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Al mannd dal vèn o de rerum vinorum
Al mannd dal vèn o de rerum vinorum
Al mannd dal vèn o de rerum vinorum
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Al mannd dal vèn o de rerum vinorum

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About this ebook

Il testo riporta, in più di 900 pagine, una carrellata su ciò che ruota attorno al vino in relazione allo sviluppo della civiltà dell’uomo. Suddiviso in due parti, la prima, più voluminosa, riguarda prettamente l’evoluzione di vitigni e vino, dagli Assiri ai nostri giorni, attraverso miti, leggende e storia. La seconda tratta propriamente della pianta, del suo frutto e sul come fare il vino. Infine della degustazione e del connubio cibo-vino.

Due appendici fanno da corollario. Per un maggiore dettaglio si riporta l’indice.

Premessa / Prologo

Parte Prima:

Storia del Vino e della Vite.

Appendice 1 - I Vini del Mondo

Parte Seconda:

Vite, Vinificazione; I Componenti del Vino; Degustazione; Abbinamento Cibo-Vino.

Appendice 2 - Bere: Come, Quando e Quanto.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateFeb 21, 2014
ISBN9788891133465
Al mannd dal vèn o de rerum vinorum

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    Al mannd dal vèn o de rerum vinorum - Franco Vecchi

    Prosit.

    PARTE PRIMA

    CAP. 1

    LE RADICI

    «A sua volta la vite disse loro:

    Devo rinunciare al mio vino nuovo che fa rallegrare Dio e gli uomini e devo andare ad agitarmi sugli alberi?»

    Vecchio Testamento GDC, 9-13

    1.1 GLI ALBORI

    «Enki s'avvicinò alle provviste delle bevande inebrianti, s'accostò al vino… »

    Da un Inno Mesapotamico risalente al 4000 a. C.

    La storia della vite e del vino è legata in modo indissolubile a quella dell’umanità, hanno camminato a fianco a fianco fin dall’inizio; probabilmente la possibilità di coltivare la vite ha contribuito, assieme a nuove condizioni ambientali favorevoli, a trasformare l’uomo da cacciatore a pastore e alla fine ad agricoltore. La coltivazione della vite, assieme ad altre colture, richiede il passaggio dalla vita nomade o semi nomade dell’uomo a una vita stanziale, solo così è possibile curare la pianta, vendemmiare, vinificare e ottenere il vino, risultato finale di tanto lavoro. La scoperta di una simile bevanda, molto probabilmente, ha avuto un influsso sostanziale sul divenire dell’uomo e della civiltà.

    Il costante attaccamento alla terra e la cura segnalarono ai nostri progenitori il perpetuarsi del ciclo morte e rinascita delle piante (ponendo loro il primo germe del dubbio sul mistero dell’esistenza umana), da cui discese la necessità di collegarli all’intervento di un’entità superiore. Era nato il concetto di divinità.

    In un altro capitolo tratteremo meglio l’identità botanica della pianta, per ora ricordiamo che le prime apparizioni del genere Vitis risalgono al Cretaceo, quindi le viti hanno convissuto, un centinaio di milioni di anni fa, assieme ai dinosauri. Erano piante diffuse in molti territori e con un aspetto diverso dall’attuale. Dopo gli sconvolgimenti climatici successivi (ricordiamo le innumerevoli glaciazioni) rimasero localizzate in zone più ristrette e precisamente quella centrale dell’Euroasia, nell’Asia Orientale e parte del continente Americano.

    (Per inciso, le viti americane presentano numerose sottospecie, dalla Vitis Labrusca, alla Rupestris, Riparia e Berlandieri, importanti poiché ora forniscono un piede porta innesto assai resistente agli attacchi fungini nocivi e alla filossera).

    In Europa le modificazioni avvenute nei millenni a livello del territorio, con genesi di strutture geologiche differenziate all’interno del continente, e della contemporanea modificazione a livello climatico nei vari distretti così formati, permetteranno una specializzazione nelle future culture. È logico pensare che i primitivi uomini abbiano scelto i luoghi in cui stanziarsi in virtù di molteplici ragioni, facilità di difesa da animali o uomini, e anche per le caratteristiche del terreno per la possibilità di ottenere raccolti soddisfacenti.

    Tali circostanze si ripercuoteranno non solo per pascoli e graminacee ma anche per la variazione culturale della vite.

