Dodici Giugno: Un'indagine dell'ispettore Sangermano
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Dodici Giugno - Marco Di Tillo
Marco Di Tillo
Dodici Giugno
Un’indagine dell’ispettore Sangermano
arkadia
© 2014 arkadia editore
Trattandosi di opera di fantasia, qualsiasi riferimento a cose o persone
realmente esistenti e da considerarsi puramente casuale
Collana Narratori Eclypse 47
Prima edizione ottobre 2014
isbn 9788868510619
Arkadia Editore
09125 Cagliari – Viale Bonaria 98
tel. 0706848663 – fax 0705436280
www.arkadiaeditore.it
info@arkadiaeditore.it
1
Un velo di disordinato fumo grigio saliva dalla valle sottostante, svolazzando sopra la strada bollente. Valentina evitò a fatica il gatto grigio che le aveva attraversato la strada all’improvviso, prima di fermarsi e parcheggiare il motorino sul marciapiede.
Sistemò il casco jet nel portapacchi e poi prese a camminare sul polveroso sentiero, mentre con il palmo della mano stringeva forte il sacchetto di plastica nascosto dentro la tasca dei jeans.
Quella sera aveva con sé qualcosa di molto speciale. Camillo, compagno delle medie, era uno di cui si fidava e che finora non gli aveva mai mollato una fregatura.
«Non esagerare, però», le aveva detto qualche ora prima il pusher, con un curioso atteggiamento protettivo. «Non la prendere tutta insieme, che questa ti può fare male sul serio.»
In effetti la ketamina lei non l’aveva mai presa ed era praticamente l’unica sostanza che le mancava poiché, a quel punto, le aveva oramai già provate tutte.
Stavolta voleva fare le cose per bene, da sola. Dovevano essere lei e la roba, senza bisogno di nessun altro. Pensava infatti che non fosse proprio il caso di condividere niente. Non più. A quattordici anni, la canna faceva il giro di tutte le labbra degli amici, per poi ritornare indietro e dopo ricominciare il giro, finché la cicca non si spegneva. Ma ora l’esperienza doveva essere personale, da condividere solo con se stessa. Insomma, un’esperienza da single.
Le piaceva questa cosa del single, se la ripeteva spesso: «Esperienza single.»
E poi rideva, sempre da sola.
Imboccò la stradina che portava giù verso la valletta dei cani. Un paio di labrador presero ad abbaiarle contro, subito imitati dal nevrotico chihuahua trattenuto a stento dallo striminzito guinzaglio color rosa pallido.
«Buono, Ciccio. Non fare così!», disse la proprietaria del cane, che sembrava essere appena uscita da una seduta intensiva di lampada al quarzo total body. Ne doveva aver presi proprio un sacco di ultravioletti nella sua vita, infatti eserciti di rughe impietose le formavano sul viso una specie di carta geografica avvizzita e molto triste.
Valentina non si curò dei cani e continuò a scendere giù, superando quattro o cinque rovi di sterpaglia che spuntavano da ambo i lati dell’angusto sentiero. Arrivò in fondo e girò a sinistra, costeggiando il dismesso campo da calcio di pozzolana, poi proseguì ancora, dirigendosi verso l’antica Fornace Veschi, la vecchia fabbrica di mattoni.
Le avevano raccontato che nel borghetto adiacente, oramai abbandonato, abitavano un tempo decine di famiglie che si erano insediate lì all’inizio degli anni Venti, per lavorare alla fornace. Gli edifici erano dislocati in ordine sparso, tra strade dai caratteristici nomi riecheggianti le attività di un tempo. Entrò in una casa a due piani. Sulla facciata vide una lapide di marmo con la scritta Fornace della Madonna del lavoro
. Salì le fatiscenti scalette di legno fradicio e superò i materassi abbandonati, le carcasse dei frigoriferi e dei vasi da bagno, la sporcizia di decenni.
Infine trovò quello che cercava. Era una vecchia poltrona di velluto, color verde marcio. Aveva il cuscino sfondato, ma sembrava ancora piuttosto comoda. Troneggiava al centro di quello che un tempo era stato il modesto soggiorno dell’abitazione. Si sedette soddisfatta, tirò fuori dalla tasca la busta di plastica e la poggiò sopra una cassetta di legno.
Camillo gli aveva detto che la ketamina nasce liquida ma che lui riusciva a ridurla in polvere sniffabile, semplicemente bollendola.
«Questa in polvere si chiama in gergo Special K. Ma devi comprarla solo da me perché qui intorno ci sono tanti figli di mignotta che in mezzo ci mettono pure la fenciclidina.»
«E allora?», aveva domandato lei.
