Discover millions of ebooks, audiobooks, and so much more with a free trial

Only $11.99/month after trial. Cancel anytime.

Prima di Adamo (Before Adam)
Prima di Adamo (Before Adam)
Prima di Adamo (Before Adam)
Ebook295 pages6 hours

Prima di Adamo (Before Adam)

Rating: 0 out of 5 stars

()

Read preview

About this ebook

Romanzo di avventura, che narra come il protagonista si risvegli bambino in una terra sconosciuta nel paleolitico, a fianco dell'amico Orecchio Pendente e del Popolo degli Alberi sarà impegnato in una dura lotta per la sopravvivenza e contro le violenze del temibile Occhio Rosso e dello spietato Popolo del Fuoco... Libro in lingua originale inglese con traduzione in italiano.
LanguageEnglish
PublisherKitabu
Release dateJun 13, 2012
ISBN9788867440818
Prima di Adamo (Before Adam)
Author

Jack London

Jack London was born in San Francisco in 1876, and was a prolific and successful writer until his death in 1916. During his lifetime he wrote novels, short stories and essays, and is best known for ‘The Call of the Wild’ and ‘White Fang’.

Read more from Jack London

Related to Prima di Adamo (Before Adam)

Related ebooks

Children's Action & Adventure For You

View More

Related articles

Reviews for Prima di Adamo (Before Adam)

Rating: 0 out of 5 stars
0 ratings

0 ratings0 reviews

What did you think?

Tap to rate

Review must be at least 10 words

    Book preview

    Prima di Adamo (Before Adam) - Jack London

    PRIMA DI ADAMO

    Jack London, Before Adam

    Originally published in English

    ISBN 978-88-674-4081-8

    Collana: RADICI

    © 2014 KITABU S.r.l.s.

    Via Cesare Cesariano 7 - 20154 Milano

    Ti ringraziamo per aver scelto di leggere un libro Kitabu.

    Ti auguriamo una buona lettura.

    Progetto e realizzazione grafica: Rino Ruscio

    "Questi sono i nostri antenati e la loro storia è la nostra storia. Ricordatevi che come è certo che un giorno noi scendemmo dagli alberi per camminare eretti al suolo, così è altrettanto certo che in un'epoca ancora più lontana, siamo usciti arrampicandoci dal mare, per iniziare la nostra prima avventura sulla terra ferma"

    CAPITOLO I.

    Prima che sapessi, mi sono spesso domandato da dove venisse la moltitudine delle immagini che popolava i miei sogni, e che erano del tutto diverse dalla realtà dello stato di veglia. Esse tormentarono la mia infanzia, facendo dei miei sogni una serie d'incubi e, un po' più tardi, mi convinsero che io differivo dal resto della mia specie, che ero un essere contro natura e maledetto.

    Godevo la mia parte di felicità solo durante il giorno; le mie notti segnavano il regno della paura... e di quale paura! Oso affermare che nessun uomo, tra quelli che con me vivono su questa terra, ha mai sofferto uno spavento di tale natura e di tale intensità; giacché la mia paura è la paura della lontananza del tempo che fu, la paura che predominava al tempo della nascita del mondo e al tempo della giovinezza del mondo nascente; la paura, insomma, che regnava suprema durante il periodo conosciuto col nome di Medio Pleistocene.

    Che cosa intendo dire con ciò? Sento che è necessaria una spiegazione prima che incominci ad esporre qual era il contenuto dei miei sogni, diversamente voi ben poco comprendereste il significato di cose che per me sono così familiari. Mentre scrivo, tutti gli esseri, tutti gli avvenimenti di questo mondo dei miei sogni sorgono dinanzi ai miei occhi in una vasta fantasmagoria, ma so che per voi essi sarebbero senza connessione e senza ragione.

    Che cosa possono significare per voi l'amicizia di Orecchiuto, la calda seduzione della Rapida, la concupiscenza e l'atavismo di Occhiorosso? Stridenti incoerenze e null'altro. Incoerenze stridenti quanto i fatti e le gesta del Popolo del Fuoco e del Popolo degli Alberi e le inintelligibili assemblee delle orde. Nulla potete sapere voi che ignorate la pace delle fresche caverne sul fianco delle rupi e il giocondo andirivieni all'orlo dell'acqua dove andavamo a dissetarci sul calar del giorno; voi che non avete mai conosciuto il morso pungente del vento mattutino sulla cima degli alberi e il sapore della giovane corteccia dolce al palato.

