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La regione della malinconia
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La regione della malinconia

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Diana e Ludovica, nonostante siano due donne tanto diverse, riescono a far sopravvivere la loro amicizia a un ventennio. Dietro l’apparenza però, si nascondono verità che rendono le loro esistenze molto più simili di quanto le ritragga l’evidenza. Verità che le porteranno a combattere la battaglia più difficile da combattere, quella contro sé stesse. La vinceranno?
LanguageItaliano
Release dateMay 27, 2013
ISBN9788867559718
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    La regione della malinconia - Consuelo Rinalducci

    Epilogo

    1

    Diana Rinaldi era il suo vero nome.

    Quando le chiedevano come si chiamava però, rispondeva solo Didi.

    Dal giorno in cui s’era trasferita al convitto, quel che era rimasto di vero in lei era niente, o quasi.

    Per farti entrare ho dovuto fare i salti mortali, aveva detto sua madre e che quella era la scuola dei signori, era una fortuna essere stati presi.

    Diana se l’era immaginata a fare piroette lungo la via della Passione per aggiudicarle un posto e avrebbe voluto dirle che non c’era bisogno di rischiare la spina dorsale, a lei andava benissimo la scuola statale, dalle otto alla una, come il posto in comune. S’era invece ritrovata a salutarla la prima domenica dell’anno scolastico. S’era voltata un’ultima volta, chissà mai sua madre avesse cambiato idea. La Delia invece, era già stata inghiottita dalle scale e arrivederci al venerdì dopo.

    Da quella domenica, Diana non era stata più lei. Si era dissolta pian piano, come il fumo dentro la nebbia, offuscata dalla solitudine che riempiva le stanze del collegio. Stanze imperiali, troppo grandi per contenere il suo corpo di bimba, troppo lontane dalle finestre della sua casa. Un luogo in cui i sentimenti se ne stavano sospesi insieme all’aria calda, e giù, ad altezza pavimento, per sentire il calore di un abbraccio bisognava cacciarsi su un golf. Stanze dentro le quali aveva dovuto ricorrere a sistemi che non le appartenevano per assicurarsi la tranquillità. Sopravvivenza era un concetto che aveva imparato a spintoni. C’era un mondo parallelo dentro il collegio e sua madre non gliel’aveva detto, non l’aveva avvisata! L’aveva trasferita in un altro quartiere, in un altro palazzo, senza il suo permesso!

    Da quel giorno la sua anima aveva avuto una reazione allergica, bubboni gliel’avevano deformata e lei, invece di curarla, se l’era tenuta così com’era: un’anima repellente, un’anima alla quale nessuno avrebbe cercato di avvicinarsi. Fu allora che Diana cominciò ad essere Didi. Era stata una scelta consapevole la sua, fatta di una consapevolezza ch’era cresciuta troppo in fretta.

    Lo faccio per una buona causa, si diceva allo specchio ogni mattina, schiaffeggiandosi, come fanno gli uomini con il dopo barba, quella dello stare al mondo, altrimenti la vita diventa una guerra.

    Aveva fatto tutto da sola. S’era arrangiata, e c’era riuscita.

    Sopravvivenza non era solo un concetto, era una parola d’ordine.

    L’aveva capito subito, dalla prima sera, dal dormitorio in cui le avevano infilate in venti. Uno stanzone in cui i patimenti di ognuna erano di dominio pubblico. Quando la luce veniva spenta, si accendevano i singhiozzi, i richiami, i sogni di chi s’era addormentata subito con l’illusione di svegliarsi da un’altra parte. Anche Didi aveva avuto voglia di piangere, di chiamare qualcuno che le tenesse la mano ma non l’aveva mai fatto.

    Calmati e ascoltami. Se piangi è peggio, aveva consigliato a una vicina di letto che non la lasciava dormire, il cuore si svuota e non rimane più niente. Una morta. E’ questo quel che vuoi essere?

    Aveva funzionato.

    Aveva smesso, o almeno aveva smesso il tempo che le era stato necessario per addormentarsi. Per un lungo periodo Didi aveva avuto l’illusione che quella bambina fosse un’amica, ma s’era sbagliata: era una dose d’affetto che serviva a riempire un vuoto, a rendere il vuoto vivibile.

    Diventata grande erano cambiate le stanze ma il sistema di viverci dentro era rimasto lo stesso. C’erano stati periodi in cui ratti neri le avevano divorato la coscienza e, per non perdere quel poco che era rimasto di sé stessa, era stata sul punto di vuotare il sacco. Ma quando s’era trovata a un passo dal mostrare la sua vera natura aveva fatto dietro-front, come un suicida, che qualche istante prima di lanciarsi nel vuoto sente ancora un filo legarlo alla vita e rimette tutti e due i piedi al di qua del davanzale.