    La vite eurasiatica superstite, o Vitis Vinifera, progenitrice di tutte le nostre viti, possiede caratteristiche tali da contraddistinguerla dalle altre piante da frutto e la rende unica per la produzione di un liquido fermentato: il vino.

    Nonostante gli studi e le ricerche, la trasformazione della vite selvatica in vite coltivata non è ancora completamente chiarita.

    Recenti indagini genetiche hanno evidenziato due tipi di vite selvatica, uno mediterraneo e uno caucasico, entrambi precursori della maggior parte dei vitigni oggi presenti, la differente morfologia è considerata una tappa evolutiva della stessa specie.

    Quasi tutti i ricercatori hanno individuato nelle aree della Grecia e dell’Italia, grazie a particolari condizioni ambientali, lo sviluppo maggiore della specie coltivata.

    Gli studiosi affermano che la vite primitiva, alla fine dell’era Cenozoica, 65 milioni di anni fa, era una pianta ermafrodita, quindi il fiore conteneva i caratteri sessuali maschili e femminili e sviluppava il seme nello stesso, in quanto il polline maschile fecondava il vicino pistillo, in pratica l’ovario, quindi è in buona sostanza un’autoimpollinazione. Sistema riproduttivo assai efficace, ma con un punto negativo: è stasi evolutiva in quanto un’eventuale inseminazione con gameti maschili provenienti da un’altra pianta è notevolmente improbabile e legata solo a fattori ambientali, quali insetti o vento.

    Probabilmente a seguito delle glaciazioni del Quaternario, solo alcuni milioni di anni fa, secondo le ipotesi d’alcuni ricercatori, per meglio superare le difficili condizioni climatiche, la vite selvatica adottò una tecnica difensiva mutando in dioica, ovvero con sessi distinti in piante separate. L’evoluzione favorì, nella pianta di sesso maschile, lo sviluppo di un gene, tra le migliaia di quelli appartenenti ai 19 cromosomi del genoma, capace di inibire lo sviluppo dell’organo femminile (pistillo) e nel contempo la pianta femminile, con una mutazione di natura recessiva, represse lo sviluppo dello stame maschile.

    Il nuovo metodo di fecondazione, con necessità dell’unione di gameti provenienti da piante differenti, favoriva, di fatto, l’incrocio genetico e di conseguenza l’aumento della loro diversità, in ciò favorito dalla presenza del polimorfismo genetico della pianta. Facilitava nuovi tipi e lo sviluppo di piante più resistenti al freddo rispetto alle forme precedenti. La presenza della differenziazione genetica si configura con una frequenza più alta di quella dovuta alla mutazione, con una prevalenza superiore a 1% rispetto alla popolazione di riferimento, pare poco ma in biologia così non è. Fattore favorito da una caratteristica della vite, ossia possiede un DNA molto complesso, uno dei maggiori nel mondo vegetale, e presenta un’adattabilità e una capacità di modificarsi assai elevata.

    Durante il periodo di tale trasformazione la pianta maschile presentò rarissimi frutti, quella femminile generalmente pochi fiori e frutti, in seguito qualche rarissima pianta cominciò a generare un numero maggiore di fiori e quindi di frutti, segno evidente della lenta ricomparsa di infiorescenze ermafrodite.

    Essendo la vite coltivata - sativa - una pianta bisessuale, siamo in grado di ipotizzare che la selezione perpetrata dell’uomo nel corso dei millenni, partì proprio dal diffondere per talea prima delle piante femminili e poi con quelle tornate al primitivo stato d’ermafroditismo. Nel contempo la vite manteneva inalterate alcune peculiarità, come il più alto contenuto percentuale di zuccheri (glucosio e fruttosio) all’interno del frutto.

    Agli albori della storia l’uomo cominciò a raccogliere bacche e frutti per cibarsene e, similmente al comportamento osservato in alcuni animali, cercò di tenere in serbo l’eccesso del raccolto per consumarlo nei momenti in cui non sarebbe stato disponibile. L’arte della conservazione degli alimenti è derivata da alcuni accorgimenti dell’uomo capace, con intelligenza, di coglierli e sfruttarli per migliorare la propria dieta.

