Confessioni di un Europeo
By Silvio Bosco
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ed il quasi impossibile del riconoscimento della propria ricchezza e complessità che nessun nazionalismo o confine tollerano.
Questa ricchezza, questa complessità sono una scoperta che avviene nel tempo, nello studio ,senza dubbio, a cui fa riscontro nel libro l'intenso uso delle citazioni e nelle esperienze proprie e di chi lo circonda ma soprattutto nei sogni, nei sogni ad occhi aperti l’europeo vede, interpretando simbolicamente, l accostarsi degli opposti, un’infinita ricchezza, la saggezza ed il suo contrario ed attraverso essi apre la porta verso nuove convinzioni ed il superamento di se stesso e le speranze di un futuro politico che non sia il permanere in Europa degli Stati nazionali sovrani: queste speranze concrettizandosi, questa dialettica fra il personale ed il generale finalmente risolvendosi alla fine del Libro (alla fine di un viaggio) quando le proprie esperienze interiori giunte ad un punto di non ritorno si saldano con concreti fatti politici e
della Storia europea come fin dalla prefazione si é cercato di mostrare.
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Book preview
Confessioni di un Europeo - Silvio Bosco
EPILOGO
SILVIO BOSCO
Note dell’autore
L’uso intenso ed apparentemente eccessivo delle citazioni si giustifica con il fatto che esse sono parte integrante del racconto, delle confessioni
.
Questo libro e’ dedicato al mio amico Gianni Leon Depalmas senza il quale non lo avrei mai scritto.
PROLOGO
La vita è dappertutto, la vita è in noi stessi e non fuori di noi. Accanto a me ci saranno degli esseri umani ed essere uomo fra uomini, e restarlo per sempre, in nessuna sventura avvilirsi o perdersi d’animo, ecco in cosa consiste la vita, ecco il suo compito.
Questa idea e’ entrata nella mia carne e nel mio sangue.
Fëdor Michajlovic Dostoevskij
«l’eroica breve avventura della ‘Rosa Bianca costituisce il capitolo più bello e puro della Resistenza tedesca. Qui non ci sono calcoli di partiti passati o futuri, non sapienti meditazioni sul possibile, sul probabile; non ci sono esitazioni paralizzanti dinanzi al mito della patria in guerra che non bisogna colpire. Qui c’è solo il semplice schietto coraggio morale che, una volta riconosciuto il cammino giusto, decide di percorrerlo e lo percorre con fermezza fino alla fine»
Altiero Spinelli
Ci sono parole che ci cadono dentro, altre, invece, rimangono soltanto in superficie. Le prime portano con sé immagini che sono la sostanza dei sogni, mentre le seconde, nella loro impotenza, nella loro rabbia, possono soltanto fare male.
E le parole del potere sono spesso cosi’ banali, da non avere spessore alcuno tanto da essere esse stesse la personificazione del male, come la condanna che Roland Freisler, Presidente della Corte del Popolo nel regime nazionalsocialista tedesco, pronuncio’ contro Sophie Scholl e la Rosa Bianca:
« Gli accusati hanno, in tempo di guerra e per mezzo di volantini, incitato al sabotaggio dello sforzo bellico e degli armamenti, e al rovesciamento dello stile di vita nazionalsocialista del nostro popolo, hanno propagandato idee disfattiste e hanno diffamato il Führer in modo assai volgare, prestando così aiuto al nemico del Reich e indebolendo la sicurezza armata della nazione. Per questi motivi essi devono essere puniti con la morte. »
Dice proprio cosi, si!, dei volantini, dei pezzi di carta scritti dalla Rosa Bianca indebolivano la sicurezza armata della nazione; la sicurezza dello Stato nazionale sovrano, totalitario e in guerra era minacciata da volantini scritti da giovani studenti che avevano scelto la nonviolenza come metodo di resistenza.
Come era possibile? quale pericolo contenevano questi volantini per giustificare la reazione di Freisler e di tutto un regime?
Come poteva lo Stato nazionale sovrano più militarizzato di sempre aver paura di 7 (!) volantini? e come l’assenza di secondi fini e la semplicità di Sophie Scholl potevano suscitare l’impaurita ed isterica reazione degli apparati più sensibili della sicurezza dello Stato sovrano?
Certo, in quei pezzi di carta c’erano le idee, si citava Goethe e Novalis, si parlava dell’ Europa e della religiosità, ma quante volte queste stesse parole sono state dette e ridette ed in contesti ben piu’ attrezzati di 7 volantini, il più delle volte senza lasciare traccia, senza convincere nessuno, senza far paura a nessuno, a maggior ragione ad uno Stato armato fino ai denti, centralizzato, sovrano, totalitario e dotato di tutti gli strumenti di potere; ma come era possibile che il riferimento ad un’ Europa libera e federale ed alla libertà poteva intimorire lo Stato nazionale sovrano per eccellenza, il più forte, il più spietato?
Ma le cose andarono diversamente.
Non c’erano gravi fatti o azioni straordinarie ma soltanto parole scritte sull’effimera carta e corpi inermi che a quelle parole spiritualmente e fisicamente aderivano, quei corpi diventando le parole che così si accendevano di vita: era come se fossero proprio Goethe e Novalis ad alzare il dito accusatore in una capitiniana compresenza dei vivi e dei morti, era come se la speranza di un’ Europa federale e la religione della libertà avessero trovato un corpo, una parola attraverso cui esprimersi perché che cosa é la verità se non viene detta, se non viene vissuta.