    E avanti così, imperterrita, a mettere su tutti i santi giorni il vestito di un’altra. S’avvolgeva in un mantello d’imperturbabilità, sotto il quale si sentiva sicura, ma anche esausta. Stanca di non poter esser sé stessa ancora solo per una volta, perché anche quando si ritrovava sola, il personaggio che interpretava prendeva il sopravvento. Era lui che comandava, che aveva sempre deciso chi doveva essere e quando.

    Dalla prima mattina di giugno però no, non era stata più né lei, né quell’altra. Era il duemilaotto, era la mattina in cui la sua migliore amica stava per imboccare una nuova strada, una strada che non avrebbero potuto percorrere insieme.

    Quella mattina s’era spezzato il cavo su cui la sua esistenza funambola si destreggiava da anni e al suo posto s’era messo il vuoto a farle da pavimento. Se l’avesse anche solo immaginato che andava incontro a quel popò di roba lì, non avrebbe perso neanche un minuto dietro ai progetti, nemmeno avrebbe preso drastiche decisioni. Decisioni che avevano il gusto della malinconia, dolce e agro allo stesso tempo, prese appena una settimana prima, con una tazza di tè fra le mani.

    Decisioni che, mali estremi, si erano fatte unica cura.

    Era fine maggio, tardo pomeriggio, la pioggia voleva essere il diluvio universale.

    Da settimane nuvole grigie avevano buttato le braccia al collo del cielo e non c’era verso di tirarle via. Piangevano. Lasciavano andare le gocce come figlie al loro destino. Uno sciame liquido che si muoveva impazzito, strattonato dal vento e a trovarsi per strada, colti da uno scroscio improvviso, c’era da correre il rischio di morirci annegati. Da una buona mezz’ora Didi se ne stava impalata davanti alla finestra, quella della stanza da letto e guardava l’acqua cosa faceva. I rovesci andavano a gonfiare pozzanghere nere e spumose che, un metro dopo l’altro, si erano mangiate i giardini della via e al loro posto avevano rigurgitato una palude densa e collosa. Tutto quel fango le aveva fatto venire in mente la sua esistenza, sabbie mobili dove aveva infilato i piedi ed era come se stesse per venire inghiottita dalla sua stessa vita. L’odore delle cose nascoste saliva dai tombini. Ribollivano per il fiume in piena che li aveva travolti e, di lì a poco, tutto quel che si era voluto celare fino a quei giorni, sarebbe venuto su con forza a cercare la superficie.

    Incauta, era saltata fuori qualche giorno prima la Ludo, quasi con indifferenza, come le stesse dicendo l’ora.

    Didi alzò lo sguardo verso l’amica.

    Scusa? chiese con un tono che non sapeva bene se esser sorpreso o risentito.

    Sei stata incauta, ripeté la Ludo, mentre si dava un rosso accecante alle unghie dei piedi, ti pare che ci si mette insieme a uno sposato? Poi, continuò senza darle il tempo di ribattere, insieme è una parola grossa. Sei tu, che stai insieme a lui. Lui sta con un’altra.

    Didi abbassò gli occhi, pensando che Dostoevskij fosse più interessante di quel che la Ludo stava sottolineando per la centesima volta da quando aveva cominciato a frequentare il Filippo.

    Quella, che non aveva ancora riempito il sacchetto della soddisfazione, continuò:

    "D’altronde stai leggendo Delitto e castigo… dunque, vediamo… potrebbe essere la decima volta? Non si capisce questo tuo modo di fissarti su cose e persone."

    La superficialità non la sopporto, di cose e persone mi piace andare a fondo. E poi la vita è mia e ci faccio quello che mi pare, rispose Didi che non amava essere bacchettata. Quando sbagliava, aveva continuato senza alzare gli occhi dalla lettura, era lei stessa ad ammetterlo, non come te che sei una presuntuosa, aggiunse facendole una linguaccia.

    E no cara, è qui che ti sbagli. Io sarò anche una presuntuosa superficiale, una della peggior specie, e su questo tutto il mondo è d’accordo, precisò con un sorrisetto, so bene però che le conseguenze di una scelta, si ripercuotono sulle persone che amiamo, su quelle che amiamo di più. Devi stare attenta a dove metti i piedi perché quello che pesti te lo porti in casa, e si zittì, strizzando gli occhi e volgendo lo sguardo alla finestra con uno scatto come se, quel che aveva appena detto, le avesse innestato un dolore nel petto.