    Credo perciò che sarebbe stato meglio per voi essere iniziati come lo fui io al tempo della mia infanzia. Bambino, di giorno ero uguale agli altri bambini; ma nel sonno ero del tutto diverso. Sin dagli anni di cui la mia mente conserva vivo il ricordo, il mio sonno fu sempre un periodo di terrore. Molto raramente i miei sogni si coloravano di felicità; in genere erano fatti di paura, di una paura così strana, così folle da non esservi nulla di paragonabile. Nessuna delle paure che provai nelle ore di veglia assomiglia alla paura che s'impadroniva di me durante il sonno: paura d'un genere tale da superare tutte le mie esperienze.

    Ragazzo nato e allevato in città, la campagna rappresentava per me un terreno inesplorato. Tuttavia non sognavo mai la città, né appariva mai una casa in uno dei miei sogni, come del resto nessun essere umano oltrepassava mai la barriera del mio sonno. Io, che avevo visto alberi solo nei parchi e nei libri illustrati, erravo attraverso foreste sconfinate. Inoltre, questi alberi di sogno non erano una semplice percezione confusa della mia visione, ma erano ben netti e distinti.

    Ero in termini d'intimità vissuta con essi; ne vedevo ogni ramo, ogni gemma; vedevo e conoscevo ogni foglia.

    Ho serbato il ricordo preciso della prima volta in cui, allo stato di veglia, vidi una quercia. Guardando le foglie, i rami, i nodi, ricordai con una lucidità impressionante di aver già visto moltissime altre volte quella stessa specie d'albero durante il mio sonno. Così non fui affatto sorpreso più tardi, nel riconoscere immediatamente, appena li vidi, alberi come l'abete, il tasso, la betulla, il lauro.

    Io li avevo già visti tutti e li vedevo ancora tutti, ogni notte, durante il mio sonno.

    Come avrete già osservato, tutto ciò viola la legge fondamentale dei sogni, vale a dire la regola per cui ciascuno vede in sogno solo quello che ha visto allo stato di veglia, o combinazioni di cose da lui viste allo stato di veglia. Ebbene, tutti i miei sogni andavano contro questa regola: mai ho visto in sogno qualcosa di cui abbia avuto conoscenza essendo desto. La mia vita durante i sogni e la mia vita allo stato di veglia erano due vite nettamente separate, che non avevano nulla di comune tra esse all'infuori della mia persona. Io ero, in un certo modo, il tratto d'unione vivente tra quelle due esistenze.

    Sin dai primi anni della mia infanzia appresi che le noci si comprano dal droghiere, la frutta dal fruttivendolo; ma ben prima di sapere questo io avevo in sogno colto le noci sugli alberi o le avevo raccattate in terra sotto gli alberi stessi, come pure avevo mangiato frutti colti sugli arbusti e sui cespugli, quantunque una simile cosa mai mi fosse accaduta durante la vita trascorsa ad occhi aperti.

    Non dimenticherò mai la prima volta che vidi servire a tavola i mirtilli. Mai quei frutti mi erano comparsi davanti agli occhi, e tuttavia, vedendoli, mi vennero improvvisamente alla memoria ricordi di sogni durante i quali avevo errato in una zona paludosa facendo una scorpacciata di mirtilli. Mia madre mi pose davanti un piatto pieno di questi frutti; subito ne presi una cucchiaiata, ma prima ancora di averla portata alla bocca io sapevo perfettamente il sapore che avrebbero avuto i mirtilli. E non m'ingannai: era un sapore aspro che avevo conosciuto mille volte durante il sonno.

    E i serpenti? Molto tempo prima che avessi sentito dire della loro esistenza, essi mi tormentavano durante il sonno. Mi aspettavano annidati nelle radure delle foreste, si slanciavano come frecce sotto i miei piedi, fuggivano ondulando attraverso l'erba secca o sulle rocce nude; oppure m'inseguivano fin sulla cima degli alberi, attorcigliando i loro grandi corpi lucidi ai tronchi, scacciandomi sempre più in alto o sempre più lontano sui rami che oscillavano scricchiolando, mentre il suolo sembrava inabissarsi a una distanza vertiginosa. I serpenti!... Con la loro lingua bifida, i loro occhi rotondi, le loro scaglie scintillanti e il loro tintinnio stridulo, li conoscevo anche troppo bene allorché la prima volta che entrai in un circo vidi l'incantatore di serpenti prenderli tra le mani e sollevarli! Erano per me vecchie conoscenze, o piuttosto vecchi nemici, che popolavano di terrore le mie notti.

