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L'Odore del Suono
L'Odore del Suono
L'Odore del Suono
Ebook589 pages8 hours

L'Odore del Suono

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About this ebook

Presentazione

Il romanzo rientra nella macro-area del thriller/spy story/poliziesco.
Si distingue specialmente per fabula e intreccio, complessi e ben architettati, e per la coralità con cui si presenta al lettore nella gestione dei diversi personaggi: pare quasi non vi sia un vero protagonista bensì tanti protagonisti, ognuno re della propria sotto trama. Persino gli antagonisti assumono un valore narrativo così pregnante da non sembrare neppure antagonisti a qualcuno ma attori che hanno un valore in sé. Anche gli altri attori principali non sono solamente “buoni” o solamente “cattivi”: anche questo aspetto permette alla storia narrata di stratificarsi nei rapporti tra personaggi e le dà valore. Molto stratificati e ampi sono anche il contesto storico e le ambientazioni. A prima vista sono attendibili (Guerra fredda, 11 Settembre, assassinio di Kennedy, guerre in Afghanistan, ecc.). Tuttavia, tali eventi storici sono rielaborati in un’ottica di spiccata finzione, con alcuni sconfinamenti verso una fantascienza relativamente realistica e verso una dimensione ucronica. Questo ha il pregio di non fossilizzarsi sui dettagli storici e di dare un respiro più ampio alla storia.

Sinossi

Un'arma sonica, l'oggetto del contendere. Un'arma micidiale, distruttiva, mortale... in grado di liquefare i cervelli. Qualcuno ne è già in possesso. Ma chi? Nessuna traccia, nessun indizio. Tranne due cadaveri ritrovati in un vicolo col cervello fuso. La corsa per impossessarsene è frenetica.
Avgust Livrosky è disposto a tutto pur d'impadronirsene. Si tratta di uno psicopatico, un pazzo criminale, in grado di condizionare la mente di Osama Bin Laden e fargli compiere l'attentato dell'Undici Settembre. Ma la cosa più pericolosa è che rappresenta la Russia. A contrastarlo c'è la CryPtA, organizzazione segreta che si cela dietro la CIA, l'FBI e l'NSA.
Il professor Mike Greenfield si trova in una stanza all'interno della stazione di polizia di Boston. L'ispettore Lionel Morgan lo sta interrogando perché è accusato dell'omicidio della madre. Sopraggiungono gli agenti della CIA che prelevano il professore. Lionel Morgan sfrutterà le sue capacità per comprendere cosa sta accadendo: è in grado di ascoltare tutte le verità celate tra le onde sonore. Oscuri misteri, segreti, complotti... Questo è ciò che ascolterà. Si innescherà un circolo vizioso senza più ritorno...
I segreti e i misteri fluttuano tra le onde sonore. La verità sta per essere ascoltata...

Offerta € 0,99 invece di € 2,99
LanguageItaliano
PublisherRob Carrey
Release dateNov 17, 2013
ISBN9788868559434
L'Odore del Suono

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    L'Odore del Suono - Rob Carrey

    Rob Carrey

    L’ODORE

    DEL SUONO

    Romanzo

    Copyright © 2013 by Rob Carrey

    Tutti i diritti riservati

    Un grazie personale a mia moglie Rosy, che nella vita mi ha sempre incoraggiato con la forza dell'affetto, e a mia figlia Luna, che rende il presente e il futuro meritevole di essere vissuto giorno dopo giorno...

    Questo romanzo è un’opera di pura fantasia.

    Tutti i protagonisti e i personaggi di secondo piano, nonché i luoghi descritti fanno esclusivamente parte della mia immaginazione. Qualunque analogia con fatti e persone è da considerarsi del tutto involontaria.

    Tutti gli uomini, nessuno escluso, agognano il potere.

    Ma verrà un giorno in cui questi saranno soppiantati 

    da altri uomini che agognano il potere e questi un giorno…

    INDICE

    PARTE PRIMA - L'AREA DI TRANSITO

    Capitolo I

    Capitolo II

    Capitolo III

    Capitolo IV

    Capitolo V

    Capitolo VI

    PARTE SECONDA - CARTESIUS PROJECT

    Capitolo VII

    PARTE TERZA - QUI PRO QUO

    Capitolo VIII

    Capitolo IX

    Capitolo X

    PARTE QUARTA - DÉJÀ-VU

    Capitolo XI

    Capitolo XII

    Capitolo XIII

    Capitolo XIV

    PARTE QUINTA - COSÌ TUTTO INIZIÒ

    Capitolo XV

    Capitolo XVI

    Capitolo XVII

    Capitolo XVIII

    PARTE SESTA - SECRETVILLE

    Capitolo XIX

    Capitolo XX

    Capitolo XXI

    PARTE SETTIMA - SELENIA

    Capitolo XXII

    PARTE OTTAVA – SALTO DI QUALITA'

    Capitolo XXIII

    Capitolo XXIV

    Capitolo XXV

    PARTE NONA - IL CERCHIO SI STRINGE

    Capitolo XXVI

    Capitolo XXVII

    Capitolo XXVIII

    Capitolo XXIX

    PARTE DECIMA - JIMMY

    Capitolo XXX

    PARTE UNDICESIMA – ATTO FINALE

    Capitolo XXXI

    PRIMO EPILOGO

    SECONDO EPILOGO

    PARTE PRIMA - L'AREA DI TRANSITO

    Capitolo I

    Boston, Police Department

    Lunedì 5 marzo 2012 ore 14:03

    Mike era appoggiato con i gomiti sul tavolo e le mani fra i capelli. Guardava con occhi spiritati il muro davanti a sé. Cercava di convincersi che tutto fosse solo un brutto incubo.

    La stanza, tre metri per tre, era arredata unicamente con un tavolo con un piano di metallo, posto al centro. Mike abbassò lo sguardo sullo stesso e fissò le numerose scalfitture superficiali; si chiedeva quante persone fossero passate lì prima di lui, e cosa mai avessero commesso. Le gambe di legno erano l’unica cosa che rendeva vivo e caldo quell’ambiente.

    Neanche l’apertura della porta di metallo riuscì a distogliere lo sguardo di Mike. Nella stanza entrò un uomo che indossava una polo color cachi, un paio di jeans e scarpe sportive. Era alto circa un metro e settantacinque, brizzolato, sulla sessantina. Aveva un aspetto severo che rilasciava nell’aria un senso d’inquietudine. Se non era per la pistola inserita nella fondina e il distintivo, quel poliziotto in borghese poteva passare per un criminale.

