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L’IO NUDO X è Y
L’IO NUDO X è Y
L’IO NUDO X è Y
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L’IO NUDO X è Y

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About this ebook

Principe di tutti i dubbi che sfociano nella malattia mentale del signor X è il quesito sull’io, sul senso più autentico dell’essere uno, domanda cui tanti prima di lui hanno tentato di dare una risposta; scrittori, artisti e filosofi, che si affollano nel suo delirio quali ideali compagni di viaggio, nell’angosciante iperspazio del detto e del non detto, dell’esplorato e dell’inesplorato in una gelida, fredda stanza d'ospedale, il quale ne racchiude in sé un'altra più lugubre e misteriosa.
LanguageItaliano
Release dateAug 6, 2015
ISBN9788869820618
L’IO NUDO X è Y

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    L’IO NUDO X è Y - Roberto Conte

    Kumar

    A mia moglie

    Vuoi

    comprare un uomo?

    Dagli una bandiera, una religione,

    un Dio; dagli simboli;

    carta colorata; un timbro: niente.

    Quell’uomo è tuo: fanne ciò che vuoi.

    Vuoi comprare uno spirito libero?

    Dagli verità, neanche allora sarà tuo.

    Lui sa che

    la tua verità è falsa.

    Roberto Conte

    Questo romanzo è frutto di pura fantasia.

    Ogni riferimento a persone esistenti

    o a fatti realmente accaduti

    è puramente casuale.

    O dolore, o dolore, il tempo si mangia la vita,

    e l’oscuro Nemico che ci divora il cuore

    cresce e si fortifica del sangue che perdiamo.

    C. Baudelaire (I fiori del male)

    Nota dell’autore

    In questo libro sono citati: Nietzsche, Dickens, Poe, Baudelaire, Voltaire, Dante, Orwell, Dostoevskij, Camus e molti altri scrittori, artisti e filosofi, contemporanei e non.

    Cercheremo di precisarne il maggior numero possibile direttamente nella trama stessa dell’opera.

    Se in qualche citazione dovessimo mancare di dare traccia dell’autore, non offenderemo il lettore con altre segnalazioni.

    Ringraziamenti

    Per la grande professionalità,

    l’aiuto medico psichiatrico,

    il sostegno morale, umano

    e la disponibilità disinteressata,

    desidero esprimere tutta la mia

    più sincera gratitudine

    al Professor Icro Maremmani e a suo

    figlio, Dottor Angelo Giovanni Icro Maremmani.

    SINOSSI

    L’affollato reparto di un ospedale, il primario e una lunga coda di dottori e infermieri che ne attraversano sprezzanti i corridoi, le squallide stanze tutte uguali in cui i letti si ripetono ossessivi e incolori, come in una triste tela pop. La fitta coltre dell’anonimato grava sulla misera esistenza degli assistiti, uomini e donne senza identità, senza età, senza storia. Senza un numero, come nemmeno nel peggiore lager nazista. Particolari delle loro vite ai margini della realtà emergono solo in rare e straordinarie occasioni d’incontro, svuotate di ogni sentimento di solidarietà o partecipazione, alimentate solo dall’ossessivo bisogno che nutre ciascuno di rivelarsi per riconoscersi e ricordarsi di sé. Dialoghi solo apparenti, un carnevale di maschere senza musica e senza allegria.

    Tra gli ospiti dell’ospedale incontriamo il signor X, un uomo che ha superato i cinquant’anni e un’esistenza costellata di ostacoli e difficoltà, momentaneamente arenatosi nella stagnante e grigia condizione della malattia mentale, invischiato nelle sabbie mobili della paranoia e dell’ossessione. Non è ospite il termine più adatto a definire un internato, un prigioniero quale X ben presto si scopre, a meno che non si intenda per ospite, come nella zoologia, la specie, animale o vegetale, a spese della quale vive un parassita. Sì: X è un uomo invasato, posseduto da un demonio che lo consuma da dentro, che riempie la sua testa di domande, che lo annega in un mare di opportunità, infinite e dunque perdute.

    Del suo passato X parla poco, della sua infanzia infelice, la miseria patita in giovinezza, lo sfruttamento minorile del lavoro, poi il fallimento di un matrimonio, la scomparsa di un figlio, l’alcool e la droga, il vagabondaggio, l’abbandono delle convenzioni sociali, il rifiuto del mondo; la possibilità di ricostruirsi una vita accanto a un’altra donna lo illude per un po’, ma è un equilibrio instabile, e X precipita ancora, forse inesorabilmente, nel baratro della dannazione. Vive ormai in una dimensione contesa tra la verità e la menzogna, condividendo lo spazio ristretto delle sua stanza e della sua mente con Y, in un’intimità talmente profonda da dubitare della sua stessa esistenza, del suo essere altro da sé. Principe di tutti i dubbi che soffocano la libertà del signor X è infatti il quesito sull’io, sul senso più autentico dell’essere uno, domanda cui tanti prima di lui hanno tentato di dare una risposta; scrittori, artisti e filosofi si delineano quali ideali compagni di viaggio, nell’angosciante iperspazio del detto e del non detto, dell’esplorato e dell’inesplorato.