    Ah, quelle foreste sconfinate e la loro oscurità piena d'orrore! Per quante eternità non ho errato nel loro seno, io essere timido, perseguitato, allarmato dal minimo rumore, spaventato dalla mia stessa ombra, coi nervi tesi, sempre all'erta, pronto ad ogni istante a balzar lontano in una corsa folle per scampare la vita! Perché io ero la preda offerta a tutte le specie di esseri feroci che abitavano la foresta, ed era con paura delirante che fuggivo davanti ai mostri in caccia.

    Avevo cinque anni quando andai per la prima volta al circo. Tornai a casa malato; malato e non per colpa dei dolciumi e delle bibite.

    Bisogna che vi racconti come andò. Quando entrammo nella tenda dove si trovava il serraglio, un ruggito rauco lacerò l'aria. Ritirai bruscamente la mano da quella di mio padre e urlando di terrore mi precipitai perdutamente verso l'uscita, urtai altra gente, caddi e rimasi tremante di paura. Mio padre, avendomi raggiunto, mi calmò; mi mostrò che il pubblico non era affatto spaventato dei ruggiti e mi rianimò assicurandomi che la nostra sicurezza era perfetta.

    Nondimeno fu soltanto tremando di paura e spinto dagli incoraggiamenti di mio padre, che mi accostai finalmente alla gabbia del leone. Come lo riconobbi subito! Era la Bestia, la Bestia terribile! E subito mi balenarono nella memoria i ricordi dei miei sogni: il sole meridiano che faceva brillare le alte erbe, il toro selvatico che pasceva tranquillo, l'improvviso dividersi delle erbe sotto la rapida corsa della belva che si gettava sul dorso del toro, e lo strepito della lotta e i muggiti e lo stritolìo delle ossa; oppure la calma frescura dell'abbeveratoio, il cavallo selvatico immerso nell'acqua sino a mezza gamba, che beveva tranquillamente, e ancora la Belva, sempre la Belva! e il salto e il nitrito e lo sbuffo del cavallo e lo scricchiolio prolungato delle ossa; e ancora, durante il cupo crepuscolo e il silenzio triste del giorno che volge alla fine, l'improvviso ruggito possente, lanciato a piena gola, inatteso come il richiamo della tromba del destino, e subito dopo urli e balbettii di spavento in mezzo al fogliame, dov'ero anch'io, tremante di paura, unità smarrita della folla urlante e balbettante sugli alberi.

    Nel vedere la Belva, impotente dietro le sbarre della gabbia, diventai furioso. Digrignai i denti, danzai avanti e indietro lanciandole grida beffarde, incoerenti, e facendo smorfie grottesche. Il leone rispose scagliandosi contro le sbarre e ruggendo verso di me la sua inutile rabbia. Ah, anche lui mi riconosceva, e capiva bene i suoni che io emettevo: le grida di antichi tempi.

    I miei genitori erano spaventati: Questo ragazzo è malato, diceva mia madre. Ha un attacco di nervi, disse mio padre. Io non ho mai detto loro la verità, ed essi l'ignorano ancora. Avevo già circondato di reticenze la mia dualità, quella semi- dissociazione della mia personalità, come credo di poterla chiamare.

    Vidi l'incantatore di serpenti, e questo fu tutto quel che vidi quella sera. Mi ricondussero a casa snervato, esaurito dalla stanchezza, reso malato da quella irruzione della mia vita di sogno nella mia vita reale.

    Ho parlato della mia reticenza. Una sola volta confidai la stranezza di quel che mi accadeva a un compagno che aveva otto anni come me. Dai miei sogni ricostruii per lui le immagini di quel mondo svanito dove credo veramente d'esser vissuto un tempo. Gli parlai dei terrori di quell'epoca tanto remota, di Orecchiuto, degli scherzi che facevamo insieme, dei ciangottii inintelligibili, degli Uomini del Fuoco e dei ricoveri dove si annidavano.

    Il mio compagno si burlò di me e mi raccontò certe storie di fantasmi e di morti che tornano la notte. Soprattutto volse in ridicolo ciò che egli considerava come scialbi prodotti della mia fantasia. Alle altre storie che gli raccontai, per tutta risposta, mi rise bellamente sulla faccia. Giurai con tutta sincerità che le cose stavano precisamente così, e allora egli incominciò a guardarmi in modo strano, e fece poi agli altri compagni un racconto così sbalorditivo delle mie confidenze che tutti presero a considerarmi in una maniera insolita.

