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Ifigenía in Àulide
Ifigenía in Àulide
Ifigenía in Àulide
Ebook193 pages1 hour

Ifigenía in Àulide

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About this ebook

Il testo in italiano tradotto da Ettore Romagnoli e la versione originale in greco della tragedia di Euripide che narra il tentativo di Agamennone di sacrificare la figlia Ifigenía alla dea Artemide affinché i venti tornino a spirare e la flotta possa proseguire il proprio viaggio verso Troia. Ifigenía arriva accompagnata dalla madre Clitennestra pensando di essere destinata in sposa ad Achille; scoperto l'inganno, le due donne si ribellano ed Achille nello scoprire che il suo nome era stato usato per un atto tanto infame, minaccia vendetta. Alla fine, Ifigenía comprendendo l'importanza della spedizione decide di sacrificarsi comunque e verrà salvata dalla dea Artemide la quale la fa scomparire inviando al suo posto una cerva.
LanguageItaliano
PublisherKitabu
Release dateOct 30, 2013
ISBN9788867442218
Ifigenía in Àulide

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    Ifigenía in Àulide - Euripide

    IFIGENÍA IN ÀULIDE

    Εὐριπίδης, Ἰφιγένεια ἡ ἐν Αὐλίδι

    Originally published in Greek

    ISBN 978-88-674-4221-8

    Collana: AD ALTIORA

    © 2014 KITABU S.r.l.s.

    Via Cesare Cesariano 7 - 20154 Milano

    Ti ringraziamo per aver scelto di leggere un libro Kitabu.

    Ti auguriamo una buona lettura.

    Progetto e realizzazione grafica: Rino Ruscio

    IFIGENÍA IN ÀULIDE

    PERSONAGGI:

    AGAMÈNNONE (padre di Ifigenía)

    MENELÀO (fratello di Agamènnone, re di Sparta)

    CLITEMNÈSTRA (madre di Ifigenía)

    IFIGENÍA (figlia di Agamènnone e Clitemnèstra)

    ACHILLE (eroe greco)

    VECCHIO SERVO

    ARALDO

    CORO

    AMBIENTAZIONE:

    La scena rappresenta il campo degli Achei in Àulide.

    (Agamènnone esce dalla tenda, e chiama un vecchio servo)

    AGAMÈNNONE:

    O vecchio, vien qui, presso questo

    padiglione.

    VECCHIO:

    Son qui. Che novelli

    pensieri, Agamènnone, volgi?

    AGAMÈNNONE:

    T'affretti?

    VECCHIO:

    M'affretto. è la mia

    tarda età molto insonne, e ben lieve

    sui cigli mi pesa.

    AGAMÈNNONE:

    Che stella

    è quella che in cielo veleggia?

    VECCHIO:

    è Sirio, che, presso alla Plèiade

    settemplice, in mezzo alla volta

    del cielo, s'affretta.

    AGAMÈNNONE:

    Non s'ode né voce d'uccello

    né d'onde sciacquío. Su l'Eurípo

    i venti son muti.

    VECCHIO:

    Agamènnone re, perché mai

    venuto sei fuor della tenda?

    In àulide tutto è tranquillo:

    immote son tutte le scolte.

    Rientriamo.

    AGAMÈNNONE:

    Felice ti reputo,

    o vecchio, ed invidio quell'uomo

    che senza pericoli, ignoto,

    senza fama, trascorre la vita.

    Men felice mi sembra chi vive

    tra gli onori.

    VECCHIO:

    Ma pur, negli onori,

    della vita consiste il decoro.

    AGAMÈNNONE:

    è fallace decoro; e il potere,

    sebben dolce, ad averlo t'accora.

    Uno sbaglio talor verso i Numi

    la tua vita sconvolge; talora

    la cruccian gli umori

    degli uomini, tristi e discordi.

    VECCHIO:

    Non son queste le cose, Agamènnone,

    che ai príncipi invidio; ed Atrèo

    non ti diede la vita perché

    tu soltanto godessi; ma devi

    provare piaceri e dolori,

    ché tu sei mortale;

    e, voglia o non voglia, dei Numi

    è tale il volere.

    (Agamènnone accende una lampada e si mette a scrivere su una tavoletta)

    Che fai?

    Accendi la lampada, e in quella

    tavoletta che teco hai recata,

    tu scrivi, e lo scritto

    cancelli e sigilli, e di nuovo

    riapri, ed a terra lo gitti,

    e quante stranezze commettono

    i folli, commetti.

    Che pena t'angustia, che nuova

    sciagura, Signore? Su, via,

    partecipe fammene, parla.

    Onesto, a te fido sono io:

    ché Tindaro un giorno mi diede,

    fra i doni di nozze, alla tua

    consorte, compagno

    fedele alla sposa.

    AGAMÈNNONE:

    Leda, figlia di Testio, ebbe tre figlie:

    Clitemnèstra, mia sposa, Febe, ed Elena.