    Senza convenevoli, il poliziotto tirò indietro la sedia, sistemata dalla parte opposta del tavolo di fronte a Mike, e si sedette. Ci fu qualche secondo di silenzio.

    «Professore, lo sa che è in un mare di guai? Le conviene confessare tutto» intonò il poliziotto.

    «Vi ho già detto che non so nulla.»

    «Professor Greenfield, so benissimo chi è lei e cosa fa nella vita, ma il problema è che non ha un alibi che regga.»

    «Avete fatto tutti i controlli, le verifiche del caso: sono pulito. Ora voglio tornare a casa.»

    «È stato visto entrare in casa sua in maniera frenetica, non ha chiamato i soccorsi. Nessuno, tranne lei, ha visto un furgone lì davanti. Dello stesso non ha visto la targa, e sempre secondo la sua versione gli uomini che ha trovato in casa non solo sono fuggiti ma nessuno, tranne lei ovviamente, li ha visti scappare… e, guarda un po’, avevano il volto coperto.»

    «Senta, mi lasci andare, cortesemente, e vedrà che poi tutto si chiarirà.»

    Il poliziotto batté forte la mano sul tavolo e guardò Mike dritto negli occhi.

    «Ascolti bene me, professore di Audiologia dei miei coglioni, si dimentichi per un attimo tutte le stronzate che lei insegna agli sbarbatelli di Harvard, qui ne va della sua vita.» Voltò la testa a destra e sinistra, come per cercare l’assenso di un pubblico che non c’era. «E le assicuro che neanche per me è un gioco. Questo che le sto facendo è un esame ben più importante di una dissertazione dottorale, e qui le bacchettate non le dà lei ma io.»

    Fece un sospiro profondo e riprese. «Lei, come tanti altri baronetti universitari, ha perso la percezione della realtà; vi sentite intoccabili, immuni da tutto; per voi tutto quanto è sovrapposto, non c’è differenza fra reale e finzione, tangibile ed evanescente. La mia realtà invece è là fuori: ogni giorno donne violentate, drogati, puttane, rapinatori, morti ammazzati…»

    Non fece in tempo a proseguire che, con uno scatto, Mike si scaraventò su di lui. «Forse avrà visto tutto quello che mi ha detto, ma ha mai perso qualcuno o pianto per loro?»

    Fuori da quella stanza, il tenente Maria Sanchez stava seguendo l’interrogatorio attraverso il monitor. La situazione stava degenerando, quindi decise di intervenire.

    Entrò e Mike notò subito i suoi capelli corvini, le mani che si posavano sui fianchi pienotti donandole un portamento fiero ed elegante, tipico da portoricana. La carnagione olivastra si arrossava in viso mentre gli occhi marrone erano lì lì per incendiarsi di rabbia.

    «Ora basta. Finitela!»

    Mike e Lionel si guardarono ancora un attimo, in segno di sfida, per poi sciogliere entrambi la stretta.

    Due generazioni a confronto: Mike, molto alto, sulla quarantina, possente, ma nello stesso tempo con uno sguardo che dava fiducia, creava quell’empatia… Forse era questo che irritava Lionel, il quale a differenza di Mike era un po’ più basso, rughe profonde, forse per le lunghe notti insonni passate alla ricerca dei peggior criminali.

    «Mi scusi professore. Morgan, vieni con me» disse Maria rivolta al poliziotto.

    Attraversarono il corridoio della centrale di polizia, fino a giungere in un ufficio, qui entrarono.

    «Ma cosa cazzo stai combinando Lionel?! Ti rendi conto che quell’uomo è un pezzo grosso e potrebbe mettere fine alla mia carriera? Non ti lascerò rovinare tutti gli anni di sacrificio per colpa delle tue sfuriate.»

    «Scusami, ma mi serve ancora del tempo. Dammi solo un’ora e lo lascio andare.»

    «Ma come fai a essere così cinico? Serve rispetto per uno che alla fin fine è solo indagato e non colpevole… e comunque non posso darti neanche un secondo.»

    «Ripeto. Solo un’ora.»

    «Non dipende da me.»

    «Cosa vuoi dire?»

    «Guarda là.»

    Due uomini in borghese, vestiti in abiti grigi, stavano discutendo con il capo.

    «E quelli chi cazzo sono?» fece Lionel.

    «Servizi.»

    «I servizi! Cos’hanno a che vedere con questa storia? Non dovrebbero essere alla ricerca di serial killer? Il lavoro non mi sembra che manchi, anzi.»

    «Sono confusa anch’io. Ma si può sapere cosa cazzo sta succedendo? Mi domando, se anche il professor Greenfield fosse il colpevole, che c’entrano i servizi?»

    «È proprio quello che voglio scoprire.»

    «Oramai non puoi fare più nulla. E poi, dev’essere qualcosa più grande di noi. Lascia stare Lionel, o finiremo nei guai.»

    Sembrava che Lionel indossasse un impermeabile: le parole, come la pioggia, cadevano su di lui scivolando via senza trovare risposta.

    Senza degnare di uno sguardo il suo superiore, uscì dall’ufficio; Maria, risentita, lo vide avvicinarsi agli agenti dei servizi e dialogare animatamente, per poi andare con loro in un ufficio isolato.

    Ma cosa sta combinando? pensò Maria.

    Uscì anche lei e si diresse verso lo studio in cui erano entrati Lionel e gli agenti. Si guardò attorno evitando di farsi notare, mentre origliava alla porta cercando di carpire qualche informazione.

    «Sei fuori dai giochi, Lionel. Hai avuto il tuo momento di gloria e diverse opportunità, non le hai sfruttate, c’est la vie…»

    Sei fuori dai giochi, Lionel, ripeté Maria nella sua mente, quindi si conoscono.

    «Sentite. Lasciate andare quell’uomo. Non vedete che è distrutto? E poi, tutto ciò cosa c’entra con voi? Non l’ho ancora capito. Il caso è di nostra competenza.»

    «Ma quanta umanità Lionel. Sei sicuro di sentirti bene? Ora ascolta. E lo dico per la prima e ultima volta: o stai fuori da questa storia oppure…»

    «Oppure?»

    «Oppure… sai come potrebbe andare a finire.»

    Maria fece appena in tempo a staccarsi dalla porta e a concentrarsi sulla circolare puntata a una bacheca, che la stessa si aprì.