    Non è chiaro da quanto tempo X sia rinchiuso tra le mura dell’ospedale, né è chiaro per quanto ancora dovrà sopportare le angherie del personale medico che vi lavora, che riversa sugli ospiti della struttura, e su X in particolare, le proprie frustrazioni; non c’è pietà per la malattia, anzi indifferenza, peggio ancora, insofferenza; assistiamo a una lotta continua tra la gelida razionalità e la sorda cecità dei percorsi terapeutici, indifferenziati e massificati, e il bisogno specifico di ogni anima in cura, recalcitrante a uniformarsi al gregge, desiderosa solo di ritrovare se stessa e mantenere la propria personalità. La battaglia di X, in questo senso, non è solo quella di un uomo che debba guarire dalla depressione, risalire dalle ripide della schizofrenia paranoide, ma la battaglia di chi voglia ribadire la propria diversità in una società abulica, alienante, anestetizzante.

    Introduzione

    Non è una storia facile da raccontare, come non lo è, del resto, la storia di nessun essere umano. Ma forse anche la storia di un animale, di una pianta, di un sasso, di un fiore, sarebbe tutt’altro che semplice da narrare. Forse questa non è neanche una storia, è una storia sbagliata. Anzi, ad essere sinceri, questa è proprio una brutta storia, ed è una storia vera, ecco perché ci asterremo dal comunicare il nome del nostro personaggio.

    In questa brutta storia, proveremo ad essere il più ermetici ed esemplificativi possibile, per quanto non sia facile spiegare con le parole: i drammi, le tragedie, le morti interiori, le vite vissute, quelle non vissute, e tutto quanto comporti un’esistenza umana nella sua complessità.

    Non ci soffermeremo neanche, come si fa di solito, su dettagli tipo i nomi degli alberi, i colori delle foglie – se non incidentalmente – o sui colori e le fogge degli abiti dei protagonisti; e nemmeno staremo a descrivere minuziosamente la bellezza, o la bruttezza, dei paesaggi. Non ci soffermeremo quindi minimamente sull’esteriore.

    Tenteremo soltanto di spiegare, nel migliore o nel peggior modo possibile – questo lo decide chi legge: chi scrive pensa sempre di aver fatto bene – l’interiorità: il travaglio, la sofferenza, il peccato, il dolore, la pena, il distacco dalla vita e un altro sacco di cose senza parole e senza senso che abitano l’anima di un essere umano. Un essere caduto nel vortice della depressione, una depressione dalla quale forse non riuscirà più a far ritorno, e che lo condurrà verso il declino ultimo, verso le ripide della schizofrenia paranoide, all’interno del tremendo e perverso vortice del delirio della malattia mentale che porta con sé l’esperienza della colpa e dei mondi della follia.

    Per dovere di cronaca, dobbiamo iniziare col dire che la vita del signor X non era stata mai né semplice né normale, anzi la non normalità era diventata per lui normalità, sempre ammesso che esista un concetto di normalità condiviso da tutti.

    Ne aveva passate tante il signor X, tra delusioni e tradimenti, insulti, vagabondaggi e sbronze, oltre ad altre cose peggiori. Certo, peggiori per noi, per la normalità.

    Era rimbalzato qua e là nel mondo come un pallone, e più rotolava più prendeva velocità, e più veloce andava più sentiva l’irresistibile forza della gravità, come quando si corre in discesa e si capisce che le gambe stanno per cedere, che fermarsi di colpo può comportare una caduta catastrofica, irrimediabile, per quanto fermarsi in altro modo non sia possibile. Così il signor X capiva che, prima o poi, sarebbe caduto, andandosi a schiantare chissà dove, ma continuò a precipitare per il mondo col cuore in gola, finché poté, finché la morte glielo permise.