    Piove ancora, disse infine,che palle ‘sto tempo!

    Aveva ragione. Il mese delle rose era stato un continuo aprire e chiudere ombrelli, cacciar su impermeabili e tirare madonne al tempo. L’acqua a catinelle delle previsioni metereologiche se ne infischiava. In ufficio, dal giornalaio, alla fermata dell’autobus era la tiritera della morte presunta delle mezze stagioni che dava il la alle conversazioni e, mani giunte, tutti quanti spiavano il cielo alla ricerca di uno spiraglio d’azzurro. Gli esperti ne avevano di voglia ad insistere, che bisognava essere fiduciosi, che era questione di giorni, ma nessuno ci credeva più. Era morta la speranza, annegata.

    Invece arrivò, il caldo vero.

    Trentacinque gradi di passione.

    Percepiti trentotto, perché la cappa di umidità della pianura padana non perdona.

    L’alito dell’anticiclone era stato partorito dalla gravida oscurità di una notte; s’era steso sulla penisola come una coperta a scaldare i corpi e le anime e la mattina, quando il sole aveva finalmente deciso d’alzarsi, l’aria era un’altra aria, il luogo un altro luogo, la vita un’altra vita. Pareva di essersi infilati in una fornace ma non importava, in fin dei conti, le cose che si fanno desiderare sono le stesse che si portano dietro la soddisfazione.

    Ma a Didi quel calore non bastava. L’idea di perdere Ludovica la terrorizzava e nemmeno l’amore grande che stava vivendo riusciva a sopire l’angoscia.

    La verità, aveva detto quel giorno la Ludo, la verità è che siamo soli al mondo.

    A sentir pronunciare quelle parole Didi aveva deciso. Al Filippo l’avrebbe detto più avanti, a fatto compiuto. Fuga, le avrebbe detto, colpo di testa. Vigliaccheria? Che dicesse pure lui quel che gli pareva, per lei era un punto e a capo, un dai, che si ricomincia.

    Non aveva messo in conto però che è il croupier a girare le carte.

    2

    Dopo nove mesi di strategie, sotterfugi e tattiche degne di una guerriglia la Ludo aveva finalmente detto sì.

    Ludovica Anna Ridolfi Bestetti, classe settantuno, alta, mora, tette rifatte.

    La mattina in cui Didi le strinse la mano la prima volta era una mattina milanese, una di quelle mattine in cui la pioggia si nasconde dentro minuscole gocce che non riescono mai a toccare terra. Stavano sotto un portone, era quello di scuola. L’iniziativa l’aveva presa lei, aveva detto solo così: Ludovica. Mentre allungava il braccio, sorrideva con gli occhi e l’aspetto altezzoso s’era fatto d’improvviso affabile, alla buona.

    Da quell’uggioso istante erano trascorsi vent’anni in un soffio, anni in cui, un po’ per caso un po’ per necessità, avevano condiviso gioie e dolori colmando il vuoto di una sorella mai nata e di un fratello pure, quando serviva. Un legame forte che non aveva mai smesso di respirare e aveva vissuto su quei presupposti che trasformano qualcosa in indissolubile.

    A dividerle solo un cognome.

    Un doppio, ridondante cognome.

    Uno di quelli che riempie la bocca anche a bisbigliarlo e si lega ad uno plebeo solo in caso di imminente naufragio.

    Ma i loro no.

    I loro cognomi per essere amici avevano combattuto e avevano vinto o, almeno, così era parso a entrambe. In fondo erano molto più simili di quanto l’evidenza volesse far apparire. Vivevano in un sogno, tentando di essere qualcuno che nella vita reale non erano, qualcuno che avrebbero voluto essere o che erano state in passato e non se ne ricordavano più.

    L’appena trascorso primo di giugno era entrato a far parte della lista delle gioie che sono da condividere, una di quelle da segnare subito sul calendario, che se si dimenticano gli auguri, il mento dell’interessata si allunga a sfinimento. Gli anelli erano stati scambiati nella chiesa di Santa Francesca Romana dove la sposa aveva preso i sacramenti. Un boato aveva fatto tremare i mosaici delle grandi finestre nel preciso istante in cui la Ludo stava annuendo,