    Uscirono prima gli agenti dei servizi e subito dopo Lionel, che osservò la donna. «Da quando ti interessi di bowling?»

    Che figura di merda! pensò Maria con notevole imbarazzo.

    «Ti presento gli agenti Smith e Thompson. Sono qui per prelevare il professor Greenfield.»

    «Dove pensate di trasferirlo e cosa c’entrate voi con il professor Greenfield?»

    «Per quanto riguarda la prima domanda» fece l’agente Thompson «mi spiace ma non siamo autorizzati a rispondere. Chiedete al vostro superiore, a lui abbiamo fornito tutta la documentazione necessaria per il trasferimento. Per la seconda: TOP SECRET.»

    Maria non fece in tempo ad aprir bocca che gli agenti si svincolarono, affiancarono il professore e si dileguarono, senza nemmeno un saluto.

    Maria rivolse lo sguardo verso Lionel e chiese, con una cattiveria che esigeva risposte: «Dentro quell’ufficio, che cosa vi siete detti?»

    «Nulla. Generalità del soggetto, eventuali precedenti penali eccetera eccetera. Le solite formalità di quegli stronzi, insomma.»

    «Senti Lionel, da quanto tempo ci conosciamo? Dieci anni?»

    «Anche di più.»

    «Bene, so di non esserti mai stata simpatica, ma esigo rispetto e sincerità. E a titolo informativo, volevo ricordarti che sono il tuo superiore. Oggi mi hai umiliato davanti agli agenti dei servizi e ai colleghi. Mi aspetto le tue scuse!»

    Lionel con lo sguardo basso, come se stesse controllando l’allineamento delle fughe delle piastrelle, si avviò verso la propria postazione. Maria non ci vide più dalla rabbia. Lo inseguì, gli mise la mano sulla spalla destra e lo spinse verso di sé, costringendolo a girarsi.

    «Sono sicura, Lionel, che qualche giorno di ferie possa servirti a riflettere.»

    Lionel la fissò e fece un sorriso sornione, come quello di un bimbo capriccioso che sa di aver ottenuto ciò che voleva.

    Bastardo. M’hai preso per il culo, mi hai umiliato per la seconda volta, pensò Maria con un po’ di autocritica.

    Con la scusa di sistemare le ultime cose prima di andare in ferie, Lionel si fermò in ufficio aspettando che tutti uscissero: voleva e doveva restare solo.

    Oramai era tarda sera. La sua mente iniziava a lavorare, mentre quella dei colleghi, a quell’ora, era annebbiata da una giornata intensa di lavoro.

    Maria ora sa che quei figli di puttana dei servizi mi conoscono e vorrà saperne di più. Ma adesso non ho tempo di pensare a lei, devo capire dove portano il professor Greenfield, rifletté Lionel.

    Capitolo II

    Little Italy, New York

    Martedì 6 marzo 2012 ore 11:33

    «Mi scusi se la disturbo don Vito. È arrivato» disse il fidato Salvatore.

    «Fallo entrare.»

    «Subito.»

    «Prego, si metta comodo» disse don Vito al contatto.

    «Grazie.»

    Don Vito, così lo chiamavano oramai da tempo, era un immigrato italiano nativo di Camporeale, un paese in provincia di Palermo. Era grande e grosso. A prima vista, per la stazza e la voce poteva passare per un tenore, e in effetti somigliava molto a Luciano Pavarotti.

    Il contatto lo seguiva con gli occhi e con un leggero imbarazzo, mentre don Vito padellava.

    Non che gli mancassero i soldi per la servitù, anzi. Ma la cucina era il suo mondo: guai a chi solo osava avvicinarvisi.

    «Conosce la caponata di melanzane?»

    «No, mi spiace, ma sono di Orlando» rispose il contatto, cercando di giustificarsi.

    «È una ricetta antichissima.»

    Il contatto trovava alquanto inconsueto vedere un uomo d’affari, così potente come don Vito, perder tempo davanti ai fornelli. Farà parte della cultura italiana, ipotizzò.

    Don Vito si tirò su le maniche della camicia e mise il grembiule da cucina. Mentre apriva il frigo per prendere i primi ingredienti (due melanzane, una cipolla, un pomodoro, un vasetto di olive, capperi, sedano) chiese all’interlocutore: «Quali novità mi portate?»

    Il contatto tossì: «Sappiamo che il professor Greenfield è stato prelevato dai servizi e portato nell’area di transito, per poi essere trasferito in un luogo ancora a noi sconosciuto».

    Un colpo secco fece indietreggiare il contatto: don Vito stava iniziando a tagliare le melanzane.

    «Cosa significa ancora a noi sconosciuto? Mi sembra di averle dato buone ragioni per avere informazioni più dettagliate» disse don Vito.

    «Non volevo mancarle di rispetto ma, come lei sa, esiste una scala di comando e arrivare in alto, purtroppo, richiede ulteriore dispendio di energie.»

    Don Vito aprì l’antina e prese lo zucchero, l’aceto, l’olio e per finire il sale: non serviva altro.

    «Le piacciono le competizioni olimpiche?»

    «Mi scusi, ma non la seguo.»

    Don Vito era solito ricorrere a metafore, pensava fosse il mezzo più diretto per far capire i concetti.

    «In ogni olimpiade ci sono nuovi record. Gli sponsor li richiedono, il sistema li richiede. Vi sono diverse specialità: salto in alto, lancio del peso, maratona… ma quella che a me affascina di più sono i cento metri. In pochissimi secondi, in centesimi ti giochi tutto. Sì, la corsa, come metafora di vita. Ogni giorno, di fianco a noi, c’è qualcuno che cerca di essere più veloce. Tutto sta nella preparazione: bisogna avere una condizione psicofisica perfetta; lavorare non solo sotto l’aspetto muscolare, ma anche mentale.»

    Ora toccava alle cipolle…

    «Mi sta dicendo che esistono altri corridori?»

    «Le corse non si svolgono mai con un solo e unico partecipante» sentenziò don Vito.

    Mise le melanzane in uno scolapasta e su di esse appoggiò il coperchio di una pentola. Infine, aprì l’antina sottostante i fornelli e tirò fuori un grosso peso che appoggiò sul coperchio. «In questo modo le melanzane perdono il sapore amaro. Devono star lì per circa tre ore, il tempo di riposarmi».

    Con l’ultima metafora culinaria liquidò il contatto.

