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Il morso del lupo
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Il morso del lupo

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Una città della provincia lombarda è scossa da un crimine efferato: una giovane massacrata in casa.

Il caso è difficile. Un cronista di nera fa sua l’indagine, segue la pista della rivelazione del Male. Un sensitivo conferma l’intuizione.

Unico sospettato il fidanzato della vittima, sul quale si assommano indizi ma nessuna prova. Arrestato, è rilasciato subito.

Il caso assume rilevanza nazionale. Deciso a scoprire la verità, il cronista comprende di percorrere una strada seminata di droghe e sesso estremo. Ricostruisce la doppia vita del sospettato, membro di una congrega che si riunisce per sfogare istinti animaleschi. È questo l’ambiente che ha covato l’assassinio. Ma per esserne certi bisogna andare fino in fondo. Lo farà, fino a comprendere di non poter tornare indietro.
LanguageItaliano
PublishergoWare
Release dateJun 4, 2015
ISBN9788867973620
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    Il morso del lupo - Luigi Balocchi

    © 2015 goWare, Firenze

    In accordo con Thèsis Contents Agenzia Letteraria, Firenze-Milano

    ISBN 978-88-6797-362-0

    Copertina: Lorenzo Puliti

    Sviluppo ePub: Elisa Baglioni

    Redazione: Marco Rosati

    goWare è una startup fiorentina specializzata in digital publishing

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    Presentazione

    Una città della provincia lombarda è scossa da un crimine efferato: una giovane massacrata in casa.

    Il caso è difficile. Un cronista di nera fa sua l’indagine, segue la pista della rivelazione del Male. Un sensitivo conferma l’intuizione.

    Unico sospettato il fidanzato della vittima, sul quale si assommano indizi ma nessuna prova. Arrestato, è rilasciato subito.

    Il caso assume rilevanza nazionale. Deciso a scoprire la verità, il cronista comprende di percorrere una strada seminata di droghe e sesso estremo. Ricostruisce la doppia vita del sospettato, membro di una congrega che si riunisce per sfogare istinti animaleschi. È questo l’ambiente che ha covato l’assassinio. Ma per esserne certi bisogna andare fino in fondo. Lo farà, fino a comprendere di non poter tornare indietro.

    Ringrazio Stefano Corsino per la collaborazione prestatami.

    * * *

    Luigi Balocchi nasce il 30 giugno 1961 a Mortara (PV). Nel 2007 pubblica, per Meridiano Zero, Il Diavolo custode, romanzo sulla vita e le gesta del bandito Sante Pollastro; nel 2010, con Mursia, il romanzo Un cattivo maestro; nel 2014, per Divina Follia, la silloge poetica Appunti per la grande carestia. Ha scritto soggetto e sceneggiatura del cortometraggio Il Corpo alla finestra.

    Alla Nuvola Azzurra che cerco

    Ante mortem

    Ero ancora lì. Oltre le querce, sarei arrivato al fiume. Su quel sentiero, poca terra pesta tra il fitto dei rovi, un viottolo ignorato anche da chi bazzicava quelle parti, andavo per il bosco come sempre avevo fatto. Camminavo. Respiravo. Anche se volevo sedermi sulla riva del fiume non avevo affatto una meta. Volevo solo stare un po’ con me stesso. Il bosco d’inverno è un ventre che cova. È forma senza peso. Una rivelazione.

    Con un po’ di rami secchi avrei acceso un fuoco. Avevo con me del pane e un pezzo di lardo. Mi ero portato anche da bere. Nella fiaschetta ci avevo messo del Barbera. Sarei rimasto lì fino al tramonto. Allora, il sole di quel freddo giorno d’inverno avrebbe d’un tratto smunto i bagliori dell’acqua, fino a farvi precipitare la notte intera. E sarei stato testimone di un evento eccezionale: il tuffo di un cormorano a picco in un mulinello, il volo delle poiane in cerchio, la passeggiata di un riccio che sapeva la notte vicina. Tutto intorno a me era un respiro di vita.

    Avevo fame. Sul pelo dell’acqua erano già passati due aironi, una biscia si era fatta strada su quel cumulo di sabbia a ridosso della riva. A quel punto dovevo solo incontrare il cormorano, la poiana, il riccio.

    Mi attendeva qualcosa di molto diverso.

    All’improvviso, attraverso i rami nudi, una raffica di vento ha increspato le acque. Dopo un istante, un lungo ululato si è sparso per le rive. Era l’urlo di un lupo. Allora il respiro si è fatto corto, il sangue una pozzanghera ghiacciata. Immobile, dopo il primo ululo, ne ho atteso un altro, poi un altro ancora. Non c’erano dubbi. Un lupo era giunto in questa terra di pianura.