    come se qualcuno avesse tentato di intervenire, in extremis. Subito dopo l’odore dell’asfalto bagnato s’era spinto fino all’altare dove s’era avvolto in una spira ai rivoli dell’incenso. Sacro e profano diventavano una cosa sola come la coppia su cui si stava alzando la mano del Don. Poi il cielo aveva congedato il grigio e aveva ordinato all’azzurro di stendersi da un orizzonte all’altro, come se anche lui sapesse che a Ludovica un dispetto così non si poteva fare. Le manciate di riso, all’uscita nell’omonima piazza, avevano suggellato l’unione, con buona pace di amici e parenti che negli ultimi due mesi l’avevano sentita parlare dello stesso, unico, ripetitivo argomento. L’evento era stato organizzato in modo che rimanesse impresso a ferro e fuoco nella memoria dei quattrocento selezionatissimi partecipanti e, cosa che aveva dell’incredibile, tutto quell’ambaradan era stato preparato in soli cinquanta giorni.

    Didi aveva esposto dubbi su quella premura ma lei non faceva testo. L’etichetta, lei, non sapeva cos’era. E nemmeno la vergogna, non ne aveva il tempo. Doveva fare i conti, che a fine mese era lunga arrivare. Certo, sarebbe stata cosa buona e giusta se avesse trovato il coraggio di obbiettare al momento opportuno ma avrebbe dovuto sparare a zero e Didi non sapeva più come si faceva.

    3

    Due di giugno, mattina, undici passate.

    Quando Didi aprì gli occhi il sole aveva stretto alleanza con l’anticiclone e, come previsto dalle madonnine segna tempo, dai barometri e compagnia bella, era cocente come non mai.

    Che fosse una domenica era una gran fortuna perché, alla nottata di festeggiamenti, era sopravvissuto un lamentio avvolto nelle lenzuola sudate. Didi tirò lunga la muscolatura e si sforzò d’alzarsi ma l’afa, che aveva già saturato ogni centimetro cubo delle quattro stanze e del corridoio che stava in mezzo, era una pressa, messa lì a inchiodare il suo corpo molle al materasso. Le tempie chiuse in una morsa, fiele a torturare le papille gustative e, come se non bastasse, una miccia infilata nelle budella. Lo conosceva bene quel bruciore, si erano incontrati decine di volte, con lui ormai aveva una certa confidenza.

    Cosa vuoi ancore da me? piagnucolò con la voce d’un vago tono implorante, ho fatto tutto quello che mi hai chiesto: diete in bianco, tisane depurative, le verdure non so più cosa sono! e si rannicchiò in posizione fetale.

    Maledetta calura! disse a sé stessa, come fosse alla ricerca di un capro espiatorio e intanto metteva a fuoco la serata precedente. Uno Chateau Clarke l’aveva intrattenuta fino a notte inoltrata ed ecco la cena tornarle su sotto forma di conato. Da troppo tempo il suo stomaco non festeggiava con un bicchiere di vino. Alcuni mesi prima infatti, su consiglio di un amico farmacista, aveva iniziato a sottostare a rigide restrizioni alimentari.

    Tesoro, è il caso specifico che lo richiede, aveva detto lui, dopo aver incrociato il suo sguardo, come a far intendere che non fosse una sua iniziativa. Avrebbe dovuto prendersi il merito invece, perché il bruciore al colon si era dileguato, sparito, come un gatto che non trova più nulla di cui cibarsi.

    Al matrimonio della Ludo però no, non aveva potuto esimersi dal brindare. Non aveva voluto, anche perché il bruciore, come avesse sentito improvvisamente la sua mancanza, si

    era rifatto vivo, nonostante le rigide restrizioni alimentari. Cosa avrebbe potuto farle un bicchiere di vino più di così, se non scrollarle di dosso la tristezza che a quel genere di cerimonie le saltava al collo e succhiava via il buon umore.

    L’effetto dell’alcol non aveva tardato a manifestarsi. Il cervello aveva preso ad accendersi e spegnersi in continuazione, un neon psicadelico, lì lì per fulminarsi. L’esagerazione s’era fatta opulenza, lo spreco un lusso che l’ammaliava. Poi, d’improvviso, uno sfarfallio di luce nel cranio e la messa in scena ricominciava a non avere un senso, com’era sempre stato.

    Soldi buttati! bisbigliò a una cugina imbalsamata e quella aveva girato i tacchi storcendo due labbra pompate a dismisura.

    Certo che sono soldi buttati! la voce le correva dietro, stridula.

    Ma cosa fa, scappa? fece a una strabica che s’era imbambolata a guardare la scena.

    E questa, chi sta guardando? sgomitò al Filippo che le levò al volo il bicchiere.

    Ma ti devono venire le mestruazioni? le domandò ironico.

    Mestruazioni? rispose Didi, la voce

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