    La vita del signor X, come quella di tutti gli uomini, tolta qualche non trascurabile tragedia infantile che racconteremo, o racconterà lui stesso strada facendo, era stata fin dalla più tenera età una lotta per la sopravvivenza, che è, come sappiamo, una lotta impari, senza tregua, una sentenza ingiusta e senza appello. Da qui, forse, la sua idiosincrasia verso le autorità, le gerarchie, la giustizia falsata, le verità-menzogna e tutti gli orpelli della società civile. Il fatto in sé non è così eccezionale, se non che per il signor X adesso era subentrata la stanchezza della lotta, e, come il guerriero ha bisogno di rimettersi in forze dopo una lunga battaglia, anche lui ora sentiva questa necessità imminente e senza scampo adombrare la sua vita, schiacciarlo al suolo. E, come è vero che il giorno e la luce lasciano il posto alla notte e alle tenebre, così era vero che adesso tutte le energie lo avevano abbandonato, nel corpo come nella mente, per far spazio ad un logorante esaurimento fisico e morale, senza speranza, anche questa a lungo andare persa e dimenticata, confusa nella nebbia di quella necessità.

    Ora, se dovessimo per forza di cose classificare il signor X, catalogarlo, per inserirlo in uno schema, o appunto in una categoria di uomini in modo da rendere più comprensibile la sua natura, potremmo dire che egli era, o meglio, si sentiva un apolide nel mondo, e nello stesso tempo sempre ai suoi antipodi; e non solo nel e del mondo che lo circondava e che conosceva, nel quale era ristretto e costretto, ma un apolide e agli antipodi persino di se stesso uomo, e di tutto il creato, sia quello a noi conosciuto che quello a noi sconosciuto, sia nell’interiore che nell’esteriore. Si sentiva agli antipodi dell’universo – uomomondo – in tutta la sua complessità; ma è praticamente impossibile e sconsigliabile tentare di addentrarsi con le parole in quella che è la vera essenza della psiche del signor X, più di quanto abbiamo già tentato di fare, senza rischiare di imbatterci in inopportuni fraintendimenti e sviste madornali, tante sono le contraddizioni che caratterizzano il nostro personaggio. Dunque, diremo ancora e solo che il signor X era un essere selvatico, non un selvaggio, perché bene o male era cresciuto e si era adattato al modo di vivere imposto dalla società, per quanto avversasse e aborrisse ogni tipo di autorità e di imposizione. Egli era rimasto un selvatico nell’anima, nello spirito. Sempre a disagio in mezzo ai suoi simili, era diffidente verso la specie umana, verso le sue leggi, al suo modo di pensare e di vedere – o di non vedere – il mondo, la vita, con tutte le cose annesse.

    Era incompatibile con le gerarchie tutte, nessuna esclusa; non ne sapeva e nemmeno ne capiva il motivo, e anzi non si poneva affatto il problema, né si chiedeva se lo fosse, un problema; era fatto così e basta, non gliene fregava un cazzo di tutte quelle loro scartoffie, né capiva il senso della loro burocrazia, tanto meno se ne interessava, anzi se ne teneva bene alla larga; non aveva il senso del possesso, né lo comprendeva; e non capiva perché il denaro, dei semplici foglietti di carta, avesse così tanto valore.

    Era profondamente convinto che nulla potesse davvero appartenere a qualcuno, tanto meno la terra, nemmeno la terra che sarebbe servita per ricoprire la tomba, di quel qualcuno. Insomma, tutto quello che fa girare il mondo gli risultava estraneo. Ma lui in quel tempo era felice così. Punto.

    Un giorno si mise a pensare di essere fatto così per un qualche errore di sorta a lui sconosciuto, cominciò a pensare di essere nato in un’epoca sbagliata, forse uno scambio di destini si era perpetuato nel limbo; altre volte pensava che l’errore fosse lui, e basta, e non ci fosse altro da aggiungere. Ecco perché si sentiva sempre così solo e solitario, e a disagio. Oppure era davvero pazzo, ma di una pazzia ancora sconosciuta, non ancora catalogata. Così pensava e aveva pensato, fino a che in una delle sue tante cadute – quelle non più giovanili, quelle di quando le carte dell’anagrafe già incominciano a sbiadire e i capelli a imbiancare, quelle di quando è difficile, stando davanti allo specchio guardando una vecchia fotografia, credere che quella figura che abbiamo di fronte sia la stessa che vediamo impressa nella foto – un medico gli disse che quel suo essere fatto così dipendeva da una malattia, da qualcosa che non funzionava, o comunque che non funzionava più come avrebbe dovuto, nel suo cervello.

    Una lesione, spiegò il medico.

    Non funzionava più, o non aveva mai funzionato? era adesso il dubbio di X.

    L’ultima caduta fu quella peggiore, ecco in parte ciò che ne seguì: pian piano prese ad estraniarsi da tutto e da tutti; preferiva star solo con se stesso che avere vicino qualcuno, chiunque fosse; e men che meno gli piaceva la ressa e la gente che si accalcava nei mercati e nelle piazze, o nelle feste di paese; li vedeva, cenciosi e maleodoranti, vendere e vendersi al miglior offerente, e anzi più che non piacergli, ne provava paura, o disgusto, quando non addirittura ribrezzo, terrore, e vera e propria repulsione e nausea.