    Questa amara esperienza mi servì di lezione. Io ero un essere diverso da quelli della mia specie; ero anormale nel senso che essi non potevano comprendere e io non potevo loro spiegare senza dar luogo a malintesi. Quando tra compagni si raccontavano in circolo storie di spettri e di fantasmi, io tacevo, ma dentro di me sorridevo in maniera spaventosa, rabbrividente. Pensavo alle mie notti di terrore, sapevo che le mie parole erano fatti reali, veri come la vita e non vapori impalpabili e ombre immaginarie.

    Perché nessuno spavento mi coglieva al pensiero dei lupi mannari e degli orchi malvagi. La caduta da un'altezza vertiginosa attraverso il fogliame degli alberi, ecco; i serpenti che mi si attorcigliavano addosso e che io evitavo saltando lontano, mentre mi battevano i denti; i cani selvatici che m'inseguivano attraverso le radure sino al rifugio delle foreste; ecco, questi erano terrori concreti e reali, fatti e non immaginazioni, cose di carne viva, di sudore, di sangue.

    Orchi e lupi mannari sono stati per me dei buoni compagni di letto in confronto agli orrori che divisero il mio letto al tempo della mia infanzia e lo dividono anche ora che, giunto all'età matura, traccio questi ricordi.

    CAPITOLO II.

    Ho detto che nei miei sogni non vedevo mai esseri umani. Mi accorsi presto di questo fatto e risentii in modo piuttosto pungente questa assenza della mia propria specie. Anche quand'ero bambino, avevo la sensazione, in mezzo all'orrore dei miei sogni, che se avessi incontrato un uomo, un solo essere umano, mi sarei salvato dai sogni e dai terrori che mi circondavano durante il sonno. Questo pensiero turbò per anni interi le mie notti: se potessi trovare quest'essere umano, sarei salvo!

    Devo ripetere che questa idea mi sorprendeva proprio nel bel mezzo del sogno e da ciò desumo l'evidenza della coesistenza delle mie due personalità, la prova che esiste un punto comune alle due parti dissociate del mio io. La mia personalità di sogno viveva nei tempi remoti, prima ancora che esistesse l'uomo come noi lo conosciamo, e l'altra mia personalità, quella della mia vita reale, si fondeva nella sostanza dei miei sogni per quanto è concesso alle conoscenze delle vite d'un uomo.

    Forse gli psicologi togati troveranno da ridire sul significato che io attribuisco alle parole dissociazione della personalità. So benissimo in che senso essi ricorrono a questo termine, ma sono costretto a servirmene a modo mio, in mancanza di altri più appropriati. Comunque io mi riparo dietro l'insufficienza della lingua. Ed ora veniamo all'uso o al cattivo uso che io faccio di questo termine.

    Ebbi una prima indicazione sul significato e sulla causa dei miei sogni solo quando, ragazzino, venni messo in collegio. Fino allora quei sogni erano rimasti privi di significato e senza causa apparente.

    Ma in collegio mi fu rivelata l'evoluzione e la psicologia e conobbi la spiegazione di sensazioni e di stati mentali diversi e strani. Vi era, ad esempio, il sogno della caduta attraverso lo spazio: avventura che accade più comunemente in sogno e che ciascuno di noi conosce per esperienza personale.

    Il mio professore mi disse che era un ricordo di razza che risale ai nostri antenati lontanissimi che vivevano sugli alberi. Siccome erano arboricoli, il rischio di cadere rappresentava per loro una minaccia sempre presente. Infatti molti di essi persero la vita in questo modo, cadendo; ma in generale tutti fecero cadute terribili, scampando alla morte solo afferrandosi ai rami mentre precipitavano verso il suolo.

    Beninteso, una caduta così terribile, e interrotta in una simile maniera, produceva nell'organismo una scossa che, a sua volta, provocava delle modificazioni molecolari nelle cellule cerebrali.

    Queste modificazioni molecolari si trasmettevano alle cellule cerebrali della discendenza e diventavano insomma dei ricordi ereditari. Così, quando io e voi, addormentati o assopiti, cadiamo attraverso lo spazio e torniamo in noi con una sensazione di batticuore, proprio nell'attimo immediatamente prima di fracassarci le ossa sul suolo, non facciamo che ricordarci di quel che avvenne ai nostri antenati arboricoli e che si è impresso, per le successive modificazioni cerebrali, nell'eredità della specie.

    Nulla c'è di strano in questo, come nulla c'è di strano in un istinto.

