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L’Ultimo mago di Helenisya
L’Ultimo mago di Helenisya
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L’Ultimo mago di Helenisya

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About this ebook

Una prodigiosa tempesta scuote le terre incantate; è un evento singolare, legato ad un fenomeno straordinario: sei pietre iniziano a risplendere in luoghi diversi delle terre di Helenìsya. Il loro messaggio è vita: uno sciamano è sopravvissuto all’attacco del mago della distruzione, che vent’anni prima pose fine alla civiltà di Summèligor. Gàrland, un anziano pellegrino, assiste in prima persona alla trasformazione di una di queste pietre e intraprenderà un lungo viaggio, in cerca dello sciamano sopravvissuto, il solo a conoscere il mistero delle pietre incantate e colui che il fato ha scelto per ostacolare l’avanzata di un terribile potere di morte. Per scongiurare le spaventose profezie che rischiano di avverarsi se il male non verrà fermato in tempo, Gàrland dovrà raggiungere le terre di Eòwilas, tentando l’abbattimento di una potente barriera magica. Audacia, forza e fiducia saranno necessarie per distruggere l’impedimento e per così schiacciare, una volta per tutte, l’oscuro potere della negromanzia.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateJun 12, 2014
ISBN9788891145178
L’Ultimo mago di Helenisya

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    L’Ultimo mago di Helenisya - Paolo Morandi

    negromanzia.

    CAPITOLO I

    La grande tempesta

    La nostra storia comincia in una notte di primavera, quando la luna di perla splendeva alta in un cielo trapunto di stelle. Il profumo dei ciliegi in fiore aleggiava sulle buie pianure di Bàntum, deliziando l’oscurità di una sacra essenza di vita. Una grande calma scese come cortina premurosa su tutte le terre incantate. Tutto si addormentò sotto l’amorevole ristoro fornito da madre notte. Ma quella quiete fu presto turbata: il rombo di un tuono lontano scosse quel drappo materno, agitando l’ira del vento. Gli alberi stormivano impauriti, assistendo impotenti all’arrivo di nuvole ruggenti. La collera del temporale sopraggiunse da sud come un fronte corvino lampeggiante di verde. Come fumo mortale strisciò contro il cielo, spandendo ovunque i suoi foschi lembi. Le propaggini scure si protrassero contro la luna, vincendone la flebile luce. Tutto divenne piatto ed esangue; tutto si tinse dei colori di morte. Un silenzio tombale scese improvviso su tutte le terre incantate, fasciandole come un sudario; poi tutto tacque.

    A un tratto, una folata di vento ruppe quella pace funerea. Il cielo tuonò e la pioggia si riversò con un sordo scroscio su tutti i territori conosciuti, donando a quelle terre il potere vivificante dell’acqua. Il vento rinforzò, strappando via le foglie più giovani dagli alberi e dando origine a cascole di petali rosa. Il tuono rombava a intervalli regolari, mentre la pioggia cadeva torrenziale. Fu un temporale esteso, che infuriò per tutta la notte; si placò verso l’alba, quando l’oscurità si ritirò, fugata dall’avvento del sole, che tornò a fare capolino da nord, da dietro le montagne di Tàrkitum.

    Al villaggio di Còrad-Prèll, i tetti delle case si accesero di un rosso intenso, rischiarati dalla fulgida luce dell’astro. Le finestre erano ancora chiuse, ma qua e là si poteva vedere qualcuno che le apriva. Il lento sorgere del sole rischiarò anche le smeraldine pianure di Bàntum, che si estendevano per buona parte dei territori settentrionali delle terre di Helenìsya.

    Così, di buon mattino, le strade del villaggio cominciarono a essere interessate da un frenetico via e vai di gente: c’era chi diretto al lavoro o chi a scuola. Tra questi ultimi, un giovane ragazzo vent’enne di nome Ydam. Aveva lunghi capelli di color castano chiaro che spiccavano sulla sua carnagione pallida, la quale faceva apparire i lineamenti del suo viso delicati. Due occhi stretti e smeraldini risaltavano in tutto quel biancore. Il suo abito era del colore delle foreste e degli alberi. Indossava pantaloni bruni, stretti ai fianchi con una cintura di cuoio e una fibbia dorata. Calzava stivaletti scamosciati e sulle spalle portava una sacca di stoffa marrone, contenente diversi libri.