    Il signor X cominciò a sentirsi a suo agio solamente quando restava solo, o solo con i libri, libri scritti da persone che gli somigliavano, così almeno sembrava a lui, perché, come diceva Voltaire, quei libri gli dicevano quello che già sapeva. Ma succedeva che, al tempo stesso, non riuscisse a star solo più di tanto, e bastasse un niente perché, da un momento all’altro, si sentisse come una fiera in gabbia, un lupo nella tagliola, e costretto da una forza sconosciuta a uscire dal suo eremo per ubriacarsi, per mischiarsi alla gente – o meglio, a gente sfortunata e fuori di testa come lui – o a compiere atti vandalici senza senso, solo per scaricare quella rabbia di bestia, tenuta troppo a lungo in cattività. Si trattava di atti che lo riportavano indietro nel tempo, al suo rancore represso contro gli esseri umani, contro ogni autorità e armento, contro ogni gerarchia e gregge. Atti dei quali poi, naturalmente, si pentiva e si vergognava molto, e a lungo, espiando la colpa nel dolore e nella solitudine estrema. Ma in quei momenti, quando l’eremo gli diventava insopportabile, gli sembrava che a star solo gli potesse capitare chissà quale tremenda disgrazia, qualcosa di malvagio, di indefinibile e spaventevole, qualche cosa peggiore della morte stessa. La solitudine e il silenzio, insomma, erano diventati sì una condizione necessaria per la sua vita, ma di contro erano anche la sua più terribile condanna. Neanche lui riusciva a capirci nulla delle sue mille contraddizioni, né delle altrettante che lo colsero in quel suo divenire, così, all’improvviso, alla sprovvista, per quanto ne fosse allora, ancora cosciente.

    O forse era sempre stato così? Solo che prima era giovane e ora gli sembrava di avere mille anni?

    Alle volte diceva di sé: Io è soltanto una contraddizione che cammina; io è un cadavere ambulante nel cimitero dei vivi. Oppure: Io non esiste. O ancora: Io è solo un ponte, qualche cosa che deve essere ancora, e ancora, all’infinito superato. Insomma: follia, per noi normali.

    Bisogna dire però, ancora per dovere di cronaca, che il signor X nella sua giovinezza aveva avuto molti amici, aveva amato stare insieme ad altra gente, andare alle feste; e più che mai gli erano piaciute le donne e, essendo un tipo piuttosto timido ma di bell’aspetto, il più delle volte ne veniva sedotto, attirandosi perciò, inevitabilmente, l’invidia dei nemici e quella degli amici. Perciò il signor X non mancava mai di avversari sconosciuti: botte! Sassate! Occhi neri e lividi.

    Era innamorato della natura, del mondo e della vita; dimentico e disinteressato di ogni politica e di ogni potere, godeva della vita, dei suoi istanti, di ogni attimo, attento a che nessuno di essi andasse sprecato, padrone del mondo, padrone di niente, come succede agli artisti, forse, e a pochi altri. Ecco, questo andava precisato per rispetto e, diciamo così, in difesa del signor X.

    Ma quei tempi erano oramai lontani anni luce da ciò che era diventato, neanche li ricordava più, e, se capitava che qualche cosa riaffiorasse timidamente di quando in quando nella sua memoria malandata, scacciava via quei ricordi con tutta la sua forza, perché aveva preso a pensare che fossero i ricordi di qualcun altro.

    Adesso X era un animale solo e solitario, si sentiva sempre braccato, sempre in pericolo, sempre in fuga dagli altri e da se stesso; anche il tempo gli stava sempre alle calcagna: era sempre in ritardo, o sempre in anticipo, senza sapere da cosa o perché.

    Chi era?

    Cosa era diventato? Non lo sapeva, non lo sapeva più: chi era X?

    Oramai pellegrino da un ospedale all’altro, era forse folle? O solo più intelligente?

    Chi può dire con esatta certezza: Io sono questo! oppure: Io sono quell’altro!…?.

    Ma chi è poi quello che noi e gli altri normali chiamiamo io?

    Questo X non lo sapeva più, lo aveva dimenticato. Aveva in testa tante domande che lo tormentavano e alle quali non sapeva rispondere. La più insistente tra tutte era: "Mio padre dice: figlio. Mio figlio dice: padre. Chi è io?".

    Questa domanda lo tormentava da troppo tempo: chi è io?

    Questa domanda era diventata per lui una macabra e arcana bestia che sembrava cibarsi delle sue carni e di tutte le sue energie vitali, per rinvigorirsi e poter perpetuare in eterno quel tormento; e gioire all’infinito sopra tutto lo sfacelo, la sofferenza e la miseria che inevitabilmente, la condizione umana spinta oltre la soglia del dolore e della disperazione reca in sé.