Di fronte alle idee di libertà che prendevano vita, una vita reale, che si facevano, letteralmente, carne e sangue si stagliava l’immagine deformata ed orrenda del dispotismo e del suo nichilismo, dell’unilateralità e dell’ignoranza dello Stato nazionale sovrano, oggi come ieri, e della sua banale malignità.
INIZIO
I
Quel, che dà legge à gli alti Dei del cielo, Quel, ch’ad un cenno il mondo fa tremare
Chi con sua pioggia, e con suo ardente telo.
Può sommerger la terra, ardere il mare, Vestì mentito, e vergognoso pelo, Per lascivo pensier, per troppo amare, Fuor d’ogni degnità, d’ogni decoro Prese per troppo amor forma d’un Toro.
Ovidio, Le Metamorfosi, Lib. II
Bagna di pianto la donzella il volto, Che la terra ogn’ hor più s’asconde, e abbassa.
Dritto à Favonio il toro il nuoto volto, Cipro, e Rodi à man destra vede, e passa.
Veder dal lato manco à l’occhio è tolto
Le gran bocche del Nil, ch’ à dietro lassa.
Ella non crede più poter campare, Ch’altro veder non può, che cielo, e mare.
Ovidio, Le Metamorfosi, Lib. II
Io sono un malato.
Incontrovertibilmente, io sono un malato sin da quando ho ricordi e non sono tanti, anzi, al contrario, comincio col dire che sono più i vuoti, le attese, le infeconde ripetizioni, la noia dell’inconsapevolezza che la memoria di ciò che avvenne e che mai avvenne del tutto avendo, forse, potuto avvenire; e sono più le assenze di qualcosa che ha lasciato pur dovendoci essere, lì, da qualche parte nascosta, incomprensibilmente assente dal suo posto lasciando stupiti e rassegnati, che i fatti da raccontare, le storie, il divenire delle cose.
Avevo solo interpretazioni, tante e contradditorie, di ciò che sarebbe dovuto avvenire, presto o tardi, ognuna corretta ed esatta per il punto di vista che le esprimeva che io ingenuamente credevo fosse sempre uno: ma così non era e non é.
Ed infatti, la situazione é la stessa, ieri come oggi, sembra passato un secolo o appena cinque minuti, ancora, dunque, come ieri io vivo nelle manie della mia irriducibilmente inattiva angoscia del vivere e fermo nelle mie posizioni le vedo ogni giorno travolte dalla malattia e dall’impotenza per rinascere ogni giorno ancora una volta le stesse già vecchie e logore, compagne invise della mia anima a cui la gioia negano nell’ombra scialba della mia esistenza.
La mia é stata una non esistenza piena di pensieri fino all’inverosimile, di dubbi, domande e risposte le più disparate e diverse; di sentimenti che su loro stessi si avvitavano fino a disperdersi e scomparire nei recessi della memoria e mai del cuore, di azioni immaginate ed immaginarie che pretendevano di riempire i vuoti delle assenze e dell’inattività ma lasciando ogni volta il sapore amaro e nevrotico della pochezza.
Io sono, quindi, malato, sono anche angosciato dalla mia inattività e per queste ragioni sono un inguaribile egocentrico: io sono senza dubbio un egocentrico.
Nella malattia e nell’impotenza io, si, io, vedo solo me stesso, tutto mi gira attorno e come in una cella la mia mente cammina seguendo sempre gli stessi passi, dicendo sempre le stesse parole ed immaginandosi libera e piena di ragioni e giudizi, incapace di assumere anche per un solo istante il punto di vista di chicchessia, nelle ragioni e nei giudizi senza dubbio ma anche nei sentimenti, nel dare e nel ricevere, nelle simpatie ed antipatie, negli istinti e nelle reazioni fulminee, io sono sempre presente ed in primo piano tutto passando attraverso me, potente filtro che dietro di se lascia tutto eccetto il piacere di se stesso.
Ecco, così inizio questo scritto intitolato "Confessioni di un europeo" e che di Europa vorrebbe parlare riconoscendo che sono un malato, un egocentrico ed un impotente; sono tutto questo e mi occupo di politica e le mie vogliono essere le confessioni di un europeo siffatto che vive si in Europa ma in una patria confinato da una coscienza e da una cultura nazionaliste ignoranti delle proprie possibilità e della profondità degli spazi personali e degli altri, altri luoghi, persone e tempi.
Qual é la mia malattia? Quali le ragioni della mia pena e della compassione di me stesso? Essa é ereditaria e si chiama Storia.
Storia della mia terra, del mio ambiente, della mia famiglia e di chi mi generò; la mia malattia é ciò che io sono nella sua odierna attualità e nella trasmissione ad essa di un lontano passato, spesso inafferabile.
La mia Storia vive nella confusione delle identità, tante e diverse, recenti ed antiche, consapevoli o profonde, presenti ed invisibili ma non per questo meno attive nel determinare la vita.
La mia Storia é anche stanchezza del presente che non sa dove andare e ancor meno come andarvi piegata sulla cultura dell’oggi