L'Uomo Carbone
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L'Uomo Carbone - Michele Di Mauro
SEPULVEDA
Introduzione
L’8 agosto del 1956, fra le 7.30 e le 8.00 del mattino, un’esplosione devasta il pozzo n. 1 della miniera di Bois du Cazier, a Marcinelle, nei pressi di Charleroi, in Belgio. Tra i 262 minatori che perdono la vita, 136 erano italiani, molti dei quali provengono dall’Abruzzo. Si tratta di emigranti, partiti alla volta del Belgio, all’indomani della ratifica dell’accordo Uomo–Carbone
, in base al quale l’Italia si impegna a trasferire uomini in Belgio, che, come contropartita, garantisce all’Italia due tonnellate e mezzo di prodotto per ogni minatore.
«Uomini in cambio di carbone, non è vero? È questo che vale per voi la vita di un uomo? Pezzi di carbone per lo Stato Italiano!».
Antonio e Sandro sono due fratelli, partiti alla volta del Belgio, con in tasca la domanda di emigrazione e nel cuore tutti i sogni, le speranze, le paure e i rimpianti di due ragazzi qualunque. Orfani del padre, morto in miniera a causa di un’esplosione, per effetto dell’accordo Uomo-Carbone, in qualità di figli, possono subentrare in Belgio al posto del padre «E così morto un Uomo-Carbone, ne arriva subito un altro… anzi due».
Antonio, il maggiore, è determinato a partire, vuole dimostrare che nelle sue vene scorre il sangue di un vero minatore, sente la responsabilità del capo famiglia, ora che il padre non c’è più. Sandro, il minore, è un sognatore, sempre immerso nei suoi libri, sempre pronto a viaggiare con la sua immaginazione. Vorrebbe fare lo scrittore e invece è costretto a una vita da «topo in gabbia!»
Nel pozzo numero 1, quella maledetta mattina dell’8 agosto del ’56, scopriranno che, in realtà, avevano imboccato la strada che li conduceva inesorabilmente verso il loro destino. Una storia dura e toccante, dai risvolti neorealistici, i cui protagonisti non sono la mera trasposizione del cliché del minatore o dell’emigrante, ma persone. L’uomo-carbone si snoda attorno alla necessità di rivelare questa semplice, ma non trascurabile, e incontrovertibile verità: i minatori di Marcinelle, prima che minatori, erano persone, con le loro storie, le loro vite, i loro sentimenti, le loro speranze, le loro paure. E il loro destino!
1
Antonio
Erano da poco passate le dieci.
Quella mattina di dicembre si presentava particolarmente livida, nonostante il cielo. I gradini di pietra che mi portavano via dai campi, su verso il paese, erano ancora selciati di ghiaccio. La salita si presentava ripida, sempre più faticosa, gradino dopo gradino, respiro dopo respiro. Le gambe, impietrite dalla fatica dei campi, sembravano pezzi di quel marmo tanto caro agli scalpellini del mio paese. Eppure da bambino, su quelle scalinate, ci facevamo le corse con gli amici, ed era sempre una volata.
Primo.
Poi giù a coglionare gli altri, stanchi come vecchi, lenti come lumache. E ora la lumaca ero io. Sbavavo sudore e fatica su quei gradini. Se mi avessero visto gli amici arrancare su quei pezzi di marmo poco levigato! E nemmeno potevo prendermela con l’età. Perché, a venticinque anni, una salita del genere la fai d’un fiato, alla calata. A venticinque anni non sei vecchio!
D’un tratto, un alito di vento mi sferzò la schiena. Fu come ricevere una frustata inattesa. Mi raggelò l’anima. Mi girai di scatto e me la trovai dinanzi. Lei era là. Lei era immancabilmente là, come tutte le mattine, come tutte le sere, con quelle sue ciocche bianche, irte verso il cielo. Onore e pena di noi abruzzesi.
La Bella Addormentata!
Mi sedetti e iniziai a fissarla. Anche lei mi fissava, come se volesse dirmi qualcosa. − Cosa mi vuoi dire, eh? Parla, avanti, parla! − Ma lei continuò a fissarmi dall’alto della sua maestosità. Impietosa! Matrigna! Ma non disse nulla.
Per un istante mi ricordò lo sguardo di mia madre, increspato dal dolore, quando ci chiamava a sé per dirci che dovevamo sopportare l’ennesimo schiaffo dalla vita, e dovevamo farlo senza piangere, senza protestare, perché eravamo uomini ormai
, anche se vestivamo ancora i pantaloncini corti.
Come quella volta che ci disse che papà doveva partire
, doveva andare in Belgio
, doveva estrarre carbone nelle miniere
, doveva farlo per noi e per la patria
.
Sul tavolo della cucina c’era un mucchio di pagine sgualcite, di volantini rosa, che prometteva oro giallo in cambio di pietra nera.
Lo ricordo come se fosse oggi!
Ero appena rientrato a casa. I bordi delle strade erano coperti da cumuli di neve, come ora. Io avevo passato l’intera mattinata con gli amici, a giocare a palle di neve, mentre Sandro era là, come sempre, nel suo piccolo angolo, tra cataste di vecchi libri, raccattati chissà dove, immerso in un mondo con le pareti di carta, incantato dalle sue parole, inutili come le illusioni.
Mamma, ho visto un sacco di persone in piazza, ammucchiate intorno a un manifesto rosa. Non sono riuscito a leggere cosa c’era scritto perché c’era troppa gente davanti a quel muro. Alcuni dicevano che finalmente c’era lavoro per tutti e si abbracciavano.