    Dolore.

    Ecco chi era adesso X. Ecco cos’era diventato.

    Da troppo tempo alienato dal mondo degli uomini e destinato a vagare per deserti di psicofarmaci e stanze da elettroshock, X era diventato dolore.

    Adesso, dal suo ultimo ospedale, vedeva tutta la sua vita come un unico, grande, immenso atto di penitenza e di espiazione, non in termini religiosi o di costume, no: il suo spirito doveva espiare le colpe inconsapevoli di un mondo intero, di un illimitato universo, dal quale per giunta, lui si sentiva escluso.

    Da un canto X adesso era diventato, si sentiva un prescelto, un eletto.

    Lui era il colpevole

    L’espiazione della colpa doveva avvenire per mezzo del suo sangue, doveva soffrire di dolori atroci anche per colpe che altri avevano commesso e continuavano a commettere, per le quali non avrebbero mai scontato la pena, perché ignaro il mondo stesso delle loro malefatte, ignaro il mondo che le loro fossero colpe. Non importava se commesse dagli Dei o dagli uomini. Questo era diventato il suo compito, lo scopo ultimo della sua esistenza: espiare le colpe.

    D’altro canto e nel medesimo istante, era per se stesso qualche cosa di terribile e immondo, di ignobile, che non aveva nessun diritto di essere lì, di vivere insieme agli altri, di respirare; nessun diritto di esistere e vivere nel mondo degli uomini; si sentiva come qualcosa di malsano e repellente che andava evitato, sradicato e distrutto, come si distrugge una cosa ripugnante, disgustosa e cattiva. Era un cancro, un parassita che striscia da una stanza all’altra della casa, un fungo velenoso che si mimetizza tra quelli buoni da mangiare, la gramigna in un giardino di frutti freschi e saporiti. La colpa da espiare e il disprezzo di sé erano due facce di una stessa medaglia, due profili di uno stesso volto. Tutto questo, però, non era sentito da lui come bene, o come male; queste parole, adesso, bene e male erano vuote, prive di ogni significato, erano cose lontane, inutili e senza senso. Tutto era racchiuso, ora in uno, ora in mille, ora nel niente della sua insensata esistenza; i due profili si riunivano e si saldavano, ora si disgregavano in milioni di pezzi, ma la medaglia restava la stessa, comunque la si voltasse.

    X era andato oltre. Aveva oltrepassato la soglia dell’assoluto, e adesso capiva, o almeno credeva di capire, quale deserto di dolore e sofferenza, umana e divina, doveva essere attraversato per svelare il senso, fin’ora sconosciuto, che si nascondeva dietro quelle poche parole di cui aveva cercato per lungo tempo il significato: La conoscenza di tutte le cose che è posta al di là del bene e del male.

    Naturalmente la vita del signor X non è tutta racchiusa in queste righe. Starà a lui stesso, per quanto gli sarà possibile, dare un quadro più completo e particolareggiato della sua triste e amara esperienza in questo mondo. Noi ci limiteremo soltanto ad ascoltare, e a fare da tramite quando a lui sarà necessario.

    ::::::::::::::::::::::::::

    « Comunque parlino di me i mortali…

    io sola… rallegro con la mia

    divina potenza

    Dei e uomini ».

    Erasmo da Rotterdam

    (Elogio della Follia)

    L’ospedale

    «Da che parte di mondo arrivi, amico mio? Quasi passavo oltre e non ti riconoscevo, tanto sei brutto e trasfigurato. Quali orrori ti hanno visto in scena? Vieni forse da là, amico mio? È così, vero? Ah, l’ho azzeccata! Tu arrivi or ora da quei luoghi. Ma perché ti copri? Mostrami ancora il tuo viso, che io veda come ti hanno ridotto, lo sai che noi siamo curiosi; orsù, mostrami la tua bruttezza… Ahi! Ahi! Coprila, coprila, ahi! Che male, che male!!! Ah! Ah! Ah! Perdonami se ora rido del tuo volto sfigurato, ma tanto è che non ne vedevo altri che il mio, così che potevo ridere solo di me stesso. Orsù, ridi, ridi anche tu, ridi del tuo volto decomposto nell’orrido che conosciamo bene. Perché ora piangi? Forse son stato troppo rude? Ora ascoltami attentamente: tu vieni da luoghi lontani e oscuri, che io conosco bene.

    Vuoi anche tu perdere cercando? Non è forse meglio perdersi trovando?