    Imboccato il calle, si diresse fino al crocevia del villaggio e prese verso sud, diretto alle scuole - situate nel vicino bosco delle querce. Uscito dal villaggio, iniziò a correre per le verdi pianure di Bàntum, un’infinita distesa ondeggiante, sulla quale si ergevano, maestosi, piccoli boschi di conifere e alti cipressi. Non mancavano piante di ciliegi solitari, sparsi in modo irregolare nel verde di quell’estesa landa.

    Il ragazzo corse sull’erba ancora fradicia e gli stivali si bagnarono dell’acqua piovana caduta la notte appena trascorsa. Raggiunse presto il bosco delle querce, una macchia costituita per lo più da farnie e roverelle, benché non fossero assenti abeti, sequoie e tassi. I loro grossi rami s’intersecavano più e più volte sulla sommità, a costituire un fine ordito legnoso, che ombreggiava il rigoglioso sottobosco. All’interno della selva, una gradevole fragranza compiaceva i sensi: l’odore della resina, il profumo dei fiori e del legno di quegli imponenti vegetali rievocavano nel ragazzo antiche memorie e i più nitidi ricordi della sua infanzia.

    Ydam giunse così nella grande radura centrale, dove si ergeva la massiccia scuola, una rocca di pietra formata da quattro spesse mura circondariali munite di grossi merli sulla cima. C’erano ampie monofore, alcune provviste di grate infisse, che riempivano le grandi pareti perimetrali. Ovunque crescevano muschi e licheni; s’inerpicavano rigogliose anche piante murali, come edere, aristolochie e clematidi, che attecchivano fortemente a quella pietra antica, donando all’imponente struttura l’incanto del colore dei loro fiori, cosicché quella roccia grigia e malinconica si vestiva di blu e viola.

    Le due enormi ante di legno della porta erano spalancate. Ydam entrò all’interno dell’edificio e, con gran fretta, raggiunse il piano superiore. Arrivò in cima trafelato e si fermò per riprendere fiato, poi si diresse verso la sua classe. La porta della presidenza era stranamente aperta. Il direttore della scuola era un uomo molto riservato. Non fu tanto la porta accostata a turbare il giovane, quanto una voce roca e cadenzante, simile a un rantolo scandito. Quando Ydam udì quel suono maligno, sentì il sangue raggelarglisi nelle vene. Non era la voce del preside; non era nemmeno quella di qualcuno con un semplice mal di gola. Era una voce malvagia, contraddistinta da una nota intrisa di crudeltà.

    Non c’era nessuno nei dintorni. Si nascose dietro all’antiporta e sbirciò all’interno della stanza: vide un tale incappucciato e avvolto in un lungo saio nero che stava ritto in piedi dinanzi al preside. Il viso del direttore appariva cereo, chiaramente pervaso dalla paura.

    «Davvero! Non so nulla a riguardo!»

    «Ieri notte! Che cosa è accaduto?» domandò malvagia quella voce gutturale.

    «Un violento temporale, nient’altro… a quell’ora stavo dormendo, come potrei…»

    «La pietra incantata!» lo interruppe quell’essere. «Dove la custodite?»

    Il preside trasalì, ma si sforzò di rispondere subito. Mosse convulsamente le mani, ricusando con la testa.

    «Non so di cosa parlate!»

    «Menzogna!» rimbeccò quell’essere monosillabico. I suoi virtuali occhi blu scintillarono di malvagità «Non vogliate prendervi gioco del potere oscuro. Ve lo richiederò un’ultima volta: dove custodite il pilastro di Summèligor?»

    Il preside indietreggiò con timore e scosse la testa ancora una volta.

    «Conoscete bene il motivo della mia visita. Non sarà il temporeggiare che potrà salvarvi dalla morte per esservi beffato dell’oscuro signore!»

    A quelle parole, il preside cadde in preda al terrore e il suo corpo fu pervaso da un tremore spasmodico.

    «Perché v’interessa una cosa simile? Che utilità potrebbe mai avere una pietra?» chiese balbuziente.

    «Se non vorrete collaborare…»

    L’uomo incappucciato avanzò minaccioso verso l’uomo indifeso; stese il braccio e lo agguantò per il collo. Le sue mani erano pallide e nodose, simili a grossi ragni butirrosi e putrescenti.