«E allora sono cazzi amari», aveva risposto lui, con una specie di ghigno.
Valentina infilò il dito indice nella plastica, strappandola, poi allargò la confezione, spostando i due lembi laterali verso l’esterno. Osservò con attenzione il contenuto.
«Guarda che è di più del peso che ti avevo promesso», le aveva detto Camillo. «Ma quello che avanza te lo regalo volentieri, perché sei una vecchia amica.»
«Daje, Camì», aveva ringraziato lei, sorridendo.
Era una bella polvere, davvero. Cristallina come la cocaina e bianca come la neve, pensò Valentina, tirando fuori dalla tasca dieci euro, gli ultimi soldi che le erano rimasti dopo l’impegnativo investimento. Arrotolò il biglietto di carta in modo da formare una lunga cannula, abbassò la testa verso la microscopica spiaggia bianca, sistemò l’improvvisato cartoccio all’interno della narice destra e quindi iniziò a sniffare. Naturalmente evitò di dare ascolto alle raccomandazioni di prudenza del suo pusher preferito e decise all’istante di finirsela tutta.
Quando, infine, anche l’ultimo granello di polvere scomparve dentro la narice per prendere di slancio la strada del suo cervello, allontanò con un calcio la cassetta di legno, si tolse le scarpe e si sfilò con calma la felpa. Poi sprofondò dentro la poltrona e chiuse gli occhi, in attesa.
I primi effetti non tardarono ad arrivare.
Da principio provò un rilassamento generale, una sensazione piacevole e rassicurante.
Si sentiva leggera, in pace con se stessa e, soprattutto, lontana da tutto lo schifo che c’era fuori da lì. Lontana da quel giugno bollente, dalle lacrime e dalle noiose preoccupazioni di sua madre, lontana dal suo ragazzo che l’aveva lasciata per mettersi con quella schifosa di Cinzia, che tutti consideravano la zoccola più zoccola che c’era nella scuola e forse anche dentro tutto quel quartiere, luogo in cui di zoccole ce ne erano in giro parecchie, anche se, secondo lei, come Cinzia, non ce n’era nessuna, ma proprio nessuna. E chi ti era andato a scegliere lui? Ma certo, la superzoccola! Roba da non crederci.
Lontana, lontana, lontana. Lontana da tutti i lunedì mattina, quelli che, come apriva gli occhi e realizzava che era lunedì mattina, già le veniva voglia di vomitare. Lontana dai professori che le davano quattro o, peggio, tre, in tutte le materie, compresa Educazione Fisica, che poi non aveva conosciuto mai nessuno che si fosse beccato tre in Educazione Fisica e lei invece se l’era beccato in pieno, perché fumava sempre negli spogliatoi, non si portava mai le scarpette da ginnastica e soprattutto aveva mandato affanculo per tre volte di seguito il tristo professor Guglielminetti che voleva assolutamente farla partecipare alle gare di corsa extrascolastiche.
«Tu devi correre, Valentina!», le proponeva sempre con quella sua espressione piagnucolante e noiosa. «Hai le gambe lunghe, potresti avere una gran falcata. Con te in squadra potremmo vincere davvero qualche gara. Dobbiamo solo lavorare un po’ sui muscoli ma con un po’ di esercizi giusti, possiamo farcela! Corri, Valentina, corri!»
Ma corri te, brutto deficiente! Che sei così magro e curvo che non si sa come ti hanno fatto diventare professore di ginnastica. Sicuramente c’hai avuto la spintarella da qualche parente politico che ti ha infilato pure in questa scuola del cazzo per rompere le palle a me!
.
Lontana, lontana, lontana. Lontana da quelle sue tette inesistenti che non appena c’aveva due soldi se le sarebbe fatte rifare al volo ficcandoci dentro più silicone di quello che si era fatta inzuffare dentro sua zia Maura che di silicone ce ne aveva fatto mettere tanto ma proprio tanto, visto che da una semplice taglia numero due di reggiseno era improvvisamente passata alla misura cinque, dopo che era tornata da quella visita improvvisa a Milano alla sorella Carlotta durata quattro giorni e quattro chili di silicone.
Lontana. Dalle tristi visite obbligatorie ai cuginetti così carini
e ai nonnini così divertenti
, dalle serate inutili davanti alla televisione a guardare programmi idioti con gli ex calciatori che fanno i ballerini e le ex vamp con le labbra gonfiate e gli zigomi rifatti.
Lontana. Dal tragico pensiero della sua vita futura piena e strapiena di punti interrogativi.