    Dimmi: non fu forse il morso di una svelata serpe velenosa la causa di questa tua trasfigurazione orrenda? Conosco il veleno che ti ha iniettato, lo stesso veleno che tu ieri accettasti di buon grado. Sono esperto di serpi e di veleni, quindi puoi star tranquillo: quello che ti ha iniettato la serpe non è mortale, di contro è dolorosissimo, agisce sulle nostre regioni sconosciute intossicando tutti i punti interrogativi, gli intervalli e le stanze di riposo. Te lo ritroverai nelle feci quando la smetterai di piangere e apprenderai la risata intervallata. Presto questo siero micidiale altro non sarà se non sterco! So bene come colpisce veloce e se ne scivola via. Troppo a lungo vivesti con serpi velenose al fianco: non vedi il tuo viso? Pieno di gonfiori e bitorzoli grossi come noci, con guance così scarne che fanno trasparire denti e molari, con occhi che sembrano voler saltar fuori dalle orbite; e quel colore, giallognolo e grigiastro, credi che non sappia che si è deformato in tal guisa dal tuo vomitare e vomitare e tanto ancora vomitare?! E del tuo vomito conosco la sorgente, amico mio, so quale nausea stomachevole si prova quando si è preda al grande disgusto per l’umanità Tu ora sei preda del grande disgusto, ma passerà, vedrai; ora anche il tuo viso si è disteso, presto passerà. Vorresti ruggire? Fa’ pure se t’aggrada, ma io t’avanzo a tempo quel che so: ruggire fa bene, e ruggire forte fa meglio ancora, poiché ruggire vuol dire allentare la tensione dell’arco che troppo s’è teso, e troppo a lungo, e rischia di spezzarsi in due o di scagliare inavvertitamente la sua freccia in un’errata direzione. Dunque, ruggire deve solo chi ha un arco troppo teso, e non ha nuovi bersagli. Tutto il resto farebbe invece meglio a tacere, in special modo coloro che ancora non possiedono neppure un arco. C’è sempre un arco troppo teso, c’è sempre un tuonante ruggito che fa eco al nostro uguale dolore, al dolore lacerante che arreca il grande disgusto! Or che t’ho detto questo, ti vedo sollevato e molto meno sofferente, anche il tuo viso accenna un leggero risolino di buona salute. Adesso me ne torno al mio deserto, là stanno anche il mio arco e le mie frecce; là nella solitudine del mio deserto, a tendere l’arco e ruggire tonante».

    «Ecco come l’orrido mi si mostrò, ecco come il malvagio mi sbranò le carni. L’occhio suo, orripilante, di me se la rideva; di me, inerme vittima d’olocausto, a schernirmi m’azzannava, qual pasto orrendo fu!

    Buio, e più nero del buio, più tetro, vagava per mia sorte in me: l’oscuro. Tronfio colpiva, a lacerare là dove la ferita più sanguinava.

    Quante spade ho già spezzato? Mai di giusta tempra. La sua armatura è speciale, metallo molto raro, chi sa la giusta lega?

    Orsù, ch’io pure sia alchimista al fine, e fabbro che forgia con la nuova simbiosi, spade di giusto taglio per sconfiggere il maledetto che scalpita, per trapassargli il cuore.

    Fugge la morte: è dunque così vile? Paurosa la vidi in fronte all’oscuro, e timida, che sgusciò via strisciando. Pur lei lo teme? Il macabro digrigna i denti suoi affilati e lei se la fugge.

    La vita si imbelletta: pizzi e merletti in suo onore, ed un buon pasto per il suo piacere: io, noi.

    Che scrisse mai quel poeta? Che sarà mai il cuore di un uomo?. Così scrisse? Ma che ne sa la carta di risposte? La carta sparisce, e qua si domanda al vento. Alte montagne di roccia dura, e di ghiaccio: sono solo! E soltanto la mia stessa eco risponde: Sono solo! Sono solo!

    Ch’io possa cavalcare il tuono, e stretto in pugno il fulmine, colpire in petto tutti i ghiacciai! Sciogliersi in lacrime già li vedo, innamorati d’un colpo dell’immensa luce bruciante: colpo d’un fulmine!

    Si grida a squarciagola e si finisce poi per perdere la voce: sono solo!

    Solo la eco mi risponde: Sono soloo… Sono soloo…

    Oh me solitario, al fondo del pozzo più profondo avvezzo, e al buio, e ai suoi fantasmi…».