    Don Vito si tolse il grembiule, sciacquò le mani e si coricò su di una poltrona. Chiuse gli occhi e dopo qualche minuto si addormentò. Iniziò a sognare: lo stesso incubo, oramai ricorrente, che lo perseguitava come uno spietato killer, da anni.

    «Amore… Amore… Tesoro mio… è ora di alzarsi.» La madre bisbigliava e pronunciava quelle parole come solo chi ha avuto in grembo la propria creatura può capire: l’istinto materno.

    Il ragazzino, oramai quattordicenne (anzi, era proprio il giorno del suo compleanno) si stropicciò gli occhi. Ci volle qualche secondo per capire che la sagoma davanti a lui era quella della madre.

    «Auguri tesoro. Dai. Sbrigati! Vieni con me.»

    Prese per mano il figlio e lo accompagnò (sarebbe più corretto dire trascinò) in cucina. Come se si fosse fatto un’iniezione di adrenalina, si destò alla visione di quel grosso pacco infiocchettato, messo in bella vista al centro del tavolo.

    «Su, aprilo» disse la madre più eccitata del figlio.

    Il figlio, con tutta la delicatezza di un cane randagio alle prese col sacco della spazzatura in cerca di cibo, aprì il pacco. Non poteva essere vero! Quante volte aveva fantasticato. E ora, era proprio lì, davanti ai suoi occhi. Non solo poteva vedere l’oggetto dei propri desideri ma, addirittura, era suo. Tirò fuori dalla scatola la prima parte del regalo, ammirò la sua rotondità e ne tastò la superficie. Un pallone da calcio. Tutto suo. Proseguì con quella operazione: pareva un chirurgo durante un espianto di organi. Il ragazzo tirò fuori degli indumenti dalla scatola: una maglietta a strisce bianche e azzurre, un paio di pantaloncini elasticizzati neri e infine un paio di calzettoni, anch’essi neri. Dulcis in fundo, vennero a galla un paio di scarpette nere con tre strisce diagonali color argento.

    Un colpo di tosse distolse lo sguardo del ragazzo, concentrato sui suoi balocchi. Il padre, un uomo alto, asciutto e col viso scavato, gettò la scatola per terra e la sostituì con un’altra di dimensione diversa: più bassa della prima, ma più larga e lunga. Senza nemmeno il minimo accenno di sorriso e nemmeno un augurio di buon compleanno disse: «Aprila.»

    Proprio in quell’istante si ruppe quel velo di magia, quell’atmosfera familiare che solo sua madre riusciva a creare.

    Aprì la scatola nel silenzio più assoluto.

    Il ragazzo trovò al suo interno un doppiopetto gessato, borsalino e scarpe di vernice nere.

    «Oramai sei un uomo ed è giusto che ti vesti da uomo e non da femminuccia. Giusto, Concetta?»

    Nemmeno una sillaba.

    «Ripeto. Ho detto: giusto, Concetta?»

    «Hai ragione, papà» rispose il ragazzo vedendo la mamma in difficoltà.

    Come può essere felice una madre che vede la propria creatura partire per il fronte. Non potrà mai una madre vedere quel tipo d’uomo nel proprio figlio.

    «Domani tu verrai con me. Adesso prova l’abito che tua madre prende le misure.»

    Mai notte fu così lunga. La luce filtrava attraverso la finestra per poi riflettersi sul pallone, e per un gioco di prospettiva, quell’oggetto tondo dava l’illusione ottica di essere la luna. Come per telepatia, la madre, nell’altra stanza, guardava la vera luna. Sembrava che chiedesse sostegno, aiuto, ma nessuno rispose.

    Il mattino seguente, il ragazzo uomo, imbalsamato come una mummia, salì in macchina col padre.

    Percorsero circa venti chilometri senza spiaccicare una parola. Di cosa dovevano parlare? Non esisteva e non sarebbe mai esistito un rapporto fra padre e figlio.

    Si fermarono davanti a un barbiere.

    «Scendi. Ascolta e impara. Non dire nulla.»

    «Buongiorno, signor Carmelo. Tutto bene?» disse il padre rivolto al barbiere.

    Il Figaro si girò verso l’entrata e senza rispondere continuò a sistemare gli attrezzi del mestiere negli appositi contenitori.

    «Non è meglio che suo figlio giochi con gli altri al pallone?»

    Il ragazzo rimase di stucco. Come può sapere? Come conosce i miei desideri? Eppure, non mi conosce affatto, pensava disorientato.

    Come poteva un estraneo entrare nei suoi sogni? Perché quelle parole non arrivavano da suo padre?

    «Come minchia si permette di parlarmi così davanti a mio figlio?»

    «Scusatemi, non volevo.»

    «Lo sa, signor Carmelo, che è il compleanno di mio figlio? Più diventano grandi più diventano pretenziosi… i piccioli non bastano mai. Lei mi capisce?»

    Il barbiere prese da una scatola di latta delle banconote e le diede all’uomo.

    «Arrivederci, signor Carmelo. Mi saluti la famiglia.»

    Salirono in macchina e si diressero dall’altra parte del paese.

    «Hai visto? Ora tocca a te! Stai tranquillo, c’è tuo padre vicino. Lo sai che non ti lascerei mai da solo.»

    Il ragazzo iniziò a impallidire e poggiò le mani sullo stomaco. Il padre accostò la macchina e fece scendere il figlio, oramai paonazzo. Non fece in tempo a uscire che vomitò tutto quello che aveva in corpo.

    «Passato? Ok? Tutto a posto? Tranquillo, è una cosa normale, poi ci farai l’abitudine. Adesso andiamo che siamo in ritardo.»

    Entrarono dentro un panificio e chiesero della padrona, la signora Rosalia.

    «Un attimo, per favore. È sul retro a sfornare il pane, ora la chiamo» rispose la commessa, inconsapevole di quello che il cliente doveva chiedere.

    Il ragazzo chiuse per un attimo gli occhi. L’odore del pane gli ricordava la nonna materna alla quale era molto legato.

    «Ah. Siete voi. Non pensavo di rivedervi così presto. A quanto vedo, avete portato con voi vostro figlio. I figli crescono e noi invecchiamo, prima o poi… siamo di passaggio… tranne l’erba cattiva che non muore mai.»

    «Pensate di essere spiritosa, ma non lo siete. È il compleanno di mio figlio e penso vi debba chiedere qualcosa, vediamo se indovinate? Va’, su, figlio mio.»