Anzi un’immagine con meno punti interrogativi c’era, ora che ci pensava meglio. Era il fotogramma di un film che aveva visto qualche mese prima insieme alla sua amica Tiziana, un film con Jasmine Trinca che le era piaciuto molto, quello in cui lei fugge dallo schifoso mondo della propria città e scappa in Brasile, prima a girare con un vaporetto sul Rio delle Amazzoni in compagnia di una suora missionaria mezza matta, poi in una favela di Manaus a vivere con i bambini poveri e infine, ed era la parte che le era davvero piaciuta di più, da sola, completamente sola, sulle rive del grande fiume a veder passare il tempo, senza fare nulla ma proprio nulla.
Poi, all’improvviso, tutte quelle piacevoli lontananze si dissolsero, così come quel morbido abbandono che si stava ora trasformando in qualcos’altro.
Si accorse, infatti, di non riuscire più a muovere né le braccia, né le gambe. Tentò più volte di farlo, ma senza successo e intanto continuava a restare prigioniera di quella poltrona, come una statua di pietra, mentre gli occhi spalancati ruotavano dappertutto, a cercare una via di fuga.
Sentì improvvisamente una fitta, al centro del petto. Era un dolore lancinante, come il morso di un animale, e poi, insieme a quel dolore improvviso, sentì anche la voce di un uomo. La conosceva bene quella voce, l’aveva ascoltata, infatti, un paio di volte alla settimana, per due anni interi, poiché l’ispettore Marcello Sangermano, era stato il suo catechista ai tempi della Cresima.
«Valentina, mi senti?»
Ma lei non aveva alcuna possibilità di muoversi e non riusciva neanche ad aprire la bocca per parlare. Allora Sangermano si avvicinò, inginocchiandosi vicino a lei.
«Mario il benzinaio mi ha detto che sei andata a comprarti la ketamina. È vero?»
Lei continuava a non rispondere e a sentire quel fortissimo dolore dentro il petto. Sangermano allora prese il cellulare e chiamò un’ambulanza. Venti minuti più tardi si trovavano tutti e due al pronto soccorso del Policlinico Gemelli. Valentina era stata portata d’urgenza in terapia intensiva per un grave problema cardiovascolare.
«Fortunatamente l’abbiamo presa in tempo», confermò il giovane dottore di turno, appena uscito dalla stanza. «La ketamina è un anestetico per animali, per lo più utilizzato per addormentare i cavalli. I ragazzi lo prendono per sballarsi, perché può produrre degli effetti strani: dissocia il corpo dalla mente. Ma, ingerito ad alti dosaggi come ha fatto lei, provoca incapacità di comunicare e di muoversi, blocca tutti i muscoli del corpo e può facilmente causare arresto cardiaco. Io dico che stavolta c’è mancato poco. Come si chiama la ragazza?»
«Valentina. La ragazza si chiama Valentina», rispose l’ispettore, fissando intanto la povera donna che aspettava notizie di sua figlia, dall’altra parte del vetro, nella saletta d’attesa.
Gli occhi della madre incrociarono quelli di Sangermano per un lungo istante. Lui le sorrise, facendole segno che tutto stava andando bene e che oramai non c’era più pericolo.
Lei lo ringraziò, annuendo, e restò lì seduta, i gomiti sulle ginocchia, la testa tra le mani, con l’espressione di qualcuno a cui la vita aveva dato poco.
Sangermano scosse la testa, rattristato per la situazione e salutò quindi il giovane medico.
Stava per uscire quando si accorse che un po’ più in là rispetto a dove era seduta la mamma di Valentina, c’era anche un’altra persona. Era un ragazzo di circa vent’anni, una faccia conosciuta. Piangeva come una fontana, senza riuscire a fermarsi.
Ci mise un po’ per ricordarsi chi fosse, anche perché era passato tanto tempo, ma alla fine riuscì a identificarlo perfettamente e, in fondo, non era poi così difficile. Quel ragazzo, infatti, era proprio lui, Marcello Sangermano, con un viso molto più giovane e un corpo molto più magro.
Aveva solo diciannove anni, così come la sua ragazza, Emanuela, che era stata portata d’urgenza in quello stesso Pronto Soccorso qualche ora prima. Però lei, a differenza di Valentina, non si era salvata. Era uscita dalla vita in un lampo, per un’unica dose di eroina tagliata male.
2
Guardò l’orologio. Le sei e trentacinque. Il suo turno di servizio a palazzo D’Antimi sarebbe iniziato tra circa due ore. Aveva quindi tutto il tempo per prendersela comoda.
Bevve con calma il primo caffè della giornata, dopo aver premuto il tasto play del suo vecchio impianto. Poi, mentre le note di Raconte moi di Stacey Kent si diffondevano all’interno del minuscolo appartamento, si tuffò sotto il getto tiepido della doccia.