    Il preside tentò di urlare, ma non vi riuscì. Era come se la sua gola fosse strinta in una morsa potente. Terrificato per quello che gli sarebbe potuto accadere, il direttore della scuola volse il suo sguardo alla porta, nella speranza che qualcuno intervenisse per aiutarlo.

    Con grande impeto, Ydam spalancò la porta della presidenza, che sbatté con forza contro il muro interno. Allora quell’essere malvagio si voltò indietro, esibendo tutta la sua mostruosità: gli occhi erano nascosti dall’ampio cappuccio, ma sotto fu possibile intravedere una pelle bianca e scabrosa, diffusa di grossi pomfi sclerosanti. Sorrise maligno, mettendo in mostra una gengiva corvina e denti ingialliti, rotti per buona parte. Sul petto luccicava un medaglione aureo, illuminato al centro da una luce bianca.

    Lasciò la presa e il preside cadde per terra con un tonfo sordo. Tese il braccio verso il ragazzo, ed ecco che la sua mano venne avvolta da un alone tenebroso. Era uno stregone.

    Allarmati dal richiamo del ragazzo, accorsero alcuni guardiani, che sfoderarono lunghe spade scintillanti. Le puntarono contro lo stregone e gli si scagliarono contro. L’essere oscuro non si lasciò intimidire da quell'irruzione e rise malvagiamente. La tenebra densa che aleggiava sulla sua mano divampò e si accrebbe, fino ad avvolgerlo completamente. Un istante e scomparve senza lasciare traccia.

    Dopo la fuga dell’oscura presenza, i vigilanti trasportarono il preside presso l’infermeria e si preoccuparono di domandare allo studente cos’avesse udito di quel dialogo. Anche il direttore della scuola fu ascoltato. Soltanto dopo quel breve interrogatorio, a Ydam fu concesso di raggiungere i suoi compagni.

    Tutta la scuola fu messa al corrente di quel che era accaduto. Così, quando Ydam entrò in classe, fu accolto con un gran sorriso dalla professoressa Àrhadel, un sorriso colmo di ammirazione per quello che aveva fatto. La donna era giovane, alta e magra, con una carnagione e lineamenti che apparivano appuntiti. Aveva lunghi capelli scurissimi, molto ricci e grandi occhi verdi. Indossava una giacca color pèsca, al di sotto della quale spiccava una blusa rossa. Vestiva una gonna molto lunga e stretta, del colore della giacca, sotto la quale calzava scarpette color rubino. 

    Incurante degli sguardi che sentì piombare su di sè, Ydam prese subito posto in classe: è certo che se la signorina Àrhadel lo avesse permesso, Ydam sarebbe stato tartassato di domande, ma fortunatamente questo non avvenne. La donna riprese subito la sua lezione, che quel giorno verteva sulle piante e sul loro ciclo vitale.

    «Ydam! Ydam!» bisbigliò subito dopo il suo vicino di banco.

    Era Grìfis. Allungò il collo verso l’amico, bramoso di soddisfare tutta la sua curiosità.

    «Chi ha aggredito il preside?» chiese incontenibile.

    Ydam, che era un ragazzo diligente, preferì non voltarsi e si limitò ad un cenno con il dito: ne avrebbero parlato più tardi.

    Quando la lezione terminò, Ydam non riuscì a sottrarsi alla sorte: come famelici avvoltoi, i suoi compagni gli si scagliarono addosso, grondanti di curiosità. Ydam spiegò ciò che era accaduto e tutti ascoltarono stupefatti la sua autentica testimonianza: uno stregone aveva visitato la loro scuola, attentando alla vita del loro preside. Una sola domanda s’insinuò nelle menti di tutti i ragazzi: che fosse quello lo stregone responsabile della distruzione di Summèligor avvenuta venti anni prima? Che si riferissero a quell’individuo le poche testimonianze che narravano la vicenda del mago della distruzione? Purtroppo nessuno di loro ne conosceva la risposta.

    La mattinata passò rapidamente e all’ora di pranzo Ydam e Grìfis tornarono a casa insieme, visto che non abitavano lontano l’uno dall’altro. Giunti al crocevia del villaggio si salutarono e presero due direzioni diverse del quadrivio.

    A quell’ora l’anziana signora Smòllett era sempre presente in giardino, appoggiata con entrambe le braccia alla staccionata, curiosa come una gazza per vedere chi passasse. Era però gentile e cortese. Di bassa statura, pingue e un po’curva, aveva capelli castani e ricci. Zoppicava con una gamba. Era sempre cinta da un grembiule bianco.

