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Il graffio del passato
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Il graffio del passato

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Nella High School di Portland Samantha Elliot è considerata una delle più belle ragazze: alta, snella e con due magnifici occhi verdi. La donna perfetta, se non fosse stato per quel carattere scontroso e diffidente che la rendono decisamente “inaccessibile”.
Non certo uguale alla sua migliore amica Emma, apprezzata per quei riccioli biondi e quegli occhi azzurri e per una voglia di vivere che non l'abbandona mai; sempre così allegra e vitale, così diversa da Samantha, eppure sono amiche da quando avevano solo tre anni.
Gli opposti si attraggono, è proprio vero.
Quell'ultimo anno di scuola prima del College affatica tutti, ma le due riescono a viverlo con una calma apparente, come se non fosse davvero così importante pensare al futuro.
In un giorno di pioggia però, tutto cambia per Sam. La ragazza vede un insolito gatto nero che la osserva da un muretto ma non appena lei allunga la mano per accarezzarlo, il felino reagisce e la graffia. Ma la ragazza non se la prende; dopotutto si tratta di semplice istinto di difesa.
Ma quel taglio sanguinante, anche dopo aver pulito e disinfettato, impiega troppo tempo a rimarginarsi e si trasforma in una grossa cicatrice. E insieme a quel segno Sam avverte un profondo cambiamento in sé, qualcosa di così doloroso e di così impossibile che le sembra di vivere un incubo.
Ma non è un sogno.
Quanto si è disposti a soffrire pur di conoscere segreti inconfessabili? A cosa si è disposti a rinunciare per poter continuare a vivere in quel modo? E si è davvero in grado di accettare un nuova vita nonostante tutto il resto del mondo non se ne possa neanche accorgere?
La soluzione non è una legge matematica, non è logica e l'apparenza non inganna.
È imprevedibile, come quell'amore che la travolgerà.
LanguageItaliano
PublisherElena Leoni
Release dateJun 5, 2013
ISBN9788867557264
Il graffio del passato

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    Il graffio del passato - Elena Leoni

    1.