    A richieder costei, si presentarono

    quanti contava piú prestanti giovani

    l'Ellade tutta; e qui minacce sursero

    fra lor di morte, ché nessun voleva

    privo restar della fanciulla. E Tíndaro

    in imbarazzo grande era, se cederla

    convenisse, oppur no, per conseguirne

    maggior vantaggio; e questa idea gli venne:

    che tutti quanti i giovani prestassero,

    stringendosi le mani, e confermassero

    con libagioni e imprecazioni, un giuro

    che tutti l'uomo a cui movesse sposa

    di Tíndaro la figlia, aiuterebbero,

    se mai qualcun glie la rapisse, e in bando

    lui mandasse dal letto; e moverebbero

    a campo, e la città distruggerebbero,

    con l'armi, ellèna fosse, o fosse barbara.

    E poi ch'ebber giurato, e il vecchio Tíndaro

    accortamente con la fine astuzia

    li ebbe ingannati, disse alla sua figlia

    che fra i rivali ella scegliesse quello

    a cui piú d'Afrodite la spingessero

    l'aure dilette. Ed ella scelse, oh, fatto

    mai non l'avesse! Menelào: ché poi,

    dalla terra dei Frigi a Lacedèmone

    quell'uomo giunse che alle Dee fu giudice,

    come n'è fama tra gli Argivi; e un fiore

    parea nelle sue vesti, e d'oro fulgido

    con barbarica pompa, e innamorato

    rapí l'innamorata Elena, e ai campi

    d'Ida l'addusse. E Menelào non c'era.

    Ma come ritornò, furente corse

    l'Ellade tutta, e i giuramenti a Tíndaro

    un giorno fatti ricordò: che aiuto

    convien prestare a chi patí sopruso.

    E alla guerra correndo, allora gli Elleni

    impugnarono l'armi, e in questo d'àulide

    angusto passo vennero, di navi,

    di scudi armati, di cavalli e cocchi.

    E duce me, perché di Menelào

    ero fratello, elessero. Deh, fosse

    toccato ad altri un tanto onor! Ché tutte

    son raccolte le genti, e noi qui stiamo,

    e non possiamo navigare, in àulide.

    E Calcante, indovino, a cui rivolti

    nella distretta ci eravamo, tale

    responso diede: che alla Diva Artèmide

    che quivi ha sede, Ifigenía mia figlia

    sacrificar si dee: sacrificandola,

    facile il mare avremo, e struggeremo

    la gente frigia: se non l'immolassimo

    nulla di ciò conseguiremmo. Appena

    udito ciò, diedi ordine a Taltíbio

    che rimandasse con un alto bàndo

    tutte le genti: ché mia figlia uccidere

    io non l'avrei sofferto mai. Ma qui,

    tanto mi disse il fratel mio, che infine

    mi fe' convinto a osar lo scempio orribile.

    E una lettera scrissi, e l'inviai

    alla consorte mia, perché la figlia

    nostra mandasse, che ad Achille sposa

    esser dovrebbe; e dello sposo i pregi

    magnificavo; e che le navi ascendere

    con gli Achei rifiutava, ove la nostra

    figliuola a Ftia sua sposa non andasse.

    Tal pretesto usai dunque, per convincere

    la sposa mia: d'Ifigenía le nozze

    fingere; e soli fra gli Achei lo sanno

    Calcante Ulisse e Menelào. Ma quello

    che stoltamente allor deliberai,

    or lo muto di nuovo in questa lettera,

    che tu fra l'ombre della notte, o vecchio,

    aprire e poi chiuder m'hai visto. Orsú,

    questa missiva prendi, e ad Argo récati.

    E ciò che nelle sue pieghe essa asconde

    io tutto ti dirò: ché tu fedele

    alla mia casa, a Clitemnèstra sei.

    VECCHIO:

    Dimmi, parla, sicché le parole

    ch'io dirò, con lo scritto s'accordino.

    AGAMÈNNONE:

    (Legge la lettera)

    Di Leda germoglio, io t'avverto

    in questa missiva

    che tu la tua figlia non mandi

    all'ala d'Eubea sinuosa,

    ad àulide immune dai flutti:

    ché in altra stagione le nozze

    della figlia dobbiam celebrare.

    VECCHIO:

    E Achille, deluso del talamo,

    cosí, contro te di furore

    non sarà tutto un fremito, contro

    la tua sposa? Di tanto pericolo

    mi dici che pensi?

    AGAMÈNNONE:

    Il nome, e non l'opera, Achille

    prestava: di nozze

    nulla ei sa, né di quanto ora faccio,

    né che a lui la fanciulla promisi,

    al legittimo amor del suo talamo.

    VECCHIO:

    Agamènnone re, troppo ardire

    fu il tuo, che, promessa tua figlia

    al figliuol della Dea, come vittima

    tu venir la facevi pei Dànai.

    AGAMÈNNONE:

    Ahimè, ché allor fui dissennato,

    ahimè ch'ora sono sacrilego.

    Ma via, non ti prostri vecchiaia:

    affretta il remeggio dei piedi.

    VECCHIO:

    M'affretto, o signore.

    AGAMÈNNONE:

    E non sia

    che indugi vicino alle fonti

    pei boschi, e che il sonno ti vinca.

    VECCHIO:

    Non dire bestemmie.

    AGAMÈNNONE:

    E ovunque la via si divide,

    tu guarda ed osserva, perché

    non ti sfugga, se mai qualche carro,

    su rapide rote

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