    «Ciao Ydam!» disse con voce fastidiosa e sbracciando. «Ho saputo quel che si racconta!»

    Come diamine faceva a saperlo già?

    Il ragazzo fece finta di non capire. Sorrise, ricusò e strizzò gli occhi. Conosceva bene l’invadenza dell’anziana signora. Era pettegola come una taccola. Cercò di non rallentare il passo e proseguì rapido verso casa.

    «Sei stato bravo! Poi mi racconterai meglio!» continuò impellente. «Salutami la mamma quando rientri!»

    La casa di Ydam era una delle più belle dell’intero villaggio. Non la più grande ma, senza dubbio, una delle più graziose. Possedeva un grande giardino, nel quale trovavano dimora un gran numero di piante ornamentali, quali anturium, calceolarie, camelie, rose, dature, oleandri e molte altre. Non mancavano gli alberi, come ciliegi e aceri rossi, così tutto diveniva un grande insieme di colori e di profumi. Entrò in casa: come il giardino, anche l’interno dell’abitazione era una sfumatura di colori e di profumi. Il pavimento e i rivestimenti erano in pietra; le finestre di legno disponevano di ampi davanzali, sui quali stavano gerani rossi e altri fiori sgargianti. Nell’angolo della cucina spiccava un caminetto a braci roventi, con un pentolino di acciaio senza coperchio e dal quale fuoriusciva un fumo dall’aroma di rosmarino. Quella piacevole fragranza si diffondeva in tutta la casa.

    La tavola era apparecchiata per due persone. Ydam prese uno dei due piatti, si avvicinò al focolare e lo colmò con un mestolo di zuppa calda.

    «Oh! Ben tornato!» disse una voce graziosa.

    La madre di Ydam era dotata di una particolare bellezza, che lasciava trasparire i tratti tipici delle madri premurose. Aveva un viso lungo e delicato, dai lineamenti dolci, accentuati da una cascata di capelli dorati che le arrivavano alle spalle e dai grandi occhi blu, capaci di rispecchiare una profondità fuori dal comune. Aveva un grembiule stretto in vita. Reggeva una piccola cesta con dei vestiti bianchi ripiegati accuratamente. Il suo nome era Àltea.

    «Ciao mamma!»

    «Spero sia di tuo gradimento. Era un po’ che me lo chiedevi e così…».

    «… hai deciso di accontentarmi» disse contento Ydam.

    Sedettero e gustarono la zuppa a base di cereali e legumi.

    «Com’è andata oggi?» chiese la donna, affondando il cucchiaio nel piatto.

    «Bene, a parte un episodio a cui ho assistito».

    «Quale episodio?» domandò curiosa.

    «Uno stregone ha tentato di uccidere il preside!» rispose l'altro enfatico.

    La donna sorrise incredula: «Sii serio! Tutto bene quindi…»

    «Non sto scherzando!» rispose secco lui. «Un uomo incappucciato lo avrebbe ucciso se non fossi intervenuto. Quando ho aperto la porta, è svanito in una grande fiamma nera».

    Ydam cercò di convincere la madre, ma non ci riuscì. Certo, la serietà del ragazzo impressionò molto la donna, per cui decise che si sarebbe recata di persona alla scuola del figlio l’indomani, per parlare direttamente col preside.

    Quando finirono di mangiare, il ragazzo salì in camera per studiare. Sì lasciò cadere sul letto, poi si tolse gli stivaletti, che buttò noncurante in un angolo della stanza. Si rialzò scalzo e, dopo aver aperto una finestra rotonda per far entrare luce, estrasse un grosso libro dallo zaino, con le pagine spiegazzate, dal titolo "Diversità dei vegetali". Lo buttò disinteressato sulla scrivania e il tomo cadde con un sonoro schiocco. Avrebbe dovuto studiarsi una sacco di pagine per poter sostenere la prova in classe della signorina Àrhadel. Aprì a pagina trecentottantacinque e cominciò a studiare l’argomento che preferiva: i funghi.

    Più tardi venne qualcuno a bussare alla porta della sua camera, qualcuno che Ydam non stava aspettando e che non poteva essere sua madre, visto che la donna non aveva l’abitudine di bussare.

    «Sì» disse esitante, ma con la curiosità  di vedere chi fosse.

    La porta si aprì e fece capolino Grìfis.

    «Ciao! Oh, stavi studiando!»