    Pioveva. Da qualche tempo ormai il cielo non faceva che piangere. Senza che nessuno potesse realmente consolarlo. Sam guardava le grosse gocce di pioggia scivolare lungo il vetro, seguendo con calma il loro corso fino a che non s’infrangevano contro il muretto, esplodendo silenziose. I suoi occhi verdi perdevano tutto il loro splendore di fronte al quel grigio triste e solitario delle nuvole. Anche se era un semplice fenomeno atmosferico, non sopportava più l’idea di vedere soffrire la natura sferzata da quella pioggia incessante che continuava senza sosta da giorni. La primavera era appena arrivata ma la pioggia si stava già prendendo gioco di lei. Eppure Sam amava l’acqua; era una nuotatrice esperta, a livello agonistico e anche la pioggia le regalava momenti di pace che, con difficoltà, riusciva a trovare. Ma quella mattina era davvero insopportabile. L’improvviso tintinnio assordante della sua sveglia la destò dai suoi pensieri e la ragazza si voltò a guardare l’orologio sul comodino. Nonostante il buio, riusciva a vedere con chiarezza i numeri rossi sul display grazie alla lieve luce che quegli stessi numeri diffondevano. Sette. Erano appena le sette del mattino. Sveglia da un’ora. Anche quel giorno si era alzata troppo presto a causa proprio di quelle gocce che non la lasciavano dormire. L’aria, che doveva essere tiepida in quel mese dell’anno, era invece fredda e le coperte del letto, calde e morbide, le chiedevano di tornare a stendersi qualche altro minuto, ma ormai era sveglia e con fatica sarebbe riuscita a rimanere lucida come adesso al primo contatto con il cuscino. Doveva andare a scuola e non poteva fare mai tardi quell’anno. L’ultimo anno di liceo. L’anno degli esami. Le sembrava ieri quel giorno, forse non troppo lontano, quando aveva fatto il primo passo dentro quella scuola, che sarebbe poi divenuta la sua galera per altri quattro. Il primo giorno sembrava una vera sfigata, una bamboccia con una gonna per sembrare più elegante ma che in realtà la rendeva ancora più ridicola; i suoi occhi avevano fissato le sue orrende scarpe per tutto il giorno, trascinandosi timidamente da un'aula all'altra senza aver il coraggio di proferir parola con nessuno. Ma ora si era trasformata in una bella ragazza, alta, snella e con quei due occhi così verdi che facevano brillare i suoi capelli neri e lucenti. Tutti l’apprezzavano anche se a lei, ora, non le importava sul serio di parlare con nessuno, tanto credeva che quella scuola fosse così piena di teste vuote e caratteri inconsistenti. La sfigata di un tempo se n’era andata. Samantha prese la divisa dalla poltrona e cominciò a vestirsi adagio, assaporando con delicatezza come la sua pelle fredda si riscaldasse sempre più ad ogni leggero contatto con i vestiti; prima il reggiseno, poi la camicia ed infine la giacca. Poi la tanto odiata gonna, parte integrante della divisa, così corta e stretta che le impediva di muoversi come meglio voleva. Si sentiva ancora più in gabbia con quel vestito che considerava tanto inutile quanto inadatto, ma c'era sempre stata una strana atmosfera di ipocrita unione collettiva in quella scuola che le imponeva di essere uguale a tutte le altre donne. Lo odiava, era chiaro, ma era una realtà che purtroppo doveva accettare, ancora per qualche mese, prima del diploma. Scese le scale stando bene attenta a non farsi sentire, ma la luce della cucina era già accesa. Per sfortuna qualcuno si era già alzato. Seduta al tavolo trovò sua madre, intenta a bere il suo solito caffè bollente mentre leggeva qualche rivista di cucina. Quando sua figlia entrò, si voltò verso di lei con un sorriso stampato sulle labbra. Buongiorno, cara disse. Sam fece appena un cenno del capo, in segno di saluto, ma non disse niente. Da sempre si domandava come facesse sua madre ad essere così allegra anche al mattino, quando lei invece non ci trovava niente di felice. Ogni mattina si ripeteva sempre la stessa routine e sapeva bene che il tentativo di risponderle in modo cordiale era vano ed inutile. Tanto valeva stare in silenzio e sorridere appena se qualcuno osava rivolgersi a lei. Ma la madre la conosceva troppo bene e rideva ancora di più di fronte al ghigno falso e forzato della figlia che, comunque, si limitava a salutare. Poi si riconcentrava a studiare qualche nuova ricetta per dolci e paste, lasciando Sam a prepararsi la sua colazione in pace; il latte caldo e i suoi biscotti al cioccolato. Colazione semplice e sostanziosa, come la definiva lei. Poteva permetterselo, visto il fisico slanciato che possedeva. Odiava ogni tipo di dieta, da quelle che preparava il dietologo su un pezzo di carta a quelle che internet o la televisione propinavano come se fossero caramelle. Se non altro per il fatto che ogni sua amica, magra quanto lei, le seguiva per filo e per segno. Peggio delle ricette della madre in cucina. Un rumore forte e veloce di passi le fece alzare gli occhi dal suo latte, che avrebbe voluto davvero assaporare con una tranquillità e un silenzio che, evidentemente, quella mattina non si potevano in alcun modo ottenere. Suo fratello William entrò di corsa in cucina, la camicia ancora slacciata e la giacca piena di pieghe. Il suo viso rosso ed agitato significavano solo una cosa; era in ritardo. Ma lui può permetterselo, pensò la sorella. Fa solo il terzo liceo e i professori non erano così fiscali se si lasciava passare qualche minuto dopo il trillo della campanella per entrare in classe. La madre lo bloccò all’istante, fermandolo nella sua folle corsa. Will, sei impazzito?! Così sveglierai tuo padre! Non ti viene in mente che ieri ha fatto il turno di notte all’ospedale?! Dovresti ricordartelo! lo rimproverò. Ma prima che lui potesse ribattere, la madre gli stava già abbottonando la camicia e lisciando la giacca. Forse era quello il momento preferito di Sam; vedere suo fratello, alto quasi un metro e ottanta, bloccato e sistemato da una donna alta almeno dieci centimetri meno di lui. Mamma, devo sbrigarmi! Oggi c’è la partita di rugby e il coach mi uccide se ritardo! le rispose, scalzandola con forza e delicatezza allo stesso tempo e precipitandosi a bersi il suo latte. Ma quando vide la sua tazza ancora linda e pulita si girò verso la sorella. Ancora grazie Sam, che sei sempre così gentile da scaldare qualche centimetro di latte anche per me! enfatizzò con ironia. La ragazza bevve l’ultimo sorso. Non c’è di che, fratellino! rispose. William non disse niente, ma dal suo sguardo si potevano ben comprendere tanti di quei pensieri, per niente piacevoli e tutti in onore di sua sorella. Ma lei era già uscita da quella stanza infernale, chiudendosi in bagno. Subito si pulì la faccia, buttandosi addosso quell’acqua gelata del mattino senza sofferenza, rabbrividendo appena. Lo specchio quella mattina sembrava diverso; i suoi occhi calmi si soffermarono su ogni tratto del viso, dai lineamenti del mento, fino all’attaccatura dei capelli ben pettinati che però, quel giorno, sembravano diversi. Era come se il vetro volesse aprirla in due, rivelandole senza troppe cerimonie che lei era solo un puzzle da mille pezzi, in cui ogni suo lato del carattere, anche il più nascosto, corrispondeva ad una sua minuscola tessera. Chiuse per un attimo gli occhi, poi li riaprì, sperando che ogni cosa di sé fosse tornata al suo posto, all’ombra dai curiosi occhi degli altri. Odiava aprirsi di fronte agli sconosciuti; pensava che quello fosse l’ultimo passo verso la morte. Non una morte fisica, ovviamente, ma la morte della sua anima. Doveva rimanere nascosta, coprirsi con una stupida maschera che toglieva soltanto con chi poteva permettersi; a volte davanti alla sua famiglia e a volte con i suoi due amici più intimi. Per la madre, lei era troppo orgogliosa anche per ridere. Il suo incubo più grande era forse solo quello di rovinarsi la reputazione. Una sola parola su di lei che non le piacesse e il mondo le sarebbe cascato addosso; e per questo motivo appariva sempre chiusa, riservata, indifferente al mondo come se lei fosse una sostanza a parte, vaga ed indefinita. Ma anche lei, forse, sapeva ridere e divertirsi. Probabilmente era per questa ragione che non aveva mai avuto un ragazzo. Di certo aveva avuto tante cotte, qua e là nella sua vita, ma non aveva mai provato l’esigenza di avere un uomo solo per sé; un uomo che, come tutti le volevano far credere, vivesse solo per lei. Uscì di casa quando l'orologio segnò dieci minuti alle otto, salutando con un cenno la sua famiglia, ancora in giro per la casa mentre si finiva di preparare. Ma per buona sorte aveva appena smesso di piovere. La scuola distava solo cinque minuti da casa sua, ma in quell’ultimo anno aveva deciso di essere più puntuale, decidendo perfino di arrivare in anticipo dopo tre anni di consueti ritardi. E la sua migliore amica l’aspettava all’angolo della strada, come sempre. Ehi Sam! esclamò. Samantha le sorrise, lasciando per un attimo da parte tanti cattivi pensieri. Buongiorno Emma!. Emma Gordon, la sua migliore amica da quando avevano entrambe 3 anni. Dal giorno del loro primo incontro non si erano mai separate anche se, caratterialmente, erano una l’opposto dell’altra; come il sole e la luna, come il polo nord ed il polo sud magnetico, vicine, ma mai unite, contrarie ma mai divise. Lei indifferente e riservata, Emma allegra e sempre disponibile. Erano proprio quelle differenze a tenerle così attaccate come calamite, come se si compensassero a vicenda, una che teneva a freno l’altra in ogni situazione. Senza contare che la loro vicinanza tra le abitazioni era tale che avevano giocato tutta la vita insieme, crescendo simili a sorelle ma legate da un rapporto ancora più intenso da definirsi tale. Il nero e il bianco. Samantha ed Emma. I suoi capelli biondi e ricci vibrarono come molle mentre le sorrideva reclinando appena la testa di lato mentre quei suoi occhi azzurri, limpidi come il colore dell'oceano all'alba, si socchiusero appena e si nascosero dietro l'obbiettivo della sua macchina fotografica che, senza che Sam potesse impedirlo, le scattò una foto. Ma che diavolo…! esclamò Sam, stropicciandosi con fastidio gli occhi dopo che il flash, che si era attivato a causa del grigiore delle nuvole, glieli aveva quasi accecati. Emma scoppiò a ridere. Lo sai che amo fare le foto, e poi…questa mattina sei particolarmente bella… rispose, facendole l’occhiolino mentre riguardava la foto appena fatta sul display della macchinetta digitale. Samantha le sorrise, non potendo evitare che quel complimento le desse piacere e cominciò a camminare verso la scuola, seguita dalla sua compagna che iniziò a parlare dei sogni della notte precedente, di quello che aveva fatto la sera prima, di quante belle foto artistiche era riuscita a scattare e del nuovo disegno che stava progettando per coprire il muro bianco della sua camera. Sam rimaneva sempre in silenzio, talvolta annuendo e sorridendo, ma di rado le parlava la mattina. Ma a lei andava bene così; era felice di poter sentire come l’artista nascosto dentro la sua amica si stesse pian piano risvegliando ogni giorno che passava, trascinandola verso una felicità autentica. Nella sua mente ripensò a quanto si entusiasmava quando le raccontava come stava imparando a disegnare e a fare delle belle foto solo con l’aiuto di qualche guida che trovava su internet. E poi, quella volta che le disse che i suoi genitori avevano accettato la sua proposta di trasformare quel muro vuoto e bianco della sua camera in qualcosa di colorato, si era sentita davvero lieta per lei. Sapeva bene quanto lo desiderasse. Perché sorridi Sam? le chiese improvvisamente Emma. La ragazza venne risvegliata dai suoi pensieri e si concentrò a guardare gli occhi azzurri e splendenti dell’amica. Sto pensando a quanto sarà bello quel muro quando avrai finito… disse.