    Mi svegliai come da un sonno lunghissimo e senza sogni, allungai la mano verso il comodino per appoggiare il libro sul quale mi ero addormentato la sera prima, mi era rimasto posato sul petto. Il libro cadde a terra. Ma ancora intontito non ci feci caso. Come mia abitudine la mattina, feci per prendere gli occhiali, ma non trovai il comodino, il mio braccio cascò nel vuoto. Restai perplesso; nel torpore del sonno, solo dopo qualche minuto realizzai di non essere in casa mia e alzai gli occhi al soffitto: nella nebbia scorsi un grosso lampadario che penzolava, attaccato ad un grossolano rosone di gesso, intagliato a foglie d’edera, o così mi sembrava; alla mia destra c’era una piccola finestra con delle sbarre di ferro panciute; e aderente alla parete dirimpetto c’erano un tavolino, due sedie e degli stipi d’alluminio, tre o forse quattro. Mi girai e finalmente trovai il comodino sul quale stavano posati gli occhiali, li inforcai aspettando che la nebbia del sonno e della miopia si diradassero, attesi finché la vista non arrivò, limpida, senza scampo; e tutto mi si fece più chiaro e concreto.

    Girandomi di fianco vidi che accanto al mio letto ce n’era un altro dentro al quale scorgevo una sagoma: si rigirava nel sonno brontolando e si dimenava, ora di qua ora di là, grattandosi la testa. Dunque, si trattava di un sogno! Stavo sognando. Tenni occhi e orecchie ben spalancati, sperando che da un momento all’altro nella mia stanza da letto si materializzasse il trillo insopportabile della vecchia sveglia arrugginita, e mia moglie mi chiamasse come ogni mattino: «Vieni, ti ho preparato il caffè!».

    Nell’attesa della sua voce guardai meglio quello strano individuo che mi dormiva accanto. Come sono strani i sogni ricordo che pensai.

    Lo conoscevo? Ora che il torpore del sonno svaniva e cominciava a dileguare le tenebre che mi offuscavano la mente e i ricordi, potevo metterlo bene a fuoco, ma non riconobbi altro che un uomo che dorme, solo un uomo che dorme grattandosi la testa. Guardandolo meglio, però, fui presto preda a uno straniante sgomento, sentivo qualche cosa che si agitava nel mio stomaco, nel mio più profondo. Finché da un lampo, da un’intuizione terribile e da un fulmine, venni scosso fin nei più reconditi recessi dell’anima, fin dentro alle sue cavità più inesplorate: era lui, Y, ora ne avevo la certezza. Quanti anni erano passati da che non lo avevo più visto? Tre, quattro, cinque? Che gli era saltato in mente per venirmi in sogno adesso, così, d’un tratto, dopo tanto tempo? Cosa voleva da me, ancora?

    Y aveva circa la mia stessa età, ma al contrario di me era un uomo di bassa statura, tozzo, brutto di aspetto, aveva dei modi di fare rudi ed era rozzo nel linguaggio. Però era intelligente come pochi, un gran rompiballe alle volte, ma intelligente. Questo era tutto quello che ricordavo di lui, oltre al fatto che era pazzo da legare. Sì, pazzo da legare, questo lo ricordavo bene.

    Come era vivido in quel sogno il ricordo di Y. Era solo un sogno, no? O no?!

    L’inserviente era una grassona con la voce da tenore, un camice che le scoppiava sulle tette enormi, due tette che sembravano volersene saltar fuori e andar per conto loro ad ogni suo passo; e aveva due occhietti piccoli e tondi, di un marrone scuro scuro, che rispecchiavano tutta l’insofferenza per la ritualità dei gesti meccanici e le parole uguali che era costretta a ripetere ogni mattino.

    Entrò nella stanza urlando: «Colazione! È ora di alzarsi dal letto fannulloni. Svegliaaa!». Quelle urla mi distolsero dal piacevole torpore che entra in noi, nei sogni, risvegliarono il mio sgomento e mi fecero fare come un balzo all’indietro, come mi fossi accorto di un improvviso pericolo: una serpe, uno scorpione. Poi mi giro e la vedo.

    Che cazzo di balena!. Mi rilasso, rientrando in me; ma mi sentivo ancora agitato e nervoso, e ancora ricordo che gridai: «Caffè!».

    La guardavo in faccia smarrito e incredulo: cosa mi stava succedendo? E con tutto il fiato e lo sgomento che avevo in corpo le gridai ancora sul muso: «Caffè!». Con quel grido si dissolse l’ultima speranza che stessi ancora sognando.

    Quella specie di tricheco mise due bicchieri di plastica sul tavolino, con una soluzione che tutto era meno che caffè, aggiunse una confezione di plastica che conteneva due fette biscottate ammuffite e una minuscola vaschetta di marmellata di prugne, poi voltò le spalle e uscì dalla stanza con la stessa soddisfatta insofferenza con la quale era entrata.

    Forse la balena è sorda! pensai alzandomi dal letto e annusando il contenuto di quelle bevande. Oppure non sa cos’è il caffè.

    Mi sentivo molto stanco, la testa era pesante, le gambe sembravano due pezzi di legno marcito, e poi avevo freddo, un freddo infernale. La sirena di un’ambulanza mi ronzava ancora nelle orecchie, e non capivo perché.