    Un istinto è semplicemente un'abitudine che si è impressa nella materia della nostra eredità, ecco tutto. E' da notare, per inciso, che in questo sogno della caduta, che è familiare a voi, a me, a tutti, giammai noi tocchiamo il suolo. Cadere sul suolo equivale a morire. I nostri antenati arboricoli che cadevano a terra morivano sul colpo. E' vero che la scossa della caduta si comunicava alle loro cellule cerebrali, ma essi morivano immediatamente, prima di poter generare una discendenza. Voi ed io discendiamo da quelli che non toccarono terra; e per questo appunto né voi né io non tocchiamo mai il suolo cadendo in sogno.

    Veniamo ora alla dissociazione della personalità. Noi non abbiamo mai questa sensazione della caduta quando siamo allo stato di veglia. La nostra personalità di veglia la ignora. Allora (e qui l'argomento è irresistibile) deve essere una personalità ben distinta che cade quando noi dormiamo e che ha già l'esperienza di questa caduta; che ha, insomma, un ricordo delle avventure capitate a una specie scomparsa, allo stesso modo come la nostra personalità di veglia ha il ricordo degli avvenimenti della nostra vita reale.

    Fu a questo punto del mio ragionamento che incominciai a veder la luce, e ben presto questa luce scintillò su di me con un fulgore abbagliante, illuminando e svelando tutto quello che c'era di spaventoso, d'irreale, di antinaturale, d'impossibile nelle mie avventure di sogno. Nel sonno non era la mia personalità di veglia che mi guidava, ma una personalità diversa e ben distinta, che possedeva un fondo di esperienze nuovo e totalmente diverso, e che aveva, dal punto di vista dei miei sogni, il ricordo di quelle avventure del tutto distinte.

    Qual era questa personalità? Quando aveva essa stessa vissuto una vita di veglia su questa terra per raccogliervi una collezione di avventure così strane? Queste erano le domande alle quali rispondevano i miei sogni stessi. Questa personalità visse in tempi preistorici, all'epoca della giovinezza del mondo, durante il periodo che noi chiamiamo Medio Pleistocene; rabbrividì di terrore al ruggito del leone; fu inseguita dalle fiere, minacciata dai serpenti dal morso mortale; balbettò nelle radunate coi suoi simili; fu angariata, malmenata dagli Uomini del Fuoco quando fuggì dinanzi alla loro invasione.

    Ma voi obietterete: Come mai questi ricordi non sono comuni anche a noi, dato che anche noi abbiamo una vaga personalità che precipita attraverso lo spazio mentre dormiamo?.

    A questa domanda risponderò con un'altra domanda: perché vi sono dei vitelli a due teste? La mia risposta è che vi sono dei fenomeni. E questa è anche la risposta che do alla vostra domanda: io possiedo quest'altra personalità e questa completa memoria atavica perché sono un fenomeno.

    Voglio essere ancora più esplicito. Il ricordo di specie più comune che noi abbiamo è il sogno della caduta nello spazio. Appunto perché è molto vaga, questa seconda personalità ha conservato questo solo ricordo. Ma molti di noi hanno personalità diverse più nitide, più distinte. Numerose sono le persone che sognano di volare nell'aria, che sono inseguite da mostri, che fanno sogni colorati, che nel sogno patiscono il soffocamento, che in sogno vedono rettili e vermi di ogni sorta. In una parola, mentre questa personalità diversa è in noi generalmente allo stato di vestigio, in alcuni è quasi obliterata e in altri è più accentuata. Certuni hanno dei ricordi di specie più forti, più completi di certi altri.

    Tutto ciò non costituisce che una questione di grado variabile nel possesso di quest'altra personalità. In me, questo grado di possesso è enorme. L'altra personalità è in potenza quasi uguale alla mia propria personalità. Perciò io sono, come ho già detto, un fenomeno, un capriccio dell'ereditarietà.

    Credo che sia effettivamente il possesso di questa altra personalità - ma a un grado inferiore al mio - che in talune persone abbia fatto credere ad esperienze compiute in precedenti reincarnazioni. Per queste persone ciò è plausibile, è un'ipotesi convincente. Quando hanno visioni di scene che non hanno mai veduto essendo in carne ed ossa, ricordi di atti e di avvenimenti che risalgono al passato, la spiegazione più semplice è quella di aver già vissuto una vita anteriore.

    Ma commettono l'errore di non tener conto della loro dualità. Esse non riconoscono l'esistenza della loro seconda personalità; questa la prendono per la loro propria personalità, credendo così di non averne che una; e da tali premesse non possono che concludere di aver vissuto delle vite anteriori.