    La scuola, quella mattina, si era messa d’accordo con il tempo; triste e grigia come il cielo. Quell’edificio che aveva odiato fin dal primo giorno, un ricordo abbastanza terrificante, ora aveva un aspetto ancora più avvilente. L’unica consolazione che le impediva di tornare di corsa a casa in quei giorni era che tra poco tempo le avrebbe detto addio. Aveva una buona media a scuola, quasi ottima, ma non studiava come una di quelle matte secchione che preferivano non vedere più la luce del sole per farsi del tutto assorbire da enormi volumi. Anzi; con onestà, ci arrivava. Un’intelligenza tutta per sé. Però non pretendeva niente perché sapeva che uscendo con il suo bel voto meritato avrebbe raggiunto lo stesso grado di soddisfazione a cui puntava, a dispetto delle pretese della madre, che voleva che chiudesse l’anno con il voto massimo, accompagnato perfino da una fresca lode. Ma no, per lei non era così importante. Anche Emma era brava a scuola, ma a differenza di Sam, non vedeva l’ora di uscire per andare al college di Arte e sbizzarrirsi come meglio poteva. Forse, visto tutto l’impegno che ci metteva, si meritava qualche voto in più rispetto alla sua amica, ma era chiaro che Emma sarebbe sempre stata un gradino più in basso rispetto a lei. La campanella dell’inizio della giornata suonò ma loro due erano già dentro alla classe, con evidenza più affollata rispetto a qualche anno prima già a quell'ora, anche se i soliti ritardatari non mancavano mai e le espressioni dei professori non nascondevano niente; le lodi che tanti volevano ardentemente erano ormai utopie irrealizzabili, sfumate già da troppo tempo. Ehi, Sam…. La ragazza si voltò. Un ragazzo alto, muscoloso e dalla pelle scura la stava guardando con un sorriso. Un ghigno, come lo avrebbe chiamato lei. Perché sapeva già che cosa desiderasse quello sguardo. Ti prego, dimmi che hai fatto scienze…. Era ovvio. Sam mise lo zaino sul banco, togliendosi con noia la felpa ormai calda. Sai che l’ho fatta e sai anche come ti risponderò, Chad…. Chad Howard, colui che apriva un libro solo quando non c’era una partita di pallacanestro alla televisione. Evento abbastanza raro, così come la sua voglia di studiare. I suoi capelli ricci e scuri sembrarono afflosciarsi insieme alla sua espressione alla risposta della ragazza. Per favore, oggi mi interrogherà! insistette lui. Samantha s’appoggiò al proprio banco, sbuffando. Sai da una settimana che oggi saresti stato interrogato, ma non hai studiato. Perché dovrei darti i miei compiti, che mi sono costati un pomeriggio di studio mentre tu guardavi la partita spanciato sul divano?! esclamò. Chad non disse niente, rendendosi conto di quanto la sua amica potesse avere ragione. Ma d’altronde lei aveva sempre ragione con lui. Ma a che scopo fare la ramanzina a chi, in realtà, avrebbe ricordato quelle parole solo per i prossimi dieci secondi, fregandosene non appena lei gli avrebbe concesso un'altra volta quel favore? Sam infilò senza voglia la mano nella sua borsa e ne tirò fuori un quaderno che diede a Chad. Il sorriso del ragazzo si rianimò come se fosse stato appena colpito da un fulmine. Sappi che non li ho fatti tutti, ma solo una buona metà. Gli altri dovrai chiederli a Matthew… spiegò. Chad prese il quaderno come se fosse una reliquia preziosissima e abbracciò forte Sam fino a soffocarla. Sei troppo buona! Grazie!. Solo perché è l’ultimo anno…bofonchiò lei in quella stretta, sapendo che però, in verità, non le costava così tanta fatica permettere ad un suo amico di non perdere l'anno; dopotutto non le era mai stato antipatico. Chad le stampò un bacio rumoroso sulla guancia e corse dal suo amico, recuperando, con lo stesso atteggiamento, l’ultima parte dei compiti. Sam non poté fare a meno di sorridere; in fondo era un bravo ragazzo. E poi neanche lei aveva fatto tutti i compiti quel giorno, non era giusto accusarlo per quella volta. D’altronde, con la sua media e i suoi voti già eccellenti, non rischiava affatto un’altra interrogazione quel giorno. Senza contare che c’era anche Matthew Filley ad aiutarlo e lui, senza dubbio, non si sarebbe dimostrato irritato ad aiutarlo. Non era un secchione, ma era con certezza il più bravo della classe perché era un genio. Studiava solo perché i suoi pomeriggi erano spesso troppo vuoti e sfogliare le pagine di quei noiosissimi manuali colmava in qualche modo quella noia ancora più intensa di non dover fare obbligatoriamente nulla. Giocava a calcio, ma solo per rendere le giornate meno monotone. L’unica cosa che desiderasse fare era suonare e cantare con il suo gruppo, a cui apparteneva anche il fratello di Sam, come se la musica rappresentasse l'unica via di salvezza, l'unica lampadina ancora accesa galleggiante nella nausea dei suoi giorni. I suoi capelli biondi e spenti si mossero come intorpiditi quando alzò la testa verso Chad e i suoi occhi chiari si aprirono in un sorriso mentre lo aiutava con quella maledetta materia. La generosità era la sua virtù, ma anche il suo vizio; talvolta sapeva essere troppo generoso anche con chi non se lo meritava. Ma il professore entrò e ognuno corse al suo posto, tentando di eludere lo sguardo laser dell’insegnante, cacciatore di coloro che erano ancora in piedi. Qualcuno si salvava, ma qualcun altro era sempre troppo lento e il ghigno del professore ne era una prova certa. Le ore quel giorno passarono più fiacche del solito, tra le interrogazioni di chi aveva qualcosa da rimediare e il ritorno della pioggia, che bagnava silenziosamente tutte le vetrate. Ora Sam l’apprezzava perché i lenti movimenti delle gocce, che strisciavano isteriche lungo gli opachi e frenanti vetri, la facevano rilassare, come se, per effetto di una magia, fossero state in grado di rallentare quel tempo velato e grigio della giornata. Noi siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni... lesse d'un tratto la professoressa di letteratura inglese, destandola da quell'immagine fissa dell'acqua che scorreva senza sosta che non l'aveva mai abbandonata per tutta la mattinata. Samantha rivolse lo sguardo al libro che non ricordava neanche di avere aperto e si concentrò su quella frase, riportata da una citazione di Shakespeare. ...e nello spazio e nel tempo d'un sogno è racchiusa la nostra breve vita. Finì di leggere a bassa voce, soffermandosi su ogni sillaba come se fosse la più grande verità del tempo. Le sembrava una frase tanto banale, tanto priva di significato quanto importante, intelligente, profonda e ricca di sentimento. Perché non le sembrava tanto difficile e tanto strano accettare che la nostra vita fosse solo un'illusione lunga miliardi di anni, eppure così breve da trascorrere in un soffio lungo imprecisi attimi? Forse perché la ragazza pensò che così come i sogni sfuggono ma rimangono immutati, così anche noi moriamo, ma rimaniamo eterni? O forse perché pensava che la vita fosse come un sogno apparente, mentre ciò che è la realtà è invece un sogno distinto, ma riprodotto in una pellicola fasulla, come in bianco e in nero?