    «Non preoccuparti. Che ci fai qui?»

    «Non stavo nella pelle!» si scusò l’amico. «Ripensavo a quello che mi hai raccontato! E mi ha preso un’idea grandiosa!»

    «Le tue idee…» replicò Ydam in tono piatto e guardandolo sottecchi. Già sapeva che non avrebbe apprezzato la proposta dell’amico.

    «Ho sentito dire che, da ieri notte, la pietra è diventata lucente!»

    «Cosa vuol dire?»

    «Non capisci? Si è attivata!» rispose Grìfis, enfatico.

    L’espressione di Ydam sfumò completamente, preso in contropiede dalla straordinaria notizia.

    «Credi che la pietra possa avere un qualche legame con Summèligor?» chiese all’amico.

    «È certo che la pietra appartenga al popolo degli sciamani! Ma se l’evento di ieri notte e l’attivazione della pietra fossero collegati, potrebbe voler dire che qualche sciamano è riuscito a scampare all’attacco del mago della distruzione. Questo spiegherebbe anche perché quello stregone si è fatto vivo alla scuola oggi: se fosse davvero il mago della distruzione, avrebbe tutto l’interesse per completare il massacro».

    «Ma non è che una storia!» ridacchiò Ydam, scrollando le spalle. «Non ci sono prove che sia stata la magia a distruggere la città degli sciamani!»

    «Fidati di quel che ti dico!» insistette il ragazzo. «Quell’essere è il mago della distruzione! Non impiegherà troppo tempo per distruggere anche il nostro villaggio se non riuscirà ad ottenere quello che cerca».

    «A cosa stai pensando? Perché sei così agitato?» lo interrogò Ydam.

    «Due dei paladini del regno di Dagòre sono stati chiamati a protezione della pietra. Arriveranno domani mattina».

    «Dici davvero?» Ydam trasalì. «I draghi di re Gàlomir verranno qui?»

    «Non fraintendermi! Non sono venuto qui per parlarti di questo. Dubito che i draghi saranno in grado di opporsi alla magia dello stregone nel caso in cui quell’essere decidesse di ritornare. Trasporteranno la pietra all’interno della piramide».

    «Qual è il problema? La porteranno al sicuro. Una volta nascosta nessuno saprà più dove si trova».

    Ydam non capiva dove Grìfis voleva arrivare.

    «Ydam! Non ho mai visto quella pietra brillare nell’oscurità. Voglio vederla! Vieni con me! Accompagnami!» supplicò l’amico con occhi sognanti.

    «Di notte?» chiese l’altro con gli occhi fuori dalle orbite.

    «Non avrai paura del buio! Potremmo dire di averla vista almeno una volta!» continuò Grìfis.

    «Ma è proibito avventurarsi nel bosco di notte. E se dovessero scoprirci?» 

    «Non preoccuparti» lo rassicurò Grìfis, scuotendo la testa e chiudendo gli occhi in un’espressione che lasciava trasparire quanto fosse sicuro di sé. «Ci terremo a debita distanza. Dicono che la luminosità della pietra sia visibile anche da lontano».

    Benché inizialmente fosse in disaccordo, Ydam alla fine si lasciò convincere dalle parole dell’amico. D’altronde non avrebbero fatto nulla di male. Forse quella sarebbe davvero stata la prima ed ultima volta in cui avrebbero avuto la possibilità di vedere una pietra incantata in piena attività.

    «Va bene… verrò!» disse, dopo un momento di riflessione. «C’è solo un problema: mia madre s’insospettirebbe se uscissi di casa di notte».

    «Ho pensato anche a questo: dirai a tua madre che verrai a dormire da me. Partiremo da casa mia!»

    Fu sorprendente come Grìfis avesse già pensato ad ogni dettaglio. Non era solito organizzarsi in quel modo. Sembrava essere davvero tanta la sua voglia di vedere la pietra degli sciamani.

    Quel pomeriggio studiarono assieme fino a tardi. Quando il sole cominciò a tuffarsi oltre l’orizzonte, Grìfis tornò a casa.

    CAPITOLO II

    Un viaggiatore nell’oscurità

    Notte fonda sugli scoscesi pendii della catena montuosa di Sàgradum. Solo il candido bagliore lunare illuminava quelle alte cime innevate, che, come nastri argentati, serpeggiavano in quella languida oscurità. Una piacevole brezza montana spirava fresca e leggera.