Il cellulare prese a squillare dopo pochi istanti, con quel trillo nervoso e la tonalità eccentrica che non era ancora riuscito a modificare. Nella speranza che smettesse, lasciò passare un po’ di tempo finché, finalmente, il suono cessò.
«Bravo, piccolo», commentò lui, continuando a insaponarsi le gambe.
Ma, dopo pochi secondi, il suono riprese, impietoso.
Sbuffando, aprì lo scorrevole della doccia e allungò il braccio per afferrare il telefonino, poggiato sul lavello.
«Marcello Sangermano», disse, ricevendo in cambio quella notizia che avrebbe tanto desiderato non ascoltare.
Il Pontificio Seminario Romano si trovava nel palazzo accanto alla Basilica di San Giovanni in Laterano. Stava lì da cento anni esatti, ma prima aveva trascorso più di quattro secoli a girovagare per mezza Roma, cambiando ripetutamente sede. Dall’originario Palazzo Pallavicini, sul colle del Quirinale, si era infatti spostato a Palazzo Madama e quindi a Palazzo Piccolomini. Ma dal 1913, per volontà dell’allora papa Pio X, il seminario aveva trovato finalmente stabile dimora in quel grande edificio accanto a una delle più imponenti e famose chiese della città, considerata, non a caso, Caput et mater omnium ecclesiarum Urbis et Orbis.
«È greco? Ma che vuol dire?», domandò il rude Placidi, mentre si affrettavano insieme verso l’ingresso del seminario.
«Latino, Gigi. Ma il significato te lo spiego dopo. Il re dei capoccioni
ci sta già venendo incontro», rispose Sangermano, che continuava a sventolarsi il viso con una copia de Il Messaggero
, nel disperato tentativo di rendere più sopportabile l’afa incombente.
Sandro Gizzi, ovvero il re dei capoccioni, come lo chiamava tutta la squadra dell’Uocs, sembrava essere più seccato del solito.
«Hai sentito che cazzo di caldo che fa, ingegnè? E siamo solo al tredici giugno.»
«Dov’è?», domandò Sangermano, senza neanche abbozzare un sorriso.
«Al secondo piano. Venite, vi faccio strada.»
Il corridoio, largo come un campo da tennis, era ricoperto da un bollettonato di marmo che sembrava essere stato appena lucidato. La finestra sullo sfondo lasciava intravedere l’imponente obelisco Lateranense di granito rosso alto più di trenta metri che affacciava su via dell’Amba Aradam. Ai due lati del corridoio c’era tutta una serie di porte di noce massiccio. Ognuna apparteneva a una stanza dei seminaristi che si trovavano lì per il loro lungo percorso di formazione. La terza a sinistra era quella giusta.
Sangermano vide che i capoccioni stavano terminando il proprio lavoro sulla scena del crimine. Sicuramente la videoregistrazione era già stata girata con la solita cura. Le riprese erano partite dall’esterno della stanza fino all’ingresso dello stabile, passando per la scala e il corridoio, le due strade, cioè, di accesso e di uscita. Poi c’era stata la visione grandangolare dell’insieme e subito dopo l’occhio elettronico della telecamera si era andato a concentrare sui dettagli. Da ultimo l’inquadratura era stata effettuata dal punto di vista della vittima, ponendo la macchina vicino al corpo e spostando l’obiettivo in direzione dei quattro punti cardinali.
Sangermano sapeva bene quanto fosse importante tutto questo.
La documentazione fotografica era fondamentale per fissare nel modo migliore la scena e i dettagli della stessa. Il disegnatore Claudio Baragli stava eseguendo gli schizzi, utilizzando le due prospettive tradizionali, quella dall’alto a volo d’angelo e poi quella laterale. Intanto altri due uomini della squadra, Gilberto Scotti e Franco Valesani, stavano azionando i loro due laser-scanner, il primo a triangolazione, per gli oggetti a piccole dimensioni con una risoluzione intorno ai tre decimi di millimetro, l’altro invece in grado di effettuare scansioni con velocità di ottocento punti al secondo. Sangermano era in procinto di affacciarsi a guardare con calma, quando alle sue spalle spuntò in tutta la sua luminosa bellezza la viceispettrice Silvia Fedele che gli stava facendo penzolare davanti al naso il solito kit obbligatorio per accedere alla scena del crimine.
«Mentre mi metto ’sta roba, parlami un po’ di questo posto», disse lui.