     2.

    La campanella della ricreazione suonò e gli studenti si precipitarono giù per le scale, diretti verso il cortile per la pausa della sigaretta. Nonostante la pioggia, che continuava a bagnare le strade senza sosta, i ragazzi non si sarebbero mai persi quel momento, anche a costo di stare un po’ più stretti sotto la tettoia antistante il cortile aperto. Anche Sam ed Emma scendevano spesso in compagnia di Danielle e Rosy, loro compagne di classe. Mentre Danielle si fumava la sua sigaretta, amavano chiacchierare, soprattutto di uomini, argomento prediletto della ragazza; non che Samantha avesse cambiato idea rispetto al genere maschile, però si rendeva anche conto che lo spettegolare rendeva in qualche modo divertenti quei momenti, come se potessero farle apprezzare qualche istante di stupida ma sincera chiacchiera di troppo. Allora, Sam, nessun pretendente ancora?! chiese sorridendo Danielle. Sam le sorrise. Io no, ma forse qualcuno puoi prestarmelo tu… Dani fece ancora un tiro, ridendo. Con molto piacere… Rosy la guardò con un’espressione di rimprovero. Odiava vedere la sua migliore amica fumare, anche se tempo fa aveva deciso di accettare quella realtà. Dopotutto tra migliori amiche ci si riusciva a capire, così come accadeva tra Sam ed Emma e con il passare degli anni ci aveva fatto l'abitudine a vedere quella sigaretta perennemente stretta tra le lunghe dita di Danielle. Ma tra le due ragazze la differenza non era solo caratteriale, ma anche di tipo fisico. Bastava vederle e il concetto più puro di opposizione trovava tutta la sua concretezza. Rosy era una ballerina piccola e snella, dai lineamenti dolci nascosti dai suoi corti capelli biondi. Invece Danielle era una pallavolista alta e robusta, meno aggraziata dell’amica e dall’aspetto più grezzo, con i suoi folti capelli castani che spesso le coprivano gli occhi scuri. Eppure, nonostante i loro vizi, si volevano così bene che niente e nessuno sarebbe stato in grado di scucire quel rapporto. Il cielo sembrava ancora molto grigio e forse non sarebbe riuscito a smettere di piovere prima della fine delle lezioni; si sarebbero dovute bagnare senza dubbio nel ritorno a casa, pensò Sam mentre tornava in classe con le altre ragazze. Ma quando le venne in mente che quella sera avrebbe avuto allenamento di nuoto, pensò che bagnarsi, in fondo, non sarebbe stato così troppo spiacevole; in qualche modo, sarebbe sopravvissuta, pensò ridendo. Anche le ultime lezioni prima del pranzo trascorsero, ma Sam se ne rammaricò: anche se la sua giornata di scuola stava per giungere al termine, la mensa era un posto davvero orribile ed insopportabile. Era sempre stracolmo di studenti che non pensavano ad altro che a rifocillarsi e a fare dei loro stomaci vortici di cibo irriconoscibile, tanto da diventare sempre più difficile trovare un posto dove sedersi. E anche se, quando non pioveva, lei e le sue amiche mangiavano in cortile, quel giorno avrebbero dovuto per forza sedersi vicino ad una massa di ragazzini urlanti, almeno per evitare che i loro piatti, così come le loro divise, s'inzuppassero di acqua piovana. Sam ed Emma, seguite anche da Danielle e Rosy, si guardarono intorno, stupite da quanta confusione aleggiava nell'aria; quella mattina gli studenti sembravano più simili ad animali che non mangiavano da giorni piuttosto che a semplici uomini che qualche ora prima avevano già riempito lo stomaco di grasse merendine e fumo. Il chiasso era indescrivibile e Samantha si chiese quanto sarebbe riuscita a resistere prima di scoppiare. La mensa serviva anche quel giorno una semplicissima pasta in bianco, come se i suoi cuochi non fossero in grado di cucinare altro e quei pochi carboidrati che servivano alimentarono ancora di più la fame e il desiderio inconscio di rompere i vetri delle cucine per trovare qualcosa di più calorico tra le mensole e il frigo. Le ragazze, vista la situazione, s’accontentarono di prendere quel primo immangiabile ed un insalata ancora più cattiva, praticamente non condita, evitando così la fila troppo lunga per il dolce che spesso era utile a sedare quelle bestie incontrollabili, mostrando, in una folle e vana speranza, solo un dolcetto insignificante e dal sapore ancora più ridicolo. Un tavolo libero, presto! esclamò Emma. Le quattro cominciarono a correre verso quell’unica meta di salvezza contro quel caos infernale, facendosi largo tra gli studenti schiamazzanti mentre tenevano in equilibrio i loro vassoi traballanti come giocolieri. Ma non appena il piatto di Danielle, la più veloce, toccò il tavolo, un rumore simile si creò esattamente dalla parte opposta dello stesso tavolo e gli occhi delle ragazze incontrarono quelli di un gruppo di ragazzi. Scordatelo Sean, siamo arrivate prima noi! disse Dani, sfidando il compagno di classe. Il ragazzo strinse gli occhi a due fessure, rivolgendole quello stesso sguardo di sfida. Chi ha deciso che chi arriva prima si prende anche il tavolo?! Siamo ad una mensa!. Le donne, dietro il loro capo-branco, si guardarono interrogative. Dall’altra parte, quei lupi affamati e, soprattutto vogliosi di sedersi, fecero lo stesso. Lo scontro era inevitabile. Sean Price, pensò Sam, quell'idiota. Era sempre stato il più competitivo della classe e in ogni occasione, anche la più stupida, riusciva a mostrarsi per quello che era; uno che mai e poi mai avrebbe potuto perdere. Se poi si metteva contro a Danielle, la faccenda era più seria; le donne, secondo lui, erano le deboli, le perdenti, le inferiori. E per tutta risposta, Dani si trasformava in una cagna latrante e minacciosa ogni volta che Sean non perdeva l'occasione di ribadirlo. Sean si passò le dita tra i capelli biondi, chiudendo per un secondo quegli occhi scuri per poi riaprili con lo stesso sguardo arrogante e minaccioso, come se sua madre glielo avesse stampato sulla faccia dalla nascita. Ma il tonfo sordo di un altro vassoio, al suo fianco, distolse per un attimo l’attenzione tra i due contendenti. Ora basta! Il tavolo è grande, possiamo entrarci tutti! disse Robert Gilliam. Sean guardò il suo migliore amico come se lo avesse appena tradito, così come fece Danielle quando vide Rosy sedersi senza troppe cerimonie, seguendo, senza fiatare, quello che sembrava l'ottimo consiglio di Robert; la fame era tanta, la voglia di litigare, da altro canto, era poca. Per buona sorte era intervenuto lui. Riusciva sempre a mettere da parte l’orgoglio senza limiti del suo migliore amico con la sua tranquillità e i suoi modi pacati, così corretti da non poter essere criticati. I suoi capelli mori coprirono per un attimo i suoi occhi grigi quando si concentrò a non incontrare lo sguardo accusatorio del suo amico, ma poi si alzarono subito, sorridendo con calore a Rosy. Uno dopo l’altro i due branchi si sedettero a tavola e sia Sean che Danielle dovettero seguire le regole del gioco, dichiarandosi entrambi sconfitti dai loro stessi amici e, anche se dovettero condividere lo stesso tavolo per tutto il pranzo, evitarono di guardarsi, sicuri che non si sarebbero limitate le scariche di corrente elettrica. Accanto a Robert si sedettero anche Nathan Lucas, il più timido della classe e Adrian Bones, l'esatto opposto di Nathan, il più carismatico del gruppo, entrambi amici, o meglio, sottomessi di Sean, come se avessero la presunzione di rappresentare quelle tipiche bande americane degli anni sessanta, idea che rendeva Sam ancora più critica e sprezzante nei loro ridicoli tentativi di mostrarsi diversi. Il pranzo trascorse più o meno velocemente, tra gli sguardi ancora troppo acidi e carichi di odio tra Sean e Danielle e i tentativi di scherzarci un po’ su di Nathan, che veniva comunque fulminato in continuazione dagli sguardi micidiali di Robert; cambiare argomento, ecco cosa gli stava cercando di comunicare. Sam tornò a guardare la pioggia attraverso i vetri bagnati, sperando con tutta sé stessa che spiovesse quel tanto che le avrebbe permesso di uscire ed allontanarsi da quell'atmosfera insostenibile, resa tra l'altro ancora più intollerabile dalle grida disumane alle quali gli altri studenti si lasciavano andare senza troppo riguardo. Ma l’intensità con cui la pioggia trasformava il cortile in una melma fangosa ed inagibile faceva presagire l’esatto contrario. Sam, come stanno andando gli allenamenti? Tra poco hai le gare… iniziò Adrian. Sam annuì con un piccolo cenno. Pensare alle gare era in quel momento l’ultimo dei suoi desideri. Le metteva ansia parlarne; era come se riuscisse a vedersi sconfitta al solo pensiero. Era brava, ma la prossima competizione sarebbe stata particolarmente dura ed evitava di toccare quel tasto. Emma se ne accorse senza impiegarci troppo. E tu, Adrian, come va la pallavolo? chiese quell'altra. Sam tirò un sospiro di sollievo quando gli occhi azzurri del ragazzo si concentrarono solo su Emma, spiegandole, quasi per filo e per segno, la sua ultima partita, in un moto di presunzione che anche Emma riuscì con evidente fatica a patire. Accanto a lei, Danielle, più esperta dell’amica, ascoltava interessata, distogliendo per un attimo l’attenzione da Sean verso il quale, in ogni caso, non aveva mai perso lo scrupolo di controllare, sicura che le avrebbe sferrato il suo attacco finale quando lei meno se lo sarebbe aspettato; paragonare quei due ad animali che si contendevano il territorio non sarebbe stato che il confronto più perfetto. Poi la campanella condannò tutti. Le lezioni del pomeriggio iniziarono tra i lamenti della folla, per niente felice di continuare quello studio che, nell’ultimo mese, era diventato sofferente. La fatica li aspettava alle porte e gli studenti varcarono le loro soglie timorosi. Ma anche quelle infinite fatiche sarebbero presto finite, scarcerando i suoi detenuti prima di quanto si aspettassero. L’uscita era sempre il momento più gioioso, che ci fosse un sole magnifico o una pioggia insopportabile. I gruppi di ragazzi lasciavano quella galera correndo via come se fossero stati rilasciati con l'indulgenza, allontanandosi sotto la pioggia a passo svelto per evitare di bagnarsi ancora di più. Sam ed Emma guardarono il cielo, che non accennava a smettere di piangere. A quel punto era inutile aspettare che cessasse di spiovere, ma nell’istante in cui le due cominciarono a correre verso casa, una voce le fermò. Ehi ragazze!. Sam si girò. Seth era lì, a pochi metri da loro, sorridente come sempre. Ciao Seth! esclamò Emma.