    Presi la busta con le fette biscottate e la buttai nel cestino dell’immondizia, allontanando la marmellata dal tavolo con una brusca manata, poi, afferrati i due bicchieri, mi avvicinai all’altro letto; ne posai uno sul comodino del mio vicino e ingurgitai un sorso di quella mistura.

    «Merda!» imprecai guardandomi attorno, prima di sputare quell’intruglio sul pavimento.

    L’ospedale non era cambiato, essenziale all’ultimo stadio: il tavolino, le sedie, gli stipi, il lampadario. Tutto era al suo posto, come tanti anni prima, ma non avrei saputo stabilire con esattezza quanti. La cosa strana era che anche gli inquilini della stanza erano gli stessi; io e Y, ancora lì, come se tutto quel tempo non fosse mai trascorso, o si fosse fermato; come se non fossimo mai usciti da quell’ospedale e tutto il resto fosse stato solo un sogno, un sogno al contrario. Come ci sono arrivato? Chi mi ha portato qui? Forse sto ancora sognando! Perché non riesco a svegliarmi? mi chiedevo incredulo, pretendendo dalla mia memoria una risposta che non poteva darmi.

    Da qualche parte nella confusione della mia mente ci speravo ancora. Non era la prima volta che mi capitava di sentirmi in quel modo, così strano, così estraneo e straniero, fino al punto da arrivare persino a chiedermi se per caso non fossi morto, e quello che sembrava la mia vita non fosse altro che un sogno, un sogno post mortem forse, ammesso che i morti sognino. O forse era solo l’oblio della morte, e basta. Oppure si trattava di un’altra vita? Di certo non la mia; no, no di sicuro; o era un’illusione nell’illusione? Insomma, era qualcosa che non mi sapevo spiegare, qualcosa di indefinibile e perverso. Era come un vento minaccioso che mi soffiava in faccia per qualche istante e poi subito si assopiva; era una sensazione difficile, impossibile da definire con le parole, per quanto di tanto in tanto mi si facesse presente: mi guardavo vivere come guardassi qualcun altro, intanto che mi chiedevo: Ma sono io quello lì? Allora vuol dire che sono ancora vivo, ma cosa c’entro io con tutto questo? Chi è tutta questa gente?.

    Continuavo a rimuoverla, questa sensazione, a dimenticarla, pensando che fossero soltanto scherzi della mente, cose normali che possono capitare a chiunque, pur sapendo nel profondo che così non era; ma non avendo altro modo per ingannare me stesso, mi tenevo ben aggrappato a quelle scusanti, che sapevo essere infantili, ma che al tempo stesso mi tranquillizzavano, e mi tenevano su finché tutte le cose non tornavano al loro posto.

    Perché no? Sicuro! pensai, potrei solo aver sognato per tutto questo tempo, e adesso stare ancora sognando, chissà…. Sfinito da quelle domande senza risposta, mi passai una mano tra i capelli come per dire: Sia quel che sia, ormai son qua. Se è un sogno dovrò svegliarmi prima o poi.

    Non era la prima volta che mi capitava di occupare quella stanza, la stanza per i malati di mente; i medici definivano il mio male: depressione maggiore ossessiva compulsiva con disturbo bipolare. In realtà io preferivo chiamarlo più semplicemente nevrosi; una cosa altrettanto grave, va bene, dicevo tra me, ma nevrosi e basta. Questo nome sulla mia malattia mi tranquillizzava, mentre quell’altro mi angosciava, mi faceva sentire perso, irrecuperabile. Anche se sapevo con assoluta certezza, come solo con l’intuizione si può essere certi, che la mia malattia, quella vera, quella che mi aveva derubato della vita, della mia energia e sceso nell’Ade, nel mio inferno ghiacciato, aveva un altro nome, molto più semplice, molto meno inquietante, ma proprio per ciò molto più subdolo, capace di trarre in inganno i medici e il paziente stesso sulla sua gravità; si chiamava semplicemente: trauma o stress post-traumatico. Quest’ultima espressione era poi l’equivalente di trauma, solo che post veniva usato se c’era di mezzo una delle tante, inutili guerre inventate; era stato coniato apposta e da poco tempo quell’aggettivo, post-traumatico, come una specie di specchietto per le allodole, utile a riflettere l’immagine che l’opinione pubblica, il gregge, le dozzine, avrebbero dovuto guardare. In passato i disturbi mentali di quelli che tornavano dal fronte, dalla guerra statale, avevano altri nomi, certo più inquietanti e meno raffinati; questa definizione invece indorava la pillola, per quanto la pillola restasse amara per chi avesse dovuto mandarla giù. Ma non per questo io le

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