – dette ‘rosse’ – e presto la diffidenza verso gli stranieri, di qualsiasi nazionalità fossero, portò ad identificare questi ultimi con i bolscevichi. All’inizio del 1920, quando ormai la gente cominciava ad esser stanca delle sfilate del proletariato contro il perenne rialzo dei prezzi, i motivi di distrazione erano l’alcolismo³ e la rivoluzione del mondo femminile⁴. Questo portò alla nascita di due nuove figure: il contrabbandiere e la flapper⁵ – trad. maschietta –.

    Questa nuova figura femminile sovvertiva l'ideale estetico femminile dominante, presentando una donna totalmente moderna: una donna con i capelli e le gonne corte, che guida l'automobile e gioca a tennis, che beve e balla, e il cui io è completamente assorbito in se stesso. Attraente, di gusti sofisticati, giovane per definizione, la maschietta incarnava allo stesso tempo gli ideali e le limitazioni della vita moderna. Come la più famosa tra tutte loro, Daisy Buchanan, afferma in The Great Gatsby (1925): «È la miglior cosa che una donna possa essere in questo mondo, un'affascinante sciocchina.».

    Quel 1920 fu inoltre una battaglia condotta dalla gioventù in nome della gioventù in tutte le classi sociali.

    Era nata la moda delle feste per pomiciare: quando un ragazzo di quella ‘Generazione Perduta'⁶, uno dei cosiddetti pomicioni, descrisse questo nuovo stile di vita in This Side of Paradise, scoppiò l'isterismo del sesso. Ormai pareva che tutti appartenessero alla generazione giovane⁷, e che la generazione giovane fosse dappertutto: lo spirito moderno aveva finito col trionfare.

    Mentre in Europa la guerra era finita in un impoverimento e in un esaurimento generale, per milioni di americani, invece, il mondo del 1920 era più ricco e più comodo; la nuova èra, allegra e ricca, stabilì su salde basi la liberazione e la conquista della nuova letteratura. Se era stata l'America a vincere la guerra dell'Europa, come diceva la voce popolare, fu la nuova letteratura che rese più americana la vittoria: la letteratura della critica e della ribellione. Come disse Edmund Wilson, mai in tutto il corso della storia, una generazione letteraria aveva detto tanto male del proprio paese, e soprattutto, come affermò Mencken, in un modo così innocente e spassoso. Fondamentalmente, tutti gli esponenti di questa nuova generazione letteraria erano, ciascuno a modo suo, nemici dell'ordine borghese riconosciuto, delle convenzioni e del puritanesimo, e si ribellavano contro tutto ciò che ritenevano cospirasse a mantener bassi i valori dell'arte e del pensiero. Ma essi stessi erano figli del boom economico e allegri

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