    Seth Tyler, il loro migliore amico. Non tanto quanto lo erano le due donne tra loro, ma con certezza legato a quelle molto più di un semplice amico. Aveva diciannove anni ed era da un anno quindi che frequentava il college nella facoltà di medicina. Infatti, proprio come il padre di Sam, voleva diventare un medico, nonostante la ragazza glielo avesse spesso sconsigliato, mostrandogli il padre e la sua vita senza sosta proprio come esempio; ma quando si ha una vocazione, è difficile rinunciarci e Sam lo sapeva bene. Così, da quando aveva finito la scuola e le ore per potersi vedere erano diminuite, le veniva spesso a trovare all’uscita, giusto per scambiare qualche parola. Il ragazzo si spazzolò i capelli mori, lasciando cadere qualche goccia sul viso. Poi i suoi occhi castani si soffermarono sulle due ragazze.

    Vi vedo un po’ stanche… esclamò ridendo.

    Emma gli diede una spinta, facendo una smorfia.

    Fai bene a ridere tu che l’esame l’hai già fatto! Scommetto che un anno fa tu eri nelle nostre stesse condizioni….

    Seth cercò di non farsi prendere, senza smettere di ridere.

    Mai come voi in questo momento!

    Samantha gli sorrise. Era sempre stato un bravo ragazzo, fin da quando l’aveva conosciuto per la prima volta. E adesso che crescevano insieme si rendeva conto di come si stava trasformando in un uomo intelligente, bello e simpatico. Proprio colui che ogni donna sogna di avere accanto. Ma lei era felice di averlo come amico e basta e pensare a lui come un ipotetico fidanzato la faceva rabbrividire; non avrebbe mai rinunciato alla sua amicizia con un amore che, senza dubbio, avrebbe danneggiato il loro rapporto, illudendoli solo in un primo momento che la loro confidenza si sarebbe solo rinvigorita.