«Pontificio Seminario Romano. Una cosa immensa. Tre piani con più di duecento camere, cinque cappelle, una biblioteca, un refettorio, una cucina industriale, una lavanderia sotterranea, l’infermeria, una casa esterna per le suore, un giardino bellissimo, un campo da calcio. Al momento ci sono settanta giovani seminaristi, ma in passato ne sono stati ospitati molti di più.»
«Crisi delle vocazioni.»
«Così sembra. Ma tu, di questo argomento, ne sai molto più di me, Marcello.»
Finalmente, dopo aver indossato tutti gli indumenti di rito e cioè la cuffietta sterile, i guanti, i copri scarpe di plastica e il camice bianco in dotazione, Sangermano entrò nella stanza.
Mentre lui osservava il corpo senza vita steso sul letto, Silvia gli comunicò che Gianluca Sanna, ovvero il giovane seminarista deceduto, era nato a Roma soltanto ventitré anni prima. Lo aveva trovato un compagno di corso che aveva bussato alla sua porta al mattino presto.
L’ispettore si girò verso il capo del laboratorio scientifico Sandro Gizzi, avido di dettagli.
«Che vuoi che ti dica, Marcello? Ha avuto un infarto, forse ieri notte. Il rigor mortis ci mostra un corpo dai muscoli irrigiditi, quindi sono già passate almeno dieci ore.»
«Un infarto? Così giovane?», domandò il viceispettore Placidi. «E perché hanno chiamato noi dell’Uocs?»
In effetti era strano che avessero inviato a investigare l’Unità Operativa per il Crimine Seriale. Cosa c’entravano con un caso di morte naturale?
«Vedete quelle cesoie poggiate sul letto e ancora sporche di sangue?», disse Gizzi.
«Sì, le vedo. Che cosa hanno tagliato?», domandò ancora il viceispettore.
«Hanno tagliato questo», sentenziò mostrando loro un sacchetto trasparente all’interno del quale c’era qualcosa.
«L’anulare della mano sinistra», disse Sangermano, dopo aver gettato un rapido sguardo al cadavere.
«Continuo a non capire. Noi qui che ci stiamo a fare?», domandò ancora Placidi.
«Ti aiuto io, Gigi, se no ci facciamo mattina», disse la Fedele, tagliando corto. «Il nostro cervellone elettronico, il sacs, ha tirato fuori dalla sua smisurata memoria un altro caso molto simile.»
«Ci illumini?», la supplicò Placidi.
«Si chiamava Corrado Nardin ed era un giovane seminarista ucciso a Viterbo. Anche lì è stato ritrovato il dito anulare della mano sinistra tagliato con le cesoie», aggiunse la Fedele.
«E quando sarebbe avvenuto questo omicidio così simile? Io non me lo ricordo proprio», disse il giovane poliziotto, scuotendo la testa.
«È proprio questo il problema, Gigi. L’altro omicidio è avvenuto vent’anni fa», spiegò ancora la Fedele.
«Mi stai prendendo in giro?», chiese spazientito.
«Venti anni esatti, ieri. L’omicidio di Viterbo è avvenuto infatti il 12 giugno 1993.»
«E non ditemi che anche il seminarista di Viterbo è morto per un infarto», commentò Placidi.
«No», disse la Fedele. «Quello di Viterbo lo hanno ucciso con una serie di colpi di arma da taglio.»
«Quindi la similitudine è solo quella del dito tagliato con le cesoie», aggiunse ancora Placidi. «Oltre al fatto che si tratta di due giovani seminaristi.»
«E ti sembrano cose da poco? Dodici giugno, seminaristi, cesoie, dito anulare tagliato…», fece la Fedele.
«È stato un infarto provocato, non è vero?», domandò Sangermano, fissando negli occhi Gizzi e sbirciando con la coda dell’occhio la tazza di porcellana poggiata sul comodino
«Te lo dico più tardi, ingegnè. Dopo l’autopsia del patologo, il dottor Liberti.»
«Va bene, ma ipotizziamo che il ragazzo sia stato, per esempio, avvelenato…», bofonchiò ancora Placidi, guardando con un sorrisetto furbo Sangermano.
«Beh?», domandò con fare annoiato Gizzi.
«Ma il dito della mano gliel’hanno tagliato prima o dopo?»
«Ma che cazzo di domande fai, Placidi?», esplose Gizzi.
«Già, perché non chiedi se gliel’hanno tagliato durante?», aggiunse la Fedele. «Magari l’assassino stava lì a vederlo agonizzare a causa del veleno che gli aveva appena somministrato e intanto, per non perdere tempo, gli tagliava pure il dito con le cesoie. Crudeltà per crudeltà, mettiamoci pure questa,