    A piccoli passi il ragazzo, impacciato, si avvicinò al bancone: sembrava la caricatura di Al Capone. Guardò la fornaia senza proferir parola. La donna s’intenerì; sapeva di trovarsi davanti solo un ragazzo a cui avevano tolto l’adolescenza, quindi aprì il cassetto e tirò fuori delle banconote e iniziò a contarle, sotto gli occhi esterrefatti del ragazzo. Cinquanta… ottanta… centodieci… cent… La donna si interruppe quando il ragazzo mise la mano sulle banconote: fu un movimento improvviso e inaspettato.

    «Signora, va bene così» disse il ragazzo, parlando a bassa voce, per non farsi sentire dal padre.

    Senza dir nulla, la donna appoggiò la mano su quella del ragazzo: era calda come una pagnotta appena sfornata e profumava di pane; gli giungeva alle narici inebriandolo in tutto il suo essere. Il gesto non fu quello di una donna che lo ringraziava, ma di una madre che lo proteggeva.

    «Dai muoviti. Abbiamo l’ultimo appuntamento. Forza. Prima che chiuda» intonò il padre.

    Il padre guardò l’orologio. Era tardi, quindi decise di accelerare e passare parecchi semafori rossi. Arrivarono, per fortuna, un quarto d’ora prima della chiusura dell’officina. Entrarono e videro, sotto una macchina, una sagoma con la salopette blu. Inginocchiato a quella figura, un ragazzo – che sarà stato coetaneo del piccolo gangster – teneva fra le mani una torcia per far luce al padre.

    «Papà, c’è qualcuno» disse il figlio picchiettando il ginocchio del padre.

    Il rumore dei cuscinetti del carrello anticipò l’uscita del meccanico, il quale cambiò espressione alla vista dell’esattore.

    «È arrivato a quest’ora per rovinarmi l’appetito, non poteva aspettare qualche altro secolo prima di farsi vedere… l’erba cattiva non muore mai.»

    «Incredibile. È già la seconda persona stamattina che me lo dice» rispose con noncuranza.

    «Figliolo! Vai nel retro, che finisco un attimo con questo signore e arrivo e… lavati bene le mani che tra poco si va a pranzo.»

    Il figlio del meccanico si fermò in un punto dove il padre non poteva scorgerlo: temeva che quell’uomo potesse fargli del male.

    «Tenete! Questi sono i soldi, ora andatevene.»

    «Mi sembra che qui manchi qualcosa, esattamente un venti percento.»

    «Quello che sono costretto a dare ho dato. Dove vuole arrivare?»

    «So che le cose le stanno andando bene, quindi…»

    Il meccanico non ci vide più dalla rabbia, con fare minaccioso brandì una chiave inglese e l’agitò in aria in segno di dissenso. Con la stessa rapidità, l’addetto alla riscossione del pizzo impugnò la pistola, la puntò verso il meccanico e… bum.

    Un colpo fece eco nell’officina.

    Ci fu un attimo di stordimento e poi l’uomo cadde. Una macchia rossastra si stava allargando alla vista incredula del più piccolo dei gangster. Il figlio del meccanico continuava a tremare mentre, ancora fumante, lasciava andare a terra il fucile da caccia di proprietà del padre; con la bocca aperta e completamente paralizzato, il ragazzo con l’abito gessato fissò il suo coetaneo, per poi indirizzare lo sguardo a quel corpo inerme. Si sentiva strano, come poteva non provare alcun sentimento per il padre trucidato. Voleva piangere, ma non riusciva. Si vergognò un po’ quando comprese che, una volta tornato a casa, poteva indossare il completo da calcio, e nello stesso tempo pensò ai suoi compagni che lo attendevano per la partita. Era una partita importante, la più importante: giocavano coi diavoli rossi, la squadra più forte, quindi servivano i più forti e fu in quell’istante che indirizzò lo sguardo verso il piccolo meccanico.

    Ho trovato il centravanti!

    Fu con lo stesso sguardo di determinazione che, due anni dopo, il ragazzo pronunciò parole che avrebbe ricordato per tutta la vita. «Mamma, è ora.»

    «Figlio mio, sei sicuro?»

    «Non c’è futuro qui, per entrambi. Vieni con me?»

    «No, figlio mio. Qui è la mia vita, i miei ricordi, la mia terra…»

    «Tornerò, un giorno tornerò. Ricco e potente.»

    «Ricordati solo questo: fatti rispettare e rispetta.»

    Don Vito incominciò a tremare e a sudare. Era arrivato il momento peggiore di quel brutto sogno.

    La madre e il ragazzo stavano per uscire di casa e avviarsi alla fermata della corriera, quando si udirono dei passi.

    «Tesoro nasconditi.»

    «Cosa?»

    «Fa’ come ti dico.»

    Qualcuno bussò.

    «Chi è?»

    «Donna Concetta, sapete chi siamo.»

    «Cosa volete?»

    «Solo parlare.»

    La madre aprì e si trovò di fronte chi conosceva oramai da tempo.

    «Come accordi, vi avevamo dato altri dieci giorni, eppure non vi abbiamo visto.»

    «Vi prego datemi altri giorni, ho i fornitori da pagare, le bollette.»

    «Sarebbe un brutto esempio. Immagini gli altri. Si creerebbe l’anarchia e noi siamo per l’ordine. Comunque si potrebbe rimediare in altro modo.»

    Mentre pronunciava quella frase, il picciotto mise una mano sotto la gonna di Donna Concetta.

    D'impulso, graffiò l’uomo, che iniziò a sanguinare.

    «Puttana. Ora ti arrangio io.»

    Strinse le mani al collo sempre più forte fino a trovarsi tra le stesse un corpo inerme.

    Il ragazzo nascosto nell’armadio iniziò a tremare e dalla paura si bagnò i pantaloni. Rimase lì dentro per più di tre ore: era come paralizzato. Poi, nella maniera più lenta possibile, aprì l’anta dell’armadio e vide sua madre distesa sul pavimento, con gli occhi sbarrati rivolti probabilmente al Signore, così pensò.

    Dicevi che qui è la tua vita e invece hai trovato la morte.

    Il figlio era disorientato come quando con gli amici bevve una bottiglia intera di marsala.

    Non sapeva che fare, cosa pensare.

    Aveva deciso di partire dimostrando il suo coraggio, ma lì, proprio quel giorno fu contraddetto: si dimostrò un codardo.