    Dai venite. Ho la macchina, vi do un passaggio! Emma era al colmo della gioia, contenta di non doversi inzuppare nelle enormi pozzanghere lungo la strada e anche Sam, in fondo, era piuttosto contenta di poter entrare in casa senza lasciare una scia di acqua e fango sul pavimento, fatto che avrebbe sconvolto non solo l'ultima parte di una già faticosa giornata di sua madre, ma anche quella di tutta la sua famiglia.

    Il tragitto verso casa durò poco ma abbastanza affinché tutti e tre si potessero godere il comfort di stare comodamente seduti in una vettura calda durante quella giornata di pioggia interminabile. E con una punta di egoismo, si soffermarono a guardare ogni passante che correva disperato sotto l’acqua, deridendolo non appena delle ruote in velocità scatenavano fangosi maremoti contro cappotti lunghi e già luridi. Seth avrebbe voluto accompagnarle fin sotto i rispettivi portoni, ma Sam lo convinse a rinunciare a quell’atto di gentilezza estrema, facendosi lasciare al bivio dove s’incontrava ogni mattina con la sua amica. Emma di certo non si fece scappare quell’occasione a dir poco unica e Seth fu ben disposto ad accompagnare almeno lei.

    Sam, non appena scese dalla macchina dopo i vari ringraziamenti, cominciò a correre, almeno per far vedere ai suoi amici che non avrebbe permesso alla pioggia di bagnarla troppo. Ma poi, quando l’auto fu abbastanza lontana e si rese conto che il rombo del motore e i suoi fari accecanti si trovavano distanti, rallentò fino a camminare. Amava farlo; passeggiare tranquillamente sotto la pioggia, fregandosene dei rivoli d’acqua che le scendevano sul viso dai capelli zuppi e rimanendo ad ascoltare il suo rumore. Il ticchettio delle grosse gocce che s’infrangevano sulle foglie e la melodia più intensa dell’acqua che inondava le strade e s’abbatteva sulle vetture ai lati della strada. Poi la sua sinfonia diventava più intensa quando le ruote calde delle macchine correvano sulle strade bagnate, diminuendo sempre più a mano a mano che quelle si allontanavano. Sam alzò gli occhi al cielo, soffermandosi per un momento a guardare quei nuvolosi grigi sopra la sua testa, anche se venne colpita dai fastidiosi proiettili di pioggia che tentavano di bombardarle gli occhi. Poi, non appena s’accorse che la sua abitazione era già vicina, si rimise a correre come se niente fosse; se la madre l’avesse vista in quella situazione, senza dubbio si sarebbe preoccupata delle sue condizioni mentali. Magari avrebbe anche pensato che l’esame l’avesse troppo stressata e in quel momento era ciò che la ragazza meno desiderava.

    Ma poi, si fermò.

    Qualcosa aveva attirato la sua attenzione così tanto da immobilizzarla, lasciando che la pioggia le inzuppasse ancora di più tutti i vestiti ormai più che fradici.

    Due occhi. Due occhi gialli. Due occhi magicamente gialli.

    Sul muretto davanti al cortile stava seduto un lucente gatto nero, immobile nonostante la pioggia gli sferzasse il pelo. E quei due bellissimi occhi gialli la stava fissando senza sosta chissà da quanto tempo. Non batteva ciglio, non reclinava la testa. Stava lì, con semplicità, fermo a guardarla. Era inusuale vedere un gatto nei giorni di pioggia, data la loro naturale propensione ad odiare l'acqua e vedere quell'animale in quelle condizioni, così bloccato per farsi bagnare e dall'espressione così curiosa da farsi guardare, era un evento più unico che raro.

    Sam sentì un impulso sempre più profondo di avvicinarsi, di guardarlo con la stessa intensità negli occhi, come a spogliarlo di tutto quel folto pelo nero per lasciarlo nudo, svelando i suoi pensieri. Ma quel gatto sembrava troppo calmo e tranquillo affinché qualcuno potesse scuoterlo da lì, nonostante la pioggia volesse affogarlo.

    La donna si avvicinava ma quel gatto non accennava a spostarsi, senza perderla mai di vista. Né un miagolio, né un movimento furtivo della coda, né l’abbassamento delle orecchie la stavano minacciando di andarsene. Sembrava quasi che quel felino la volesse lì con lui.

    Ormai li separava solo un metro di distanza. Un misero ed insignificante metro.

    Sam allungò con calma la mano, provando ad accarezzarlo. Dentro di lei si scatenarono tutte le sue emozioni più folli, concentrate in un solo palmo. Non poteva davvero credere che un gatto randagio si facesse avvicinare con così tanta facilità . Era incuriosita, era stupita, era meravigliata ma così presa che neanche lo scoppio di una bomba, anche a pochi passi da lei, l'avrebbe spinta ad andarsene.

    Mezzo metro. Era arrivata.

    Un luccichio fulmineo, quasi impercettibile, attraversò in un instante gli occhi del gatto. S’illuminarono di luce propria e poi accadde.

    Una zampa, inaspettatamente, si alzò in cielo e il luccicare del suo artiglio illuminò uno schizzo di sangue. La mano di Sam, tirata con prontezza indietro, si colorò di un intenso rosso acceso. La ragazza si lasciò andare ad uno spontaneo urlo, ma tipico di qualcuno colto di sprovvista piuttosto che davvero spaventato. Il gatto corse via, fuggendo lungo il muretto mentre la ragazza rimase impietrita a guardare quel taglio farsi sempre più rosso. Ma prima di saltare in un qualunque giardino e sparire per sempre, il gatto si voltò a guardarla, quasi come a volerla vedere per un’ultima volta. Gli occhi sorpresi di Sam fissarono quelli ancora calmi del micio, nonostante quell'improvviso gesto violento.

    Un secondo luccichio passò negli occhi del felino e le sue pupille a spillo divennero due fari sotto la pioggia grondante che non smetteva di cadere. Sam spalancò gli occhi, senza parole. Poi lui corse via, lasciandola in balia di quello sguardo; non avrebbe mai immaginato quanto mistero si potesse nascondere dietro quelle pupille simili a spilli, eppure quel bagliore dorato che per ben due volte gli aveva attraversato l’iride la fece sbiancare ancora di più. Per un attimo si chiese se quello che aveva appena tentato di accarezzare fosse un vero gatto o se lei stesse vivendo uno strano sogno, simile a quello di cui parlava Shakespeare. Ma l'acqua faceva rumore e i suoi vestiti bagnati le cominciarono a farle provare il tipico freddo delle serate primaverili, così tanto che si convinse che, senza ombra di dubbio, quel luccichio era stato frutto della sua fervida immaginazione.

    Quando si guardò la mano, vide solo un graffio che le partiva dal polso e le attraversava tutto il pollice sinistro. Non era un grande taglio, ma non era neanche così poco profondo come si sarebbe aspettata, tanto che il sangue, che le si stava già spargendo per tutta la mano a causa dell'acqua, non accennava ad arrestarsi.