    Possiamo ritenere, probabilmente, che pure il formaggio sia nato per caso quando il pastore, conservando il latte, bovino e ovino, in otri fatti con pelli d’animali (soprattutto quelli facilmente ricavabili dagli stomaci dei ruminanti, per struttura già simili ad una sacca), notò il latte trasformarsi precocemente, talvolta, in una specie di miscuglio biancastro. L’amalgama si dimostrò facilmente comprimibile e trasformabile in materia solida, di minor volume, buon sapore e maggiore capacità di conservazione. Prima o poi qualcuno capì come ciò fosse imputabile a qualcosa contenuto nello stomaco stesso, nel tempo identificò il fattore responsabile e riuscì a riprodurre il fenomeno anche in ulteriori recipienti. La scoperta del caglio permise la produzione di formaggio, non più fatto accidentale, bensì evento controllato dall’uomo.

    Il vino, e le altre primitive bevande alcoliche, sono quasi sicuramente nate con le medesime modalità. La tendenza dei frutti ricchi in zucchero a fermentare e produrre un liquido assai piacevole non può essere sfuggita a lungo al nostro attento antenato. Forse la prima bevanda alcolica derivò da miele miscelato ad acqua e rimasto abbandonato per un certo tempo, fermentando produsse un qualcosa che lasciò piacevolmente sorpreso lo sbadato agricoltore.

    Lo stesso fenomeno fu osservato pure nel latte di palma e in frutti, lasciati a lungo in contenitori chiusi, quali fichi, datteri e la nostra amica uva. Probabilmente molta frutta, schiacciata dal suo peso, aveva rilasciato liquidi zuccherini che ben presto avrebbero fermentato.

    La possibilità della nascita casuale del vino in tempi molto lontani è conosciuta tra gli studiosi come ipotesi del paleolitico. Pare, infatti, che alcune popolazioni avessero instaurato la pratica di schiacciare alcuni frutti per berne il succo, tra cui anche le ciliegie. La pianta della vite fu ben presto la favorita per una serie di motivi molto validi: l’elevata produzione di frutti con alto contenuto zuccherino (quindi più alcol), la relativa facilità a schiacciarne l’acino e, da non sottovalutare, la possibilità di avere prodotti diversi secondo l’uva usata.

    Un’altra bevanda alcolica ha una rilevante importanza: la birra. È stato appurato fosse nata almeno un millennio prima del vino. Pure la sua scoperta potrebbe attribuirsi a un fatto fortuito: un primitivo fornaio trattando i chicchi d’orzo da cui derivare la farina, forse con tostatura preliminare, prima di procedere alla panificazione vera e propria, dimenticò questi e/o la farina ottenuta a contatto con l’acqua per un certo tempo. Così facendo agevolò l’inizio della fermentazione e la formazione di un liquido leggermente alcolico e un po’ effervescente: la prima birra. Reperti archeologici dimostrano la capacità degli uomini, ai primordi della civiltà, a panificare correntemente molti cereali quali orzo, avena e segale, non solo per la produzione vera e propria di pane, bensì proprio per formare particolari pagnotte rettangolari. Tali pagnotte, poi immesse in giare contenenti acqua tiepida, servivano da base per la produzione della primordiale birra, in epoche lontane il panificatore e il birraio vivevano in stretto contatto, quando non erano la stessa persona.

    Sempre dalle ricerche sulle antiche civiltà possiamo stabilire, con buona approssimazione, la data di nascita del vino.

    La ricercatrice Mary Voigth, responsabile di una spedizione archeologica dell’Università della Pennsylvania, curò l’esplorazione nel sito neolitico di Hajii Firuz Tepe, nell’area iraniana settentrionale dei monti Zagros. Durante gli scavi, effettuati nel 1996, gli archeologi rinvennero un contenitore per vino, probabilmente il più antico mai trovato fino ad ora. L’oggetto in questione è una giara della capacità di quasi 10 litri, contenente un residuo secco di sicuro derivato dalla lavorazione dell’uva. In detto residuo è stato, appunto, rintracciato l’acido tartarico, elemento organico tipico dell’uva. Poiché i ricercatori hanno datato il reperto al 5100 a.C. ne deriva che il vino ha almeno 7100 anni. Altri studiosi, per contro, attestano la presenza nell’area Caucasica da almeno un millennio o due prima della data indicata, il che porterebbe il vino alla veneranda età di 9000 anni.

    D’epoca più recente sono i residui e le tracce di vino trovati in frammenti di giare a Godin Tepa, datati al 4000 a.C., sempre nell’area dei monti Zagros.

    Ad Abydos, nella valle del Giordano esistono tracce valutate al 3000 a.C. e un reperto databile a circa il 2000 a.C. è scoperto a Shulaveris-Gora in Georgia. Tutti i ritrovamenti testimoniano ampiamente la diffusione e la remota presenza della vite.