    Capitolo III

    Miami, Florida

    Martedì 6 marzo 2012 ore 16:12

    Una limousine sfrecciava a tutta velocità, fino a rallentare vicino all’uscita per l’aeroporto internazionale.

    All’interno dell’auto, uno di fronte all’altro, due russi si contendevano una bottiglia di vodka Kalashnikov.

    «Avgust, cosa ne pensi?» esordì Igor.

    «Era prevedibile» rispose Avgust.

    La limousine girò a destra e prese un sentiero sterrato che conduceva a un hangar.

    I Livrovsky erano due fratelli molto diversi, non solo dal punto di vista fisico: Igor, un uomo grasso con connotati riconducibili a un maiale (da qui il soprannome di Bigpig), ma con un’indole più mite rispetto al fratello; Avgust, più longilineo (non ci voleva molto), biondo, occhi azzurri, sguardo angelico; il classico fotomodello presente sulle riviste di moda. Ma la vera differenza tra i due veniva percepita da chi si opponeva loro: Igor cercava di capire un eventuale diniego o la mancanza di disponibilità; ovviamente, non perché avesse delle capacità diplomatiche ma perché era un vigliacco. Avgust invece era un cinico, spietato nelle scelte, freddo come la miglior vodka tenuta in ghiacciaia; era svuotato dai sentimenti e non faceva distinzioni tra sconosciuti o parenti.

    Bigpig, questo lo sapeva bene.

    Era poco più che sbarbatello quando un giorno il padre…

    «Avgust! Perché non ti comporti e frequenti, come tutti gli altri, i ragazzi della tua età?»

    «Come quell’idiota di mio fratello?»

    «Non ti permetto di chiamare in questo modo tuo fratello!»

    «Ora ho capito da chi ha preso Igor…»

    «Cosa vorresti dire?»

    «Igor è solo un vigliacco e tu sei lo stesso, se non fosse così, la mamma sarebbe ancora viva.»

    «Avgust, sei solo un bastardo. E non nominare mai più tua madre!»

    «Perché inizi a sudare e innervosirti? Forse la verità ti fa male?»

    L’intento di Avgust era provocare il padre: ci riuscì.

    «Ora quel vigliacco di tuo padre ti insegnerà una lezione che ricorderai per molto tempo.»

    Iniziò a schiaffeggiare il figlio in maniera energica, finché si udì uno sparo. I due si guardarono negli occhi per qualche istante. Lo sguardo del padre era di un uomo che aveva cercato con tutte le forze, lavorando sodo per tutta una vita, di far crescere due figli in modo onesto; lo sguardo del figlio, invece, di un ragazzo privo di pietà nei confronti di un proprio genitore. L’uomo col petto insanguinato e privo di forze si accasciò.

    «Porterò i tuoi saluti alla mamma!»

    «Mi dispiace molto, papà, ma purtroppo non potrai… perché andrai all’inferno» rispose con un ghigno, e con la pistola ancora stretta nella mano.

    Fece un breve sospiro e poi si diresse verso la propria camera. La stanza si trovava al piano superiore, per cui dovette percorrere un corridoio, alla fine del quale iniziavano le scale che finivano proprio di fronte alla sua camera. Con tutta la calma di cui era forgiato, tirò giù la maniglia e spinse la porta. Si mise al centro della camera e incominciò a girare su stesso a 360 gradi, osservando tutti i dettagli: dai poster affissi al muro, alle coppe vinte nelle varie competizioni sportive, ai vari soprammobili, fino a trovarsi sul punto di partenza. Due grosse ante, alte quanto il soffitto, si imponevano davanti a lui come due titani; le aprì e si trovò davanti a una schiera di giubbotti sportivi di vari colori e modelli. Come fosse Mosè, quando aprì le acque, Avgust mise le mani al centro della fila e spostò ai due lati quella moltitudine colorata di indumenti. Quell’apertura improvvisa mise in evidenza un baule. Lo prese dalle maniglie e lo trascinò all’esterno dell’armadio. Prima di aprirlo, lo osservò per qualche secondo, come fosse un pacco di Natale, sperando di trovare all’interno il regalo desiderato. Sollevò la parte superiore del baule e un leggero cigolio delle cerniere spezzò il silenzio che aveva preso il sopravvento. All’interno dello stesso si potevano notare due palle da football, una mazza e un guantone da baseball. Avgust incominciò a tirare fuori tutto quello che a lui non serviva. Oramai il baule era vuoto, probabilmente quello che cercava era altrove. Si spinse all’interno e allungò il braccio e, come per magia, tirò fuori una custodia di tessuto, come quella usata per riporre le posate d’argento, ma di dimensione maggiore. Quel baule aveva al suo interno un doppio scomparto, ecco dove stava il trucco.

    Ripercorse lo stesso tragitto a ritroso, fino a trovarsi di fronte al padre, che lo fissava nello stesso modo di prima.

    Appoggiò quella custodia di tessuto su un tavolo e la srotolò. Gli occhi gli brillarono alla vista di quei gioielli. Gli erano costati un occhio della testa al mercato nero, ma ne era valsa la pena. Li ammirava uno per uno, partendo da sinistra verso destra e nel contempo, con tutta la delicatezza possibile, passava il pollice su ogni lama. Avgust contemplava il kit da chirurgo come fosse un’opera d’arte. Si riprese da quella sorta di trance e si mise in ginocchio di fronte al padre. Prese una postura alquanto insolita: piegò le braccia, come quando il proprio cane aspetta l’osso, per poi unire le mani in posizione di preghiera. Non era mai stato religioso e non lo sarebbe mai diventato. Considerava tutte le religioni, quelle professate, solo vendite di indulgenze, scorciatoie per il paradiso, se mai fosse esistito.

    «Mantis idos» gridò.

    Avgust era sempre stato affascinato dalla mantide religiosa e da quel genere d’insetto che incute timore. Era convinto che tutto questo fosse la reminiscenza del suo passato.

    Si rialzò e fra i ferri scelse, in primis, quello adatto all’iniziazione.

    Si avvicinò al corpo inerme in corrispondenza del capo. Lo stesso era in posizione supina. Strinse, con entrambe le mani, il manico dell’attrezzo e lo alzò fino a portarlo in posizione perpendicolare rispetto al corpo. Sferrò un colpo che tagliò di netto la testa del padre.

    Come la mantide religiosa, che prima del coito mozza la testa del maschio, anche Avgust provò godimento da quell’esperienza.

    Si destò e continuò il lavoro utilizzando tutti gli attrezzi a sua disposizione.