    D’un tratto sorrise e scoppiò a ridere. Come poteva prendersela con un semplice gatto che si era solo difeso da un possibile pericolo? Come poteva ancora chiedersi se quello che aveva vissuto fosse reale o solo finzione?

    Senza smettere di sorridere, s’avviò verso casa, senza accorgersi però che quei due occhi gialli la stavano continuando a fissare, nascosti dietro un cespuglio.

    3.

    Quando entrò in casa, la madre era già lì, ad aspettarla sulla soglia con un asciugamano in mano.

    Mio Dio, Samantha, ti avevo avvisato di prendere l’ombrello questa mattina!.

    La figlia le fece una smorfia; quando era arrabbiata o preoccupata per qualcosa la chiamava sempre con il nome per intero, quasi come se volesse sottolineare il suo stato d’animo in ogni sua lettera. Arrabbiata, arrabbiata, arrabbiata.

    La ragazza non aspettò che fosse la madre ad asciugarle i capelli, come avrebbe fatto di lì a poco, e le prese con uno slancio l’asciugamano dalle mani, pulendosi per prima cosa la faccia bagnata mentre si dirigeva in bagno. Grazie alla sua furbizia, che in anni di convivenza aveva ottenuto, riuscì ad entrare e a chiudersi a chiave prima che la madre potesse farle altre domande anche se la stava già seguendo, per esempio su che mezzo avesse utilizzato per tornare a casa. Infatti, odiava che la figlia entrasse in una macchina che non fosse la sua, perfino se si trattava di Seth, che tra l'altro stimava moltissimo.

    Con poca grazia buttò lo zaino a terra, che si schiantò sul pavimento con un tonfo. Sam rimase immobile ed in silenzio, maledicendo il fatto che si rendeva conto di aver fatto la cosa sbagliata solo appena l'aveva già fatta; sapeva fin troppo bene quanto i suoi genitori si arrabbiavano quando trattava gli oggetti con poca cura, ma in quel momento se l'era passato proprio dimenticato. Tuttavia, dalle altre stanze non giunse nessun rumore affrettato di passi, ma solo qualche tintinnio di piatti e bicchieri proveniente dalla cucina dove la madre stava pulendo, segno che nessuno si era accorto.

    Subito aprì l’armadietto del bagno e trovò con facilità ciò che stava cercando; l’acqua ossigenata e il cotone. In quel momento si rese conto di come quel piccolo scomparto fosse riempito di ogni sorta d’oggetto; dalle innumerevoli spazzole e pettini per capelli, dai trucchi di ogni genere delle donne ai rasoi degli uomini. Ma il padre aveva creato una parte dedicata solo ai medicinali, l’unica veramente in ordine.

    Dopo essersi sciacquata la mano con l’acqua corrente, si passò un po’ di cotone imbevuto nell’acqua ossigenata lungo tutta la ferita fino a che non fu sicura di averla pulita per bene. Troppe volte suo padre l’aveva avvisata che questi tipi di ferite erano anche quelle che trasmettevano più infezioni. Prevenire era certo meglio che curare, come diceva sempre.

    L’improvvisa e acuta voce della madre avvisò l’intero quartiere che in casa Elliot Susan stava chiamando sua figlia Sam. Lei, al contrario, cercava sempre di non gridare poiché sapeva che appena si alzava un po’ la voce, quel suono si propagava senza via di ritorno in tutte le pareti, causando un fastidioso effetto eco che rimbalzava da ogni parte, facendo poi sì che ogni vicino che incontrava le facesse ricordare quanto fossero odiose le sue urla. E quando la madre lo faceva, voleva sempre esserle lì accanto, pronta solo a tapparle la bocca.

    S'affrettò a prendere un cerotto e cercò come meglio poteva di coprire il suo taglio. Poi raggiunse gli altri in cucina, trovando suo fratello seduto a tavola e la madre che non aveva perso la sua solita espressione preoccupata.

    Che cosa hai fatto alla mano? chiese, mentre si appoggiava al tavolo.

    Alla ragazza le venne quasi da ridere; come aveva potuto pensare che quella donna non si sarebbe subito accorta del cerotto?!

    La ragazza abbassò lo sguardo e si andò a sedere.

    No, niente, oggi a scuola mi sono tagliata… cominciò a dire.

    E con cosa?. Quello sguardo indagatore era fin troppo profondo perché la figlia potesse sopportarlo ed evitò di guardarla in faccia, cominciando a giocare nervosamente con una penna.

    Con, con le forbici mi pare…stavo tagliando…una scheda… bofonchiò.

    Passarono alcuni secondi di silenzio tra la madre che cercava di ricostruire da sola la dinamica dei fatti per accertarsi che quel racconto corrispondesse a verità e l’ansia della figlia, che già si vedeva con le spalle al muro e una pistola puntata in fronte.

    Susan, perché ci hai chiamato?! esclamò d’un tratto William. Anche lui adottava la tecnica di chiamare la madre per nome quando qualcosa non lo soddisfaceva e ogni volta otteneva lo stesso effetto; tutti i discorsi iniziati in precedenza venivano lasciati in sospeso. Con grande sollievo di Samantha che, per una volta, avrebbe voluto abbracciare il fratello che, senza volerlo, le aveva appena salvato la vita.

    William, sto per fare un discorso serio… e senza aggiungere altro, la madre si sedette a sua volta a tavola, prendendo un foglietto di carta e recuperando con stizza la penna con cui giocava la figlia.

    Will sbuffò, già stufo, mentre Sam rimase con accortezza in silenzio, constatando che per quel giorno ne aveva già combinate abbastanza.

    Spero che non vi siate dimenticati che la prossima settimana è il compleanno di vostro padre… li rimproverò Susan.

    Sam fece un sospiro di sollievo; quando la madre aveva accennato ad un discorso serio, aveva subito pensato alla scuola, l’unica cosa che potesse preoccuparla in quel momento. Ma era comprensibile che in quella settimana ogni cosa passava in secondo piano, perfino gli studi. E come ogni anno, lei sapeva esattamente come comportarsi: accettare ogni condizione della madre-generale, non trovare impegni importanti per quei giorni e seguire ogni sua indicazione.

    Quest’anno faremo una piccola festa in famiglia, senza invitare troppe persone… continuò.

    Secondo sospiro di sollievo, questa volta anche da parte del fratello. Trovavano proprio insopportabili quelle grandi feste che riusciva ad organizzare la loro madre, stracolme di invitati che a volte neanche il festeggiato conosceva. Forse Susan si era resa conto, dagli sguardi di marito e figli, che erano tutto fuorché divertenti. Ma come poter biasimare quell'amore familiare che, proprio perché così forte, la spingeva sempre a ricercare il meglio per ognuno di loro? Non si disprezza certo un amore del genere, pensò Samanta. Fin quando non diventa morboso.

    Per il regalo… ma Will la interruppe bruscamente.

    Una bella cravatta! propose.