    Gli antichi popoli del bacino orientale del Mediterraneo, assegnarono la paternità della scoperta, prima della birra poi del vino, al dio Dioniso, cui era già stato assegnato la tutela sulla fertilità, un simpatico zuzzurellone di origine Tracia con ascendenti nel più lontano Oriente, in particolare dalla mitica India.

    Bertrand Russell prospetta la comunione tra la birra e Dioniso nella monumentale Storia della Filosofia Occidentale: «Quando scoprirono come fabbricare la birra, i Traci pensarono che l’ebbrezza fosse cosa divina e ne dettero onore a Bacco. Quando, più tardi, conobbero la vigna e impararono a bere il vino ebbero un’opinione sempre più alta di lui».

    Qui dobbiamo soffermarci un po’ per alcune considerazioni.

    Molti popoli, in varie epoche, avevano addossato a una divinità, o personaggi molto vicini alla stessa, la trasformazione di un liquido (il mosto) in vino, dovuta a qualcosa di sopranaturale, al di là delle capacità dell’uomo comune.

    Una eccezione alle origini divine delle bevande alcoliche proviene da un paese lontano, a cui noi non pensiamo come produttore vinicolo: la Cina. Tratteremo brevemente in seguito dell’evoluzione del vino cinese.

    Tornando alle vicende europee possiamo esprimere un lecito dubbio: per quale ragione il vino ebbe subito un’importanza così rilevante?

    I motivi sono molteplici: pensiamo alle precarie condizioni di vita dei nostri progenitori, la loro scarsa conoscenza scientifica, la superstizione correlata a ogni evento della vita quotidiana e capiremo perché la vinificazione avesse contorni a dir poco magici.

    I processi corretti della vinificazione, vale a dire la derivazione dell’alcol dagli zuccheri, sono stati preannunciati in epoca relativamente recente, si devono al celebre scienziato Antoine Laurent de Lavoisier poco prima della Rivoluzione Francese, da cui il padre della chimica, purtroppo, non è uscito vivo.

    Solo nel 1858 il fenomeno, causato dai lieviti, fu chiarito in modo conclusivo dal già citato Pasteur. Costui dedicandosi allo studio sull’inacidimento del latte, causato dalla fermentazione dell’acido lattico, ne attribuì la causa a microrganismi, il concetto fu presto esteso anche alla vinificazione.

    Il buon Pasteur non riuscì a separare nel latte i lieviti buoni da quelli cattivi, responsabili di prodotti sgradevoli. La natura non fa molta distinzione tra le due categorie. Riuscì, invece, a bloccare il peggioramento nei prodotti lattei già pronti (metodo applicabile a vini e birre) mediante l’uso del calore con un processo che da lui prese il nome di pastorizzazione. Solo nel 1883 un certo Hansen, chimico presso un’importante birreria danese (Carlsberg), riuscì a separare, quindi a coltivare i lieviti ritenuti più atti allo scopo (saccaromyces carlsbergensis).

    Il vino, nelle religioni primitive e presso tutti i popoli, era utilizzato sempre durante i sacrifici alle divinità per il suo colore - era quasi esclusivamente un vino rosso - e, per la forza procurata a chi lo beveva, fu paragonato al sangue: ben presto ne assunse tutte le simbologie.

    Nell’immediato divenne appannaggio dei potenti e dei ricchi che lo gustavano durante i pasti, al popolo rimanevano la birra e, talvolta, vino di scarso valore.

    Dovranno trascorrere molti secoli prima di avere una discreta diffusione tra le genti comuni.

    Non meno importante era la sensazione di coraggio che una qualsiasi bevanda con buon tenore alcolico poteva infondere ai nostri antenati, utile per affrontare le grandi difficoltà quotidiane: lavoro pesante, insicurezza, temperature inadeguate, malattie, disagi provocati dagli eventi naturali ritenuti spesso d’origine divina. Era dunque normale cercarne produzione e consumo, appena possibile.

    Il sentirsi diverso, quasi in condizione estatica - leggasi primordiale sbronza - portava ancor più a un’identificazione del proprio nuovo stato mentale con il divino, un tentativo di collegarsi direttamente con la divinità abbandonando il mondo terreno.

    Una specie d’anteprima delle delizie dell’aldilà, e vedremo presso i Greci assumere una grande importanza.