    Ma hanno torto, perché qui non si tratta di reincarnazione. Io ho visioni di me stesso, dove mi vedo errare nelle foreste del mondo nascente, e tuttavia non sono me che vedo, ma un essere che fa molto lontanamente parte di me, come mio padre e mio nonno fanno parte di me stesso, ma a una distanza meno grande. Questo alter ego di me stesso è un antenato in rapporto a me; un progenitore dei miei progenitori nella primitiva stirpe della mia specie; e lui stesso è a sua volta la discendenza d'una stirpe che, prima di lui, grazie all'evoluzione, acquistò dita e pollici e imparò ad arrampicarsi sugli alberi.

    A rischio di diventare noioso devo ripetere che in tutto ciò io devo essere considerato un fenomeno. Non solo possiedo la memoria della specie a un grado straordinario, ma ho anche conservato i ricordi derivanti da un antenato particolare e lontanissimo. E sebbene il caso sia poco frequente, tuttavia non c'è nulla di eccezionale in questo.

    Seguite il mio ragionamento. Un istinto è un ricordo di specie:

    benissimo. Allora voi, io, tutti riceviamo questi ricordi dai nostri padri e dalle nostre madri, tal quali essi li hanno ricevuti dai loro propri padri e madri. Deve dunque esistere un intermediario attraverso il quale questi ricordi sono trasmessi di generazione in generazione.

    Questo intermediario è ciò che Weismann chiama plasma germinativo, il quale trasporta i ricordi di tutta l'evoluzione della specie.

    Questi ricordi sono deboli e confusi, e molti di essi vanno perduti.

    Ma alcuni esemplari di plasma germinativo trasportano una quantità eccessiva di ricordi; sono, per parlare scientificamente, più atavici degli altri. Il mio germoplasma è di questa specie. Io sono una bizzarria dell'eredità, un incubo atavico (chiamatemi come volete), ma se sono così, vivo e reale, come un essere che mangia con appetito tre volte al giorno, che cosa possiamo farci, voi ed io?

    E ora, prima di riprendere il mio racconto, voglio prevenire le obbiezioni dei San Tommaso della psicologia, sempre inclini alla canzonatura, i quali non mancheranno di dire che la coerenza dei miei sogni è dovuta a un eccessivo lavoro mentale e alla penetrazione subcosciente, nei miei sogni, della mia conoscenza dell'evoluzione.

    Anzitutto, io non sono mai stato uno scolaro molto diligente; a scuola, ero sempre l'ultimo della classe. Preferivo gli sport e (non ho alcuna ragione di non confessarlo) in particolar modo il biliardo.

    Inoltre, ho avuto cognizione dell'evoluzione solo quando entrai in collegio; e tuttavia durante la mia infanzia e la mia giovinezza avevo già vissuto nei miei sogni tutti i particolari di quell'alt ra vita dei tempi remoti. Aggiungerò che questi particolari rimasero ingarbugliati e incoerenti sino al momento in cui conobbi la teoria dell'evoluzione. L'evoluzione fu la chiave del mistero; essa fornì la spiegazione, diede ordine alle bizzarrie del mio cervello atavico, che, moderno e normale, tornava ad ascoltare gli echi di un passato così lontano, contemporaneo degli esordi informi dell'umanità.

    Poiché in questo passato che io conosco, l'uomo non esisteva come noi lo conosciamo oggi, fu dunque durante quel periodo del suo divenire che io debbo aver vissuto e posseduto il mio essere.

    CAPITOLO III.

    Il sogno più abituale della mia prima infanzia era di questo genere:

    mi pareva di essere una piccolissima cosa, di essere rannicchiato in una specie di nido formato di rami e felci. Talvolta ero disteso supino. Pare che passai parecchie ore in questa posizione, intento ad osservare il sole che giocava tra le fronde sopra il mio capo e il vento che agitava le foglie. Spesso, quando il vento spirava più violentemente, il nido dondolava da una parte e dall'altra.

    Ma mentre riposavo così nel mio nido, ero sempre in preda alla sensazione di un vuoto terribile spalancato sotto di me. Non l'avevo mai visto, non avevo mai guardato oltre il bordo del nido; ma conoscevo l'esistenza di questo spazio vuoto aperto proprio sotto di me, che mi minacciava incessantemente come la gola di qualche mostro divorante; e lo temevo.

    Questo sogno, nel quale io

    Enjoying the preview?
    Page 1 of 1