    Sui monti d’Appennino mi ero già imbattuto in lui. Ricordo che un giorno avevo acceso un fuoco davanti a una cascina abbandonata. Poi mi ero messo a osservare la stretta valle che sottostava l’altura. E a un tratto eccolo, il lupo. Laggiù in fondo, nella lustra chiarità del mattino, avanzava nel gelo. Ansimava. Era solo. Io vedevo lui e lui vedeva me. Su quella terra passavamo insieme. Anche allora il suo ululato si era allargato per tutta la valle, ma il mio animo era lieto. Ne aveva colto la pienezza.

    Così non è stato quel giorno in riva al fiume, quando il sangue si è fatto grumo nelle vene, l’aria intorno di un silenzio spettrale. Il lupo che era giunto in questa terra portava con sé il maleficio. Egli stesso era il male. Era un lupo. Ed era un uomo.

    I

    Come un mattatoio. Il sangue, la carne, i pezzi d’osso frantumato sparsi intorno non lasciavano alcun dubbio. Con cruda bestialità, in quella sala si era consumato un assassinio. La giovane vittima, come un feto rigettato in malo modo, giaceva sulle scale che dalla sala portavano in cantina.

    Davanti al cancello della villa, un maresciallo dei Carabinieri offriva una prima dichiarazione di rito.

    «È chiaro che siamo di fronte a un delitto particolarmente efferato. Si stanno al momento operando tutti i rilievi scientifici necessari allo svolgimento delle indagini. Una ricostruzione di quanto avvenuto, in questa prima fase, è da considerare assolutamente prematura. Ciò che purtroppo possiamo al momento constatare è l’avvenuto decesso della vittima, nei confronti della quale è stata messa in atto una deliberata aggressione».

    Ricordo quel suo volto pallido, lo sguardo attonito. Un tremolio lieve innervava il labbro superiore. Tra i primi a entrare nella villa, si era limitato a dire l’essenziale. Io e quel maresciallo ci conoscevamo da tempo. Ci stimavamo mantenendo le debite distanze. Negli ultimi dieci anni ci eravamo trovati accanto a tanti morti ammazzati dei dintorni di Vigevano. Eravamo ormai vecchi del mestiere. Sapeva bene, il maresciallo, che il mio compito e quello degli altri miei colleghi era di dar notizia sui peggiori delitti. E altrettanto bene sapeva che la pletora morbosa dei lettori andava in qualche modo sempre nutrita. Per questo, anche se sulla scena di un delitto lì per lì c’era sempre poco da dire, non mi lasciava mai a bocca asciutta. Ma quel giorno non doveva essere affatto uguale agli altri. Nelle parole del maresciallo avvertivo una sorta di gelida tensione. Il timbro della voce suonava meccanico. Lui, di solito così sicuro di sé, con quella divisa che pareva gli stesse incollata addosso, aveva smarrito il consueto coraggio. Davanti a un simile orrore si scopriva impotente.

    Intanto sul corpo della vittima si davano da fare gli esperti della Scientifica. Li avevano chiamati un po’ in ritardo. Di questo e di altro, subito dopo la dichiarazione del maresciallo, mi spifferava Davide Cotta, il giovane carabiniere appena uscito dalla villa. C’era un certo tipo di confidenza tra me e lui, cosa mica facile se uno indossa una divisa e l’altro ha in mano penna e taccuino. Era il solo carabiniere con cui parlavo oltre il dovuto. Ci incontravamo almeno una volta a settimana. Io avevo il suo cellulare e lui il mio. Parlavamo di quel che succedeva in giro per la città. Dei morti ammazzati, di quelli che si erano buttati sotto il treno o avevano preferito impiccarsi in cantina o farsi grimare dal gas del tubo di scappamento. Sempre gli stessi, gli argomenti. Avevamo l’ossessione. Il Davide Cotta era diventato un mio amico, insomma. Anche lui era tra i carabinieri che, in servizio nella più vicina stazione dell’Arma, per primi erano entrati in villa trovandosi di fronte quella scena da incubo.

    «Te farai fatica a credermi», bisbigliava prendendomi per un braccio. «Non ho mai visto tanto sangue schizzato dappertutto. Alla Tarantino. Roba da americani flippati. Un omicidio così qui da noi non era mai successo. E poi in una bella villa così! Questi son mica dei poveracci. Questa è gente che c’ha il grano, gente che sta benone».

    «Benone non direi».

    Mi stringeva il braccio. «In posti come questi ti aspetti mica di vedere tutto ’sto bordello. Roba da bestie ti dico».

    «Ché di solito», svolgevo il pensiero, «metti che c’è in ballo un po’ di grana, le faccende rognose si risolvono quasi sempre con un colpo di pistola calibro 22. O una coltellata al cuore. O del veleno dentro il tè. In maniera pressappoco pulita, insomma. Il sangue sporca il parquet».

    «Sì, di solito è così».

    C’era morbosità nei suoi occhi. Un luccichio perverso gli torceva l’espressione. La mano gli tremava. Anche lui, come il maresciallo, si portava dentro lo strazio per quel che aveva visto. L’immagine del bel guascone con le spalle ad architrave, ché questo era il Davide Cotta, il suo ardore da ragazzo pieno di vita, quel ghigno sfacciato, erano del tutto scomparsi. Ora avevo di fronte un uomo sfinito, quasi che un verme maligno gli stesse pian piano rodendo il midollo.