    Il Dioniso zuzzurellone crebbe d’importanza e conquistò un’influenza notevole all’interno del mondo greco, entrò a far parte del cerchio ristretto delle dodici divinità stabilmente residenti nell’Olimpo e, innanzitutto, diede inizio tra gli uomini a una religione nella religione.

    Il vino era, in effetti, l’unico cibo avente il potere di condizionare l’animo umano, il pusillanime diventava coraggioso, il taciturno fecondo oratore, il timido disinibito e lasciava un profondo ricordo in chi ne avesse abusato.

    Nessun altro alimento consumato abitualmente aveva (e ha) le stesse facoltà, unito al mistero della formazione risulta comprensibile l’elevazione a tramite tra le cose terrene e materiali con quelle invisibili e legate al sopranaturale.

    Purtroppo il vino ebbe il compito istituzionale (tristemente durato fino a pochi decenni fa) di corroborare il coraggio dei guerrieri: una leggera ebbrezza pare aiuti molto ad affrontare un pericolo e un rischio come quello di uno scontro armato.

    Plutarco riporta le mosse del tiranno siracusano Dionisio: «di buon mattino dopo aver rimpinzato di vino sincero i mercenari li lanciò contro il muro con cui lo avevano accerchiato».

    Fonti storiche confermano la tendenza di molti opliti, racchiusi nella pesante bronzea armatura e stretti nella formazione della falange, a essere ben satolli di vino prima dello scontro.

    «Sarebbe ingenuo pensare che l’oplita greco, il quale beveva tutti i giorni sia in casa sia durante la marcia, non avesse compreso che una o due coppe di vino in più durante l’abituale ultimo pasto potevano frenare la paura, intorpidire la sua sensibilità di fronte alle ferite fisiche e all’angoscia mentale e rendere enormemente più tollerabile il dovere terribile di affrontare la falange nemica».

    La frase, tratta da L’Arte Occidentale della Guerra di Victor Davis Hanson, è particolarmente felice e si adatta a tutti i combattenti successivi, fin quasi ai giorni nostri: è sufficiente sostituire oplita e falange nemica con cavalleggero e quadrato in quel di Waterloo, oppure fante e mitragliatrice in una delle grandi guerre mondiali.

    La quantità di vino bevuta era fondamentale, un eccesso poteva avere l’effetto opposto; Senofonte ipotizza come nella battaglia di Lèuttra (371 a.C.) il coraggio sprezzante con cui i Tebani affrontarono gli Spartani e la confusione creatasi tra costoro, potesse essere causata dal vino consumato da entrambi prima della battaglia. La stessa considerazione può essere fatta per la sconfitta subita nell’assedio di Taranto dai Greci, verso la fine del 400 a.C., a causa delle abbondanti bevute a cui si dedicarono alcune sentinelle mentre facevano la guardia alla città.

    L’oplita veterano e saggio sapeva bere quel tanto necessario a calmare i nervi, o per eccitarli in modo adeguato, senza perdere il prezioso autocontrollo. Le bevute colossali erano per il dopo, se sopravviveva.

    Lo storico delle guerre tra Romani e Cartaginesi, il greco Polibio (206 - 124 a.C.) attribuisce al troppo bere di alcune truppe dell’esercito punico del piacevole vino dei dintorni del Metauro prima della battaglia del 207 a.C., in cui le schiere romane sbaragliarono quelle di Asdrubale salvando la città di Roma e, forse, l’intera campagna militare.

    Il vino fu usato pure alla guisa di medicamento e di solvente per erbe o misture varie, addirittura erano note le sue proprietà cosmetiche. Vini addizionati con erbe odorose quali basilico, salvia, garofano, mirra e altre essenze, erano usati come deodoranti; vino bianco unito a rossi d’uovo e olio d’oliva era l’antenato degli attuali antiabbronzanti e antirughe. Il vino al rosmarino combatteva la caduta dei capelli e la seborrea e così via. Proprietà miracolose che furono ritenute valide fino al Medio Evo e in tempi relativamente recenti sono diventati di moda i bagni nel mosto: niente di nuovo sotto il sole.

    Il vocabolo vino pare trarre origine, secondo una versione sostenuta da parecchi studiosi, dalla voce pontica vòino, da cui deriva il greco oinos, e origina il latino vinum e da questo l’italico vino, il francese vin, il portoghese vinho e lo spagnolo vino. Pure nelle lingue di derivazione non latina troviamo l’inglese wine, il russo vinò il polacco wino e, per finire, le lingue scandinave usano vjin.