Mamma mi dava le spalle. Stava pelando le solite patate, bollite fino al cuore perché, sbucciandole, non si sprecasse nulla. Non mi degnò della minima attenzione. Continuò in quei gesti ripetitivi, quasi fosse un argomento che non la riguardasse, con lo sguardo perso oltre la finestra, giù per la strada. Mi sedetti su una vecchia poltrona rappezzata in più punti e continuai il mio racconto.
Altri si lamentavano del governo, del fatto che bisognava partire, andare fuori per lavorare… parlavano male di De Gasperi, di un accordo firmato con il Belgio per lavorare il carbone. Mamma, pure papà dovrà andare in Belgio?
A quella richiesta precisa, si girò lentamente, senza smettere di pelare la patata che aveva in mano, e iniziò a fissarmi. Capii subito quale fosse la risposta. Poggiò la patata sul lavandino, mi si avvicinò e mi accarezzò fugacemente.
Anto’, sei grande ormai!
Poi si voltò bruscamente, richiamata dal rumore di un pugno che sbatteva sulla porta della cucina. Sulla soglia, appoggiato allo stipite, c’era Sandro. Il viso livido e contratto. In mano stringeva uno dei suoi tanti libri. Lo stringeva con tutta la rabbia che aveva in corpo. Infine, esplose.
Che schifo di vita è questa, eh? Che schifo di vita è questa?
Non facemmo in tempo a riprenderlo che era già scappato via. Mamma si lasciò cadere, avvilita, su una vecchia sedia di paglia. Mi avvicinai e iniziai ad accarezzarle le spalle, i capelli.
Mamma, stai tranquilla, ci sono io qui… Sandro è un ragazzino… vedrai che alla fine capirà.
Lei si voltò e accennò un timido sorriso di approvazione, accarezzandomi delicatamente una mano.
Poi, da lì a pochi giorni, mio padre partì. Nei suoi occhi intravidi tutta la fierezza di un uomo delle montagne, che sta per compiere il proprio dovere. Eppure, quando ci salutò, per un istante quella fierezza lasciò il posto alla tristezza, e perfino alla paura, ma fu solo un attimo. Si voltò di scatto e con voce ferma ci disse: Ci vediamo a Natale.
E andò via, a passo svelto, con quattro cose tenute insieme da uno spago. Io e la mamma lo vedemmo scomparire all’orizzonte. Sandro non c’era.
*
Mi alzai di scatto, diedi le spalle alla Maiella e corsi a casa. L’aria gelida mi graffiava il volto, mentre l’angoscia mi infuocava il petto. Non sentivo più il peso delle gambe. Volavo tra i vicoli del paese, cercando tutte le possibili scorciatoie, in quel dedalo di viuzze. Non sapevo ancora cosa fosse successo. Eppure, qualcosa mi diceva che a casa avrei trovato l’ennesimo boccone amaro da ingoiare, a forza, senza protestare, senza piangere. Perché ero un uomo ormai.
Poi, a un tratto iniziai a rallentare fino a fermarmi. Mi chinai sulle ginocchia, ripresi fiato per qualche secondo e, con tutta la rabbia e il dolore che avevo in corpo, spalancai le braccia al cielo. Tirai un urlo e poi un altro e un altro ancora fino all’ultimo fiato d’aria, fin quando non sentii la gola ardere tra le fiamme. Poi mi accasciai al suolo e piansi, piansi e piansi ancora. Piansi come non avevo mai fatto prima. Nemmeno da bambino. Nemmeno sotto i colpi di mio padre. Nemmeno per le pene soffocate di mia madre. Non capivo cosa mi stesse succedendo ma volevo, anzi dovevo piangere. Allora o mai più, nella mia vita. E piansi a lungo, disteso a terra, con il viso rivolto al cielo, con lo sguardo perso tra poche nuvole bianche che piano piano stavano offuscando il sole, già malaticcio di suo.
Non ricordo quanto tempo trascorsi in quella posizione. E non ricordo nemmeno quanto tempo impiegai per tornare a casa.
Sull’uscio di casa c’erano tutti. Tutti i parenti. Tutti i vicini. Tutti i paesani. Le donne vestite di nero che ripetevano, con tono ondulante, una nenia incomprensibile. Capii subito che qualcosa era successo. Qualcosa di brutto. Qualcosa che aspettavamo inconsapevolmente da tempo. Da quando mio padre era partito per andare a estrarre il carbone nelle miniere del Belgio. Qualcosa che riguardava lui, ma che avrebbe cambiato irreversibilmente il corso delle nostre vite. Qualcuno avrebbe dovuto riporre i suoi sogni in un cassetto e chiuderlo a chiave. Per sempre!
Quel fiume di persone si aprì al mio passaggio. Io avanzai lentamente, avvolto dagli sguardi pietosi dei paesani. Percepivo sempre più forte l’ondulante litania di morte, che proveniva dall’interno della casa. Piano, piano, il cerchio intorno a me si strinse, come un cappio, fino quasi a soffocarmi. Alcuni dei presenti mi si avvicinarono e iniziarono a recitare il loro copione, un copione replicato ogni volta che moriva un uomo in paese.
"Coraggio, barda’! Fa’ coraggio a tua madre."
"Tuo padre era una brava persona, nu fatijatore!"
"Mo’ datte da fa’ tu, che si lu cchiù grosse."
"Tua madre e tuo fratello hanne sul a te."
E così, un passo alla volta, un consiglio alla volta, giunsi alla fine di quella via crucis, con una croce che pesava tremendamente sulle mie spalle, con un senso di vuoto alla bocca dello stomaco e la gola secca. Ad aspettarmi c’era mia madre, accasciata sulla sua solita sedia di paglia, avvolta in uno scialle nero. Snocciolava il suo rosario di dolore.