    «Ma è davvero così un macello là dentro?», insistevo fumando la mia sigaretta.

    «Sì», s’affannava. «Il salotto è completamente inondato di sangue. Ne ha persi a litri quella poveretta. Sembra che ci hanno scannato un maiale. Non è un omicidio di quelli soliti. Basta entrar là dentro per capirlo. Mi sa che stavolta te la cavi mica coi soliti due o tre articoli. Quella ragazza l’han davvero massacrata. Anzi, dilaniata. Ecco, sì, il termine giusto è proprio questo: dilaniata. E ci è andata ancora bene non averla trovata un pezzo qui e l’altro là».

    Avrei dato chissà cosa per poter mettere il naso e un piede nella villa. Sapevo benissimo come ci si doveva comportare quando c’erano dei cadaveri stesi a terra. Eppure pensavo che se fossi entrato, con tutta la baraonda di divise che c’era, un’impronta in più una in meno, una manaccia di qua o l’altra di là, non avrebbe fatto ormai la minima differenza. Davvero troppa gente là dentro. Era la prima volta che vedevo una roba così. E di robe ne avevo viste un montone. Io ero lì, sempre presente, quando di notte sull’asfalto della Statale c’era il morto incastrato tra le lamiere, o lungo un fosso di risaia, col cadavere stravaccato lì da giorni a far da pastura per cavedani e alborelle; quando trovavano l’impiccato giù in cantina o chi aveva tra le mani la pistola con cui si era sparato dritto in bocca. In simili occasioni avevo un sangue freddo da cinema. Sapevo cosa fare, con chi parlare. Gli attori sulla scena li conoscevo tutti e a tutti riservavo una parte conveniente. Intervistavo il maresciallo, parlavo col Sostituto Procuratore intervenuto, davo noia al medico del 118 che aveva tra le mani il referto del decesso. Nel caso ci fossero tra i piedi dei curiosi perditempo, e ce n’eran quasi sempre, mi serviva anche riportare l’epos di certi loro ah, be’, forse, ma, certo, sì. E il pezzo che dovevo scrivere per il giornale in edicola il giorno dopo filava liscio come l’olio. Non mi occorreva granché impegno.

    Ebbene, tutta questa mia sicurezza un po’ cialtrona, quel giorno davanti alla villa dell’assassinio, di quell’assassinio, è andata di colpo a farsi benedire. E mi sono scoperto davvero alle prime armi, dovevo sì ricominciare tutto da capo. D’un tratto ho sentito un’unghiata alla schiena. Anche se faceva un freddo cane, un fuoco mi ha stretto le tempie. Lo stomaco mi si è come rivoltato. Avevo la nausea. Respiravo a fatica. Mi sono subito accorto di trovarmi di fronte a un fatto eccezionale, un delitto misterioso, stregato, di certo destinato a lunga e penosa cronaca. E questo non perché in quei momenti sapessi già chi fosse la vittima o in che modo l’avessero massacrata. È stata innanzitutto la pelle, l’istinto del vecchio cronista a farmi fiutare giusto.

    Non appena arrivato in via Case Rosse, l’auto l’ho dovuta lasciare all’incrocio con un’altra via. Oramai non ci si avvicinava che a piedi. Macchine, motorini, biciclette s’ammucchiavano alla rinfusa. Due lamiere arrugginite, qualche copertone bruciacchiato qua e là, e l’effetto discarica non glielo avrebbe tolto nessuno. Di macchine ce n’erano fin sui marciapiedi e a filo dei muretti che cintavano i cortili delle ville. Da quelle parti, una bolgia così sembrava assurda. Le poche volte che, in qualche afosa giornata d’estate, ero passato di lì per un giro in bicicletta era tutta un’altra cosa. Tranne qualche gatto, non c’era mai anima viva in giro. Chi abitava in quella strada così fuori mano, le macchine le ritirava nel garage. Di solito fuori restavano solo due o tre suv a dominare incontrastati il palcoscenico del benessere lombardo.

    Nell’aria respiravo una tensione incredibile. Simile a quella provocata da un fulmine che si è appena abbattuto su questa terra. Io che spesso battevo la campagna per fatti miei, ancora ricordavo il giorno in cui, in un prato dalle parti del Ticino, ero stato testimone di un lampo che aveva colpito una quercia centenaria a pochi passi da me. Nello stesso istante in cui l’albero veniva praticamente spezzato, mi era sembrato che il cielo intorno crollasse sulla terra. Il sangue mi friggeva, gli occhi bruciavano, nel corpo era scivolata una stanchezza devastante. Mi si era rotto il tensore dell’anima. Ero lì, fermo come un sasso, a farmela sotto. Tutto intorno,

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