    Poi mise ogni parte del corpo del padre all’interno di vari sacchi, li caricò sull’auto e partì in direzione nord, verso la laguna. Ci vollero circa due ore prima di arrivare. Giunti a destinazione, scaricò i resti, per poi riposizionarli su una barca a remi. Remò fino a giungere in una zona piena di giunchi: lì, nessuno poteva vedere. Aprì i sacchi e gettò i resti in laguna, poi si mise seduto sul bordo della barca ad attendere… l’arrivo.

    Tutto quel tempo lo stava logorando.

    Cosa e dove ho sbagliato? pensò.

    Ma non fece in tempo a finire la frase che un movimento superficiale dell’acqua lo ridestò. Non in una sola, ma in più direzioni si videro sopraggiungere dei caimani.

    Sono diventato un uomo, si disse complimentandosi.

    Quindi tornò a casa, probabilmente per l’ultima volta, come se nulla fosse.

    Capitolo IV

    Nevada, 150 km a Nord-Ovest di Las Vegas

    Lunedì 5 marzo 2012, ore 23:44

    Un aereo privato prese il volo in direzione sconosciuta. Il professor Greenfield era l’unico civile. Attorno aveva circa dieci militari in divisa tattica, i quali si erano cambiati d’abito non appena saliti sull’aereo. Era vestito con gli stessi indumenti e… cominciava a puzzare.

    «Gradisce una tazza di tè, professor Greenfield» disse un militare.

    Sembra un veterano, probabilmente un ufficiale, pensò Mike, alzando la testa verso l’uomo in piedi di fronte a sé.

    «Sono l’ufficiale di comando, professore» rispose intuendo il pensiero di Mike. «Ci vorrà qualche ora prima di arrivare a destinazione. Purtroppo non posso dire nulla rispetto all’operazione, per cui, se riesce, le conviene dormire un po’.»

    L’inclinazione dell’aereo destò Mike: stavano atterrando.

    Salirono su un fuoristrada nero coi vetri oscurati e a tutta velocità si diressero verso una zona off-limits.

    Il silenzio all’interno dell’abitacolo fu spezzato da una voce. «Dove mi state portando?»

    «Siamo qui per proteggerla professor Greenfield.»

    «Vi ringrazio, ma ancora non mi avete risposto.»

    «È meglio che non lo sappia, per il suo bene e quello della sua famiglia.»

    «Non ho più una famiglia.»

    «Mi scusi, non volevo.»

    «Non si preoccupi. Posso almeno sapere cosa mi succederà? Non starò, spero, nascosto per tutta la vita? E poi nascosto da cosa, da chi?»

    «Una volta arrivati, le spiegheranno tutto e avrà tutte le risposte.»

    La macchina decelerò sino a fermarsi davanti a una sbarra che limitava l’accesso a una base.

    L’autista abbassò tutto il finestrino e disse rivolto al militare: «Il soggetto è con noi. Avverta subito il generale Hoara.»

    Dopo qualche istante il militare tornò e fece cenno di passare.

    «Il generale vi aspetta dentro l’hangar.»

    L’autista alzò il finestrino e partì verso la direzione indicata.

    La macchina percorse circa ottocento metri, per poi fermarsi davanti a una grande saracinesca. Lì, attesero per qualche minuto, finché si sentì il rumore metallico della serranda che si stava alzando. Entrarono e, prima di scendere dall’auto, aspettarono la chiusura della stessa.

    Mike si girò di scatto sentendo la portiera aprirsi.

    «Prego professore, venga con me.»

    Un ufficiale accompagnò Mike. Salirono dei gradini ed entrarono all’interno di una struttura simile a un loft.

    «Aspettiamo qui. Prego professor Greenfield, si metta a suo agio» disse l’ufficiale indicando una poltrona.

    «Ben arrivato professore. Fatto buon viaggio?»

    Mike alzò lo sguardo e si trovò di fronte un uomo brizzolato, oltre la settantina, con innumerevoli medaglie applicate alla giacca.

    «Lei dovrebbe essere il generale Hoara?»

    «Esatto!» Gli strinse la mano e riprese a parlare. «La dottoressa Denver le mostrerà il suo alloggio. Ha bisogno di riposare. Domani le daremo tutte le risposte. Le auguro una buonanotte, professor Greenfield.»

    Il generale e il suo seguito passarono oltre Mike, fino a scomparire.

    «Prego, professore, mi segua» disse con gentilezza la dottoressa Denver.

    La dottoressa Laura Denver si era laureata in psicologia alla Stanford University con il massimo dei voti; aveva un’attitudine per l’ascolto, motivo per cui scelse questa facoltà. Amava fare jogging e, comunque, attività fisica in generale. Era solita, quando le facevano i complimenti per il fisico, pronunciare la famosa locuzione latina: Mens sana in corpore sano. Prima di seguire il progetto, con a capo il generale Hoara, la dottoressa Denver lavorò all’FBI come Serial Killer Profiler. Il generale Hoara la conobbe durante un’operazione dell’FBI, di cui, all’epoca, era al comando. Erano alle prese con un criminale seriale e in quell’occasione la dottoressa Denver mise in evidenza tutte le qualità, pertanto Hoara la volle per il progetto.

    «Ecco il suo alloggio, professore. Per qualunque esigenza, necessità non esiti a chiamarmi. Sul comodino c’è un telefono, solo per uso interno, sul quale troverà diversi numeri e di fianco a essi il servizio corrispondente. Inoltre, c’è un minifrigo con diverse bibite. Purtroppo, per direttive interne, è vietata la somministrazione di alcolici. Buonanotte professore.»

    «Buonanotte a lei, dottoressa Denver.»

    Mike era distrutto. Purtroppo non riusciva a rimanere lucido: la memoria lo catapultava sempre a poche ore prima.

    Capitolo V

    Harvard University

    Ore 9:00 dello stesso giorno

    Quella mattina l’aula magna era stracolma, come del resto tutte le altre volte: il professor Greenfield, come una star, catalizzava l’attenzione degli studenti e di questo qualche collega ne era invidioso.

    Mike attese che tutti gli studenti prendessero posto e si calmasse il vocio continuo. Con un colpo di tosse riuscì a orientare l’attenzione verso di sé.

