Amico Plinio
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Amico Plinio - Giuseppina Piccillo
Bitinia
Gli anni della formazione
Gaio Cecilio Plinio, il Giovane, ebbe i natali nella cittadina di Como nel 60 o 61 sotto il regno di Nerone. Era ancora un bambino quando, perduto il padre, fu, per breve tempo, affidato alla tutela di Virginio Rufo, che l’amò come un figlio e ancor più di un figlio continuò ad amarlo, anche quando il fanciulletto, che si era trasferito insieme con la madre a Roma, fu adottato dallo zio Gaio Plinio Secondo e affidato, per la sua educazione, ai retori Quintiliano e Nicete Sacerdote e al filosofo Musonio. Fu a Roma che il giovane Plinio completò i suoi studi, avviandosi all’avvocatura.
Gli anni della fanciullezza sono paragonabili a morbida creta, che l’artista può modellare, senza incontrare resistenza; ed or viene egli facendo un vaso, or altro oggetto, la cui preziosità dipenderà dall’abilità delle sue mani, dalla fermezza e insieme dalla delicatezza dei movimenti, perché la creta è sì cedevole, ma, proprio per questo, abbisogna di maestria per assumere forma, stile, valore e una volta che li abbia acquistati si potrà completare, se si vuole, la fattura, miniando e ornando, ma nessun abbellimento, nessuna decorazione potrà far scomparire una gibbosità o una scalfittura, che, anzi, saranno tanto più evidenti quanto più si vorrà porvi rimedio. La fanciullezza di Plinio non conobbe autorità paterna, ma, ben presto, il vuoto fu colmato dal suo tutore Virginio Rufo, uomo politico e abile generale, soprattutto "cittadino grandissimo e illustre, che uscì di vita, carico d’anni e carico di onori, anche di quelli che aveva rifiutati": legato della Germania Superiore, stroncò la rivolta di Vindice in Gallia e rifiutò per sé la corona imperiale a favore di Galba e ancora una volta rifiutò il potere a favore di Vespasiano, che nel 97 gli decreterà solenni esequie.
Plinio lo pianse come un padre, infatti, Virginio Rufo gli dimostrò affetto veramente paterno, sostenendolo in tutte le sue candidature e accorrendo a festeggiare tutte le entrate in carica del suo figlio prediletto
, anche quando si era ormai ritirato a vita privata e si asteneva dall’intervenire a siffatte cerimonie. Nella Lettera all’amico Romano così scrive Plinio di Virginio Rufo: … egli vive e sempre vivrà, e anzi sempre più sarà presente, pur dopo la sua scomparsa dagli occhi degli uomini, nella loro memoria e nei loro discorsi.
.
Virginio Rufo, rifiutando il potere politico, acquistò un potere ben più durevole, aspirando a raggiungere non la gloria dell’oggi e dei contemporanei, ma quella perenne dei posteri. Era questa la virtù degli antichi: l’adempiere i propri uffici senza pretendere di ricavarne vantaggi personali, senza attendersi in cambio nulla fuorché gli onori dovuti alla virtù. Alla virtù indirizzavano Plinio non soltanto i consigli e le ammonizioni di quanti egli conobbe e gli furono maestri, ma gli esempi della loro stessa vita. Dai suoi Maestri Plinio imparò ad aborrire le azioni dei turpi, a disprezzare la temerarietà dei potenti, l’arrivismo e l’ipocrisia dei subdoli consiglieri dei tiranni. Egli, che pure apparteneva ad una famiglia patrizia ed era personalmente ricchissimo, vituperava le ricchezze procacciate con l’intrigo, il furto, la frode e, soprattutto, forse per la perdita immatura del padre suo, era consapevole della brevità della vita umana, della futilità dell’affaccendarsi per possedere ricchezze e soddisfare desideri e piaceri. Era convinto di quanto, invece, fossero degni dell’uomo l’onore e la gloria che derivano da una vita ben vissuta.
Non minore ascendente sull’animo di Plinio, ebbero i filosofi dello Stoicismo, tra i quali Eufrate, conosciuto in Siria quando, poco più che ventenne, Plinio ivi adempiva il servizio militare. Eufrate, come lo descrive Plinio, era alto, bello il volto, la chioma fluente, la candida barba – tutte doti che seppure vane, tuttavia valevano a renderlo più degno d’ammirazione – ma soprattutto era ampio, solido, affabile il suo eloquio. Plinio n’era affascinato e, incontrandolo spesso nella sua casa, si studiava d’essere amato da lui, che peraltro era, per indole, incline alla benevolenza. Invidiava i suoi tre figlioletti che avevano sempre vicino un sì amabile padre. Crescendo negli anni, tra le strette del suo ufficio, molto importante ma anche molto gravoso, quello di prefetto dell’erario, gli accadrà di lamentarsi di queste brighe con Eufrate che lo conforterà, asserendo che anche esercitare un pubblico incarico, istruire processi, rendere giustizia, applicare le leggi sono una forma di filosofia, un mettere in pratica ciò che essi, i filosofi, insegnano.
I giorni trascorrevano serenamente per Plinio, che attendeva ai suoi studi di retorica nella scuola di Quintiliano e di Nicete Sacerdote, sorretto dalla sollecitudine e dai consigli dello zio e padre adottivo.
Dopo il regno di Nerone e gli anni delle lotte fra i suoi successori, l’impero conosceva con Vespasiano e Tito un periodo di pace e di prosperità. Vespasiano aveva riportato l’impero alla tradizione augustea del principato civile, fondato sulla cooperazione degli aristocratici con il principe. I tempi erano tuttavia mutati: non solo il Senato accoglieva nel suo seno uomini nuovi
, italici e provinciali – Vespasiano favorì questo inserimento – ma si veniva facendo più scoperta la reale fisionomia autocratica del principato, col suo carattere dinastico, mai affermato così esplicitamente. Vespasiano, infatti, conferì al figlio Tito, il titolo di Cesare e lo investì della tribunicia potestas, ma volle anche per il secondogenito, Domiziano, il titolo di Caesar e di princeps iuventutis. Dal punto di vista amministrativo, da ottimo principe qual era, curò il campo delle finanze, restaurando e perfezionando il sistema fiscale, riordinò l’esercito e diede un nuovo assetto alle province. Non fu indifferente alle esigenze culturali e, appena salito al potere, diede a Quintiliano e ad altri retori, greci e romani, l’autorizzazione di aprire una scuola pubblica, concedendo uno stipendio annuo di centomila sesterzi, prelevato dal fisco