         Una figura oscura, avvolta in un lungo mantello, cavalcava, in sella al suo destriero, un ripido sentiero, dirigendosi a valle verso Tarkùm. Il viandante era quasi giunto ai piedi del monte Hykdon, quando il cielo cominciò improvvisamente ad annuvolarsi. Un minaccioso fronte di nubi temporalesche scivolò come pece oleosa contro il cielo stellato; la luna fu interessata da un ripetitivo oscuramento, cosicché il suo pallido chiarore splendeva sul terreno creando aree di luce danzanti, che comparivano e scomparivano frenetiche ovunque si volgesse lo sguardo. I nembi tetri raddensarono e il bagliore dell’astro venne completamente eclissato. Una lugubre tenebra strisciò sui territori meridionali delle terre incantate, spingendosi verso nord. Il rombo del tuono si fece più poderoso e lampi verdastri illuminarono a giorno ogni luogo pervaso dall’oscurità. Folgori violacee schioccarono sulle cime dei monti, riecheggiando crepitanti tra gli anfratti della catena montuosa di Sàgradum.

    Il viaggiatore si discostò dal sentiero e cominciò a fiancheggiare il profilo roccioso del monte Hykdon – il rilievo più imponente di tutta la serie montuosa – in cerca di un rifugio. Non appena l’ebbe trovato, un violento acquazzone si riversò furente su quei territori.

    Improvvisamente, la figura del viandante risplendette nella notte; a quella luce intensa, il suo cavallo rampò spaventato, e l’uomo cercò di non perdere l’equilibrio. Una pietra ora scintillava sul suo bastone da passeggio.

    Il pellegrino entrò all’interno di una grotta – che tutti sapevano essere la tana di una strega. Lì, scese da cavallo e tranquillizzò l’animale con qualche carezza sul collo poderoso. Rimase molto tempo a contemplare la luce di quella pietra. Era una luce talmente intensa che permise di mettere in risalto i particolari del viandante: una figura alta e magra. Al di sotto del mantello bruno che lo avvolgeva, indossava un vestito porpora molto scuro e pantaloni marroni, cinti in vita da una grossa cintura di cuoio losangata. Il mantello si continuava in un largo cappuccio di lana, di un colore marrone esternamente e con una fodera interna rossastra, adatto a proteggerlo dal freddo pungente di quei luoghi.

    Abbassò il copricapo, rendendo ben visibili i lineamenti austeri: un lungo naso aquilino si stagliava sul suo volto scavato e grinzoso. Gli occhi incassati avevano una colorazione blu intensa ed erano incorniciati da folte sopracciglia scure. Rughe profonde scavavano la fronte alta. Le labbra erano appena visibili, nascoste da una folta e lunga barba ferrigna. Il volto aveva come cornice una moltitudine di capelli brizzolati, tratto inconfondibile dei numerosi inverni sulle sue spalle. Con la mano destra teneva il bastone: un pezzo di un legno scuro e levigato, più sottile e consunto nell’estremo inferiore, che s’ispessiva progressivamente verso l’alto, fino a terminare in tre protuberanze ricurve, trattenenti la pietra lucente.

    Visibilmente preoccupato, l’uomo si sedette, appoggiandosi con la schiena alla parete dell’antro. Incrociò le braccia e cominciò a pensare, tenendo lo sguardo fisso sull’oggetto scintillante. Attese per molte ore il passaggio della tempesta, meditando sugli eventi che si erano inaspettatamente verificati.

    Quando, più tardi, lo scroscio della pioggia si ridusse ad un’acquerugiola, il viandante si sporse dalla caverna e si accertò che il peggio fosse passato. Benché piovesse poco, continuava a tuonare e il cielo veniva illuminato ovunque da bagliori verdi e violacei.

    Si rimise a cavallo ed uscì dalla grotta. Tiratosi il cappuccio sulla testa, imboccò nuovamente il sentiero lastricato, riprendendo la strada per Tarkùm. Galoppò a lungo su quella stradina ora fangosa e ricoperta di ampie pozze d’acqua. Arrivò presto a metà strada, giungendo nei pressi delle paludi di Vàlak. Si trattava di un luogo immerso in una coltre di nebbia densa. Ovunque spuntavano boschetti d’alberi dai tronchi ritorti che si tuffavano nell’acqua scura e maleodorante. C’erano un’infinità di radici aeree che

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