Se mi salvo la vita è un caso. Diario di guerra (1916-1918)
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Se mi salvo la vita è un caso. Diario di guerra (1916-1918) - Federico Adamoli
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Premessa
La diaristica della prima guerra mondiale annovera ben poche eccezioni tra le testimonianze pubblicate da chi partecipò alle sofferenze del conflitto, opera in gran parte dei casi di ufficiali, il più delle volte borghesi di buona cultura, se non letterati. A causa della scarsa alfabetizzazione dell'epoca i racconti dei soldati ignoranti erano affidati al racconto orale, al sentito dire dei vecchi del paese.
Altro aspetto significativo da tenere in considerazione è la tempistica nella quale i diari furono realizzati: se la narrazione fatta in loco
, nella penombra delle trincee, acquista uno spessore ed una drammaticità veramente notevole, la ri-scrittura operata a distanza di decenni ha portato inevitabilmente, nella stratificazione dei ricordi, nella idealizzazione, ad una descrizione in taluni casi edulcorata, nel tentativo di fare della letteratura. Quindi le immagini della guerra non sono più quelle del reduce, bensì del protagonista che la idealizza, distorcendo inconsapevolmente anche la portata del ruolo personale.
Per questi motivi il diario di guerra di Antonio Adamoli suscita un grande interesse. Classe 1887, quando parte per il fronte nel gennaio 1916 è alle soglie dei trent'anni. Lascia la moglie Caterina Arrigoni e i due figli Fortunato di sei anni e Pietro di tre anni, che abitano a Narro (frazione del comune di Casargo, in Lombardia); qui egli è nato, vive con la famiglia e gestisce con essa la pensione Ortello
. Considerata l'età non più verdissima è facile pensare che non fosse animato dallo spirito che avevano i tanti giovani partiti per il fronte, imbevuti di ideologie di stampo risorgimentale, con l'idea di dover rendere grande la Patria, o per puro spirito di avventura, anche se poi il patriottismo non fu solo l'esaltazione dei giovani, perché pure tra gli uomini maturi, molti volontari, non mancarono certamente gli interventisti che continuavano a guardare a Mazzini, convinti di partire per la quarta guerra risorgimentale. E' facile pensare che Antonio fu come quei tanti poveri ed onesti italiani che già dovevano fare i conti con una non facile esistenza, e che la guerra non l'avevano voluta, ma pagando un altissimo contributo di sangue, spesso perdendo quel poco che possedevano.
La descrizione degli anni trascorsi al fronte da Antonio Adamoli è asciutta, imperniata sugli aspetti pratici delle giornate, condite dai disagi del servizio e soprattutto da quelli legati al freddo. Non sappiamo cosa egli pensasse della guerra. Nella cronaca secca, essenziale che egli riporta, non c'è spazio per la riflessione, per le considerazioni, se non nei momenti più drammatici della sua esperienza; è il silenzio del soldato che, in balia degli eventi, pensa ai cari lontani e coltiva il sogno di tornare a casa. Evita di fare qualsiasi commento anche quando il 28 ottobre 1916 riferisce di aver saputo della fucilazione di 5 alpini della 244° compagnia Val d'Intelvi "quasi senza motivo"¹ .
"Se mi salvo la vita è un caso": è una delle poche considerazioni di Antonio che si è voluto scegliere come titolo di questa pubblicazione, e che sembra riflettere la condizione del soldato coinvolto in una guerra che non è la sua guerra perché non ne comprende le ragioni, ma nonostante tutto è ligio al proprio dovere di soldato dell'esercito italiano² .
Il diario di Antonio Adamoli, composto di 61 pagine e scritto in un piccolo quaderno contabile³ tra il gennaio 1916 e il dicembre 1917, si apre con la partenza da casa, il 21 gennaio 1916, quando lascia la sua Narro per raggiungere Precasaglio, destinazione Cima Rodi. Qui si trova la linea di confine posta sul gruppo dell'Adamello, dove la guerra è conosciuta come Guerra Bianca in Adamello
. In Val Camonica rimane per circa due mesi, per poi trasferirsi il 10 marzo a Cividale, in Friuli. Tiene il suo diario quotidianamente, con assoluta regolarità, fino ai primi di giugno del 1916: sei mesi di sostanziale tranquillità, con pochi danni e pochi morti, tra cannoneggiamenti vari, colpi di mitraglia, a scavare trincee, sino all'arrivo di quelli che egli commenta laconicamente come Tuti giorni spaventosi
.
L'inverno 1915-1916 era stato infatti relativamente tranquillo, a causa della ostilità del territorio e delle proibitive condizioni atmosferiche, ai limiti della sopravvivenza umana alle quote elevate nelle quali furono approntate le opere logistiche. Le temperature si aggiravano intorno ai trenta gradi sotto zero e tutto si gelava, persino il vino distribuito nelle gavette che andava rotto con gli scalpelli, oppure sciolto sulle stufe a legna o, in mancanza, dentro le giacche della divisa. A quelle condizioni era impossibile pensare anche ad una minima pulizia o igiene personale (nel mese di aprile 1916 scrive: dopo 24 giorni olavato lafacia
).
A fine maggio (26) si sposta in Valstagna, dove nei primi di giugno, come accennato, conosce il primo vero impatto con la guerra più cruenta e drammatica, nel quadro di alcune parziali azioni offensive mosse dall'esercito italiano, che avrebbero preceduto una controffensiva generale iniziata il 16 giugno 1916. A metà giugno si sposta nella Valsugana (Grigno), mentre nel successivo mese di dicembre raggiunge Recoaro, ed opera tra Ciredo, Provena e Schio, quando ottiene la prima licenza di 15 giorni a metà di gennaio del 1917. Questo periodo di riposo è seguito da una lunga inattività per una serie di ricoveri ospedalieri durata circa dieci mesi, prima nell'ospedale da campo a Montecchio Superiore, quindi in un ospedale da riserva a Vicenza, da cui raggiunge negli ultimi giorni del febbraio 1917, dopo un viaggio durato due giorni, l'ospedale di Caserta. In questi mesi di degenza ospedaliera egli cessa di tenere il suo diario, che viene regolarmente ripreso solamente dal successivo 8 ottobre 1917, quando è nuovamente in