    «Bene! Come già anticipato l’ultima volta che ci siamo visti, oggi parleremo delle varie strutture che compongono l’orecchio umano. Esso è un sistema fondamentale non solo perché ci consente di sentire, ma anche di percepire quello che ci circonda.» Fece una pausa per enfatizzare le parole successive e proseguì. «La cecità allontana la persona dagli oggetti, la sordità allontana la persona dagli altri individui, lo disse nel 1924 a un congresso, la sordo-cieca, dall’età di diciannove mesi, Helen Keller.»

    Il professore stette in silenzio qualche minuto, affinché gli studenti potessero riflettere sul valore reale della vita; su quello che è futile; sui veri problemi; sulla propria esistenza e trarre qualche conclusione.

    Ed è qui, che tutti gli studenti, secondo il professor Greenfield, danno il meglio: la concentrazione aumenta, cambiano le prospettive, ogni dettaglio diventa importante; come, appunto, ogni piccolo momento, ogni istante della propria esistenza dev’essere vissuto.

    «Bene, iniziamo. Le strutture dell’apparato uditivo si suddividono in orecchio esterno, orecchio medio, orecchio interno, nervo acustico e vie uditive centrali. L’orecchio esterno è composto dal padiglione auricolare e dal condotto uditivo esterno… in profondità possiamo scorgere la membrana timpanica. L’orecchio medio si suddivide in tuba di Eustachio, cassa timpanica e apparato mastoideo. La tuba di Eustachio è un canale che mette in comunicazione la rinofaringe con la cassa del timpano, il cui compito è di equilibrare la pressione atmosferica esterna con quella contenuta nell’orecchio medio; di norma è chiusa, ma all’atto della deglutizione si apre lasciando passare l’aria necessaria per bilanciare la pressione atmosferica.»

    Fece una pausa e poi con un sorriso guardò gli studenti. «Qualcuno di voi fra un paio di mesi potrebbe partire per l’Europa.»

    Gli studenti sapevano bene che c’era l’opportunità, vincendo la borsa di studio, di partire per una vacanza studio.

    Il professor Greenfield riprese la lezione. «Una volta in volo, potreste avvertire un senso di ovattamento auricolare. Questa sensazione svanirà dal momento in cui deglutirete o masticherete.» Infine, concluse con una battuta. «Quindi, sarete sani e salvi.»

    Riprese la lezione. «La cassa timpanica è una cavità… una parete è rappresentata dal timpano… in corrispondenza della parete anteriore la famigerata tuba di Eustachio… come potete notare nello spaccato questi tre ossicini: martello, incudine e staffa costituiscono la cosiddetta catena ossiculare; quest’ultimo ossicino, la staffa, collegato con la finestra ovale trasmette le vibrazioni all’orecchio interno e più specificamente alla coclea.»

    Guardò l’orologio: «Non abbiamo molto tempo, per cui direi di accennare qualcosa in merito all’orecchio interno, per poi proseguire la prossima lezione. Dicevamo… quindi la coclea, chiamata così per via della sua forma che somiglia molto al guscio di una chiocciola… sono presenti tre canali semicircolari… liquidi endolinfa e perilinfa… qui si trova l’organo del corti…».

    Alcuni studenti iniziavano a muovere le gambe, come a sgranchirsele.

    «Bene, ragazzi. Avete preso nota di quello che vi ho spiegato?»

    Alcuni in segno di dimostrazione fecero vedere il proprio block-notes, altri annuirono con la testa. Non mancava chi di appunti non ne aveva mai presi… e si nascondeva tra le chiome di una compagna.

    «Ora, strappate tutto. Cancellate quello che vi ho spiegato fino adesso.»

    Il tono non era di uno che scherzava. Tutti rimasero basiti da questa esternazione; si guardarono attorno cercando di capire chi fosse il primo a prendere l’iniziativa. Il professore, senza mezzi termini, si avvicinò alla prima fila, prese gli appunti di una studentessa e li strappò. Il viso della giovane divenne rosso, dello stesso colore dei capelli.

    «Cogito ergo sum. Lo disse un certo Cartesio che voi conoscerete bene. È una locuzione latina e significa Penso dunque sono

    Gli studenti rimasero attoniti. Qual era il significato di tutto questo e dove voleva andare a parare? Che c’entrava questa dissertazione filosofica con una lezione di anatomia dell’orecchio?

    «L’essere pensante ci contraddistingue rispetto alle altre forme animali. Il dubbio è l’essenza del sapere. Se tutto quello che vi ho detto lo prenderete come verità assoluta allora…»

    Dalle fila, come per voler rompere lo stato d’ansia che si era creato, si alzò una voce. «Ma il cogito interruptus ha qualcosa a che vedere con tutto questo?» disse, rivolto al professore, un ragazzo lentigginoso (lo stesso che si era nascosto dietro la compagna). Una risata collettiva fece risuonare l’aula magna.

    «Sapevo del coitus interruptus… comunque Patterson, non hai fatto solo una battuta, c’è del vero nella tua uscita. La mente di ognuno di noi può essere condizionata, come quella appunto di Patterson, sebbene non sia la mente, nel suo caso a essere condizionata…» Altre risate di approvazione seguirono «finché prenderete per buono, senza la minima esitazione, tutto quello che studierete, allora la vostra esistenza non avrà alcun senso.»

    Il professor Greenfield si girò e si avvicinò alla lavagna, dopodiché prese il gesso e disegnò due rette intersecate. «Qualcuno riconosce questo sistema di riferimento? Cosa, secondo voi, rappresenta?»

    Tutti, subito, avevano capito (tranne Patterson, ovviamente). All’unisono si sentì: il piano cartesiano.

    «Benissimo. Non voglio farvi una lezione di matematica, anche perché non ne sarei in grado. Ma voglio solo rendervi partecipi di come ho interpretato questa rappresentazione: sappiamo che il piano cartesiano è un sistema di coordinate composto dall’asse delle ascisse caratterizzata dalla variabile X, l’asse delle ordinate caratterizzata dalla variabile Y e dall’origine, il punto in cui le rette si incontrano. Proviamo, ora, a dare un significato diverso da quello matematico: se diamo alla variabile X il valore del dubbio, alla variabile Y invece il valore dell’essere pensante, troveremo l’origine della verità, della conoscenza. Concludo esortandovi a mettere sempre in dubbio qualunque affermazione, nella possibilità di trovare nuove risposte, che diano un senso alla nostra esistenza… ho finito.» Una standing ovation concluse la lezione del professor Greenfield.

    Ora è proprio tardi, pensò Mike, guardando l’orologio posto su una parete del corridoio

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