    Sam sorrise; suo fratello era più prevedibile di quanto immaginasse. Ogni anno la madre chiedeva in modo implicito, perché aveva già in mente il regalo, un parere in merito e ogni volta lui consigliava di comprare un’altra cravatta, così per arricchire ancora di più la bella ed inutile collezione che già possedeva.

    Direi che ne ha già troppe… gli rispose la madre con inusuale pazienza, cominciando a scarabocchiare qualcosa.

    Allora, che ne pensi di una bella pipa? chiese ancora.

    La madre lasciò in sospeso ciò che stava scrivendo per guardare il figlio come mai aveva fatto.

    Da quando tuo padre fuma?!.

    Will si stiracchiò, incrociando le mani dietro la nuca. Bè, potrebbe sempre cominciare….

    Un’altra occhiataccia di Susan lo avvertì che ora la sua pazienza stava per concludersi e senza rischiare oltre si decise che era meglio non provocarla. Samantha si fece avanti, capendo che quell’attimo di silenzio che si era creato era l’ideale per arrivare al punto della situazione.

    Tu che cosa avresti in mente? chiese.

    La madre sorrise. Troppo facile. Quella era l’unica domanda che si aspettava per poter esporre tutti i suoi piani senza che qualcuno potesse interromperla o, peggio ancora, contraddirla.

    Avevo pensato ad un bel weekend fuori città, almeno per farlo riposare un po’ dal duro lavoro quotidiano… spiegò piena di orgoglio.

    Sam smise di sorridere, così come William: di solito ad ogni viaggio che si organizzava, che si trattasse di pochi giorni o diversi mesi, tutta la famiglia era direttamente coinvolta, figli compresi. Di colpo, quella che assomigliava ad una buona idea, si trasformò in un irrimediabile disastro preannunciato.

    Susan si fermò di colpo, studiando i visi sconvolti dei figli.

    Cosa sono quelle facce? Non vi piace l’idea?! chiese lei, già offesa.

    No, cioè…sì…molto carina…però… cominciò Sam, balbettando con nervosismo.

    Però cosa? pretese ancora Susan.

    Dal tono e dall’espressione era facile capire che un altro passo falso e quella donna sarebbe scoppiata senza contenersi.

    Non sarà troppo costosa come vacanza in quattro?! concluse Will.

    Silenzio. La tensione sembrava aver toccato limiti inafferrabili, quasi come se volesse far esplodere la casa da un momento all’altro. Tutti trattenevano il respiro, senza preoccuparsi di quanto sarebbero riusciti a resistere. Ma poi, d’un tratto, quel sorriso ancora più felice e a dir poco sollevato della madre lasciò i ragazzi di stucco. La terrificante esplosione che sarebbe dovuta avvenire da un momento all’altro lasciò spazio alla gioiosa espressione della donna. I loro respiri tornarono a riscaldare l’atmosfera.

    Era proprio di questo che vi volevo parlare. Ci ho riflettuto molto e sono arrivata alla conclusione che forse siete troppo grandi per questo genere di viaggi….

    Questa volta, i sospiri di sollievo dei giovani diventarono smaglianti sorrisi a trentadue denti. Fatto che rese ancora più gaio il volto anche della madre, che divenne più comprensibile del solito. I due ragazzi si congratularono con lei per la buona idea che le era venuta come si facevano i complimenti ad un universitario che si era appena laureato. E Susan, ancora più orgogliosa, continuava ad esporre i tratti più importanti di quella vacanza come il suo gioiellino; quel weekend aveva l’aria di essere un regalo più per lei che per suo marito.

    Alla fine tutto era deciso, grazie a Susan che, senza ombra di dubbio, era già da parecchi mesi che ci stava lavorando sopra, prenotando l’albergo e creando ogni giornata a suo piacimento, sperando, anzi, pretendendo che quel tipo di programma sarebbe risultato più che gradevole anche per il signor Jack Elliot. I due sarebbero andati nella città di New Port, a godersi l’eleganza e la bellezza raffinata di quella cittadina che distava solo poche ore di strada da Portland. Ma nonostante non partissero per un viaggio estremo, casa Elliot sarebbe stata libera nel weekend.

    Sam aspettava da troppo tempo quel momento, ma anche il fratello minore non si sarebbe lasciato scappare un’occasione simile. Di certo non avrebbero potuto combinare qualcosa di grandioso i due fratelli, a causa della vista della madre troppo acuta per non essere in grado di individuare cose che non erano al loro posto al millimetro, ma una piccola festa non avrebbe fatto del male a nessuno. E gli sguardi d’intesa tra i due lasciavano già assaporare quel momento più di ogni altro.

    Improvvisamente, una fitta.

    Sam si strinse la mano ferita nell’altra mentre un dolore acuto ed insopportabile sembrava volerle trafiggere tutta la mano, come a tagliarla e a portarla via. Una smorfia di sofferenza non poté passare inosservata sul suo viso contratto.

    Cara, che ti succede?.

    Quando la ragazza alzò gli occhi, incontrò quelli preoccupati di Susan e quelli più curiosi di Will.

    No, niente…forse adesso dovrei andare a studiare…non manca troppo tempo all’esame… disse, alzandosi di scatto in piedi mentre la sedia strisciava sul pavimento.

    Sembri pallida… continuò la madre, cercando di vederci più chiaro.

    Quell’espressione non le piaceva per niente e Samantha cercò di allontanarsi in fretta; conosceva fin troppo bene quegli occhi e sapeva altrettanto bene che se non se ne fosse andata via proprio in quell'istante, poi la madre non l’avrebbe lasciata più fuggire.

    Ma sto benissimo! Tanto per papà è tutto deciso! finì sorridendo.

    Il sorriso più tranquillo della madre al ricordo dei programmi per Jack rese più calma anche Sam, che se ne tornò in camera chiudendosi la porta dietro.

    Ma che stava accadendo? Quel taglio non era affatto così profondo, si era disinfettata la ferita al meglio e aveva preso tutte le precauzioni possibili. D’un tratto quegli occhi così gialli di quel gatto che le aveva causato quel graffio le tornarono alla mente, ricreandole dentro di sé tutte quelle terribili sensazioni, come se quelle due pupille così nere a spillo la volessero ipnotizzare, portandola in un mondo che solo loro conoscevano.

    Ma poi si tranquillizzò; in effetti, quelle fitte potevano anche essere dovute all’azione dell’acqua ossigenata, che stava semplicemente facendo il suo effetto. Con estrema cura si tolse appena il cerotto, quel tanto che le avrebbe consentito di individuare il suo taglio. Ma era come prima; rosso e della stessa forma. Non c’era niente di cui preoccuparsi.

    O almeno così pensava.

    Sam guardò l’orologio. Le sei. Ormai erano due ore che era tornata a casa, ma non era riuscita comunque a studiare come avrebbe voluto. Quella ferita le provocava delle continue fitte, alcune più dolorose delle altre e il pensiero di quella pena che le torturava la mano in modo incomprensibile non la faceva concentrare. La ragazza si alzò come se avesse degli

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