    Occorre arrivare all’età dell’informatica per trovare un uso così diffuso di una parola pressoché identica in tanti idiomi.

    Nella Bibbia vino e vite sono citati circa 140 volte, e assumono la veste di archetipi, assieme a grano, pane e olio. Nel Nuovo Testamento il vino assume la veste di sangue di Cristo e… scusate se è poco.

    Il grano era legato al rapporto tra Dio e l’uomo sulla terra, con l’olio erano unti i re, il vino era il simbolo del rapporto tra l’uomo e Dio, quindi la parte più spirituale.

    Fatte le doverose premesse si dia inizio al viaggio nel tempo tra le varie popolazioni.

    1.2 Il VINO DEL CELESTE IMPERO

    «Io spero sempre di annegare la mia tristezza nel vino, ma esso la rende ancora più grande»

    Li T’ai Po

    Facendo una piccola eccezione al piano del libro, tratteremo in un unico paragrafo tutta la storia vinicola di un paese, perché l’enologica della Cina non è stata molto rilevante, nel confronto dei paesi occidentali. Però è ugualmente interessante sapere in che modo la vite e il vino fossero presenti in siffatto enorme paese. Parrebbero esserci numerose discrepanze sulla storia del vino cinese, esisterebbero segnalazioni di una presenza in tempi risalenti all’età del bronzo, in altre fonti pare certa solo in epoche storiche più recenti.

    Riportiamo in ordine cronologico le varie notizie apprese e… al lettore l’ardua sentenza. Il solito compromesso suggerisce di pensare alla confusione causata dalle varie traduzioni attorno alla parola vino, al significato di fermentazione e così via.

    La diffusa abitudine della popolazione a fermentare indifferentemente vari tipi di frutta o cereali, tutti destinati a fornire una bevanda chiamata genericamente vino, non può che aumentare l’incertezza.

    Gli ideogrammi cinesi hanno subito molteplici variazioni nel corso dei secoli e non facilita certo le cose. Pure il nostro lessico è cambiato nel tempo, infatti, il termine alcol è di recente acquisizione, risale al primo Rinascimento, prima era sconosciuto o quasi. Possiamo ipotizzare una certa frammentazione nelle varie realtà locali presenti in un paese a dimensione minore all’attuale, ma pur sempre di una rilevante estensione.

    Il personale pensiero mi porta a considerare le numerose notizie relative alla pianta della vite, pur se distribuita a macchia di leopardo, un indice certo di presenza. Poi, un popolo ricco d’inventiva, capace di dare luogo a una civiltà sofisticata e millenaria, di inventare la carta, la polvere da sparo e i primi caratteri mobili di stampa, non può avere tralasciato il potenziale fornito dall’uva.

    Nella lontana Cina il vino era forse noto fino da tempi remoti, in quanto presente già dal 2000 a.C. secondo alcune testimonianze, ottenuto da alcune viti selvatiche tra le quali la Vitis Davidii, Lanata, Thumbergii, Amurensis, Flexuosa, in parte ancora presenti nel paese orientale.

    Il vino, o meglio Guojiu, traducibile in frutta inebriante, sarebbe stato ottenuto dalla fermentazione del mosto e utilizzato nelle libagioni sacre dedicate alle divinità.

    In epoche più remote, sotto la dinastia contrassegnata con la dizione Imperatore Giallo, vale a dire circa nel 2500 a.C., era utilizzato il miglio per ottenere bevande alcoliche, praticamente classificabili nell’ambito delle birre.

    Le ricche fonti di notizie cinesi portano a conoscenza di una leggenda in cui si afferma essere la figlia dell’imperatore Yu, vissuto più di 2000 a.C., la prima a produrre un vino di riso.

    La principessa I Ti, tale è il nome della fanciulla, fu premiata per l’elaborazione di una bevanda piacevole, tuttavia in seguito anche punita per avere fornito la causa di nuovi problemi.

    In pratica era molto diffusa la produzione di bevande alcoliche, partendo dalla fermentazione dei cereali. Il processo partiva dall’acqua in cui era bollito un tipo di riso, poco atto all’alimentazione umana, e la fermentazione attivata aggiungendo un miscuglio di acqua e farina preparato tempo prima, in pratica un lievito, al liquido di cottura del cereale.

    Il prodotto ottenuto era classificabile a metà strada tra la birra e un vino vero e proprio.

    La bevanda alcolica, comune in vaste aree cinesi, era chiamata Huang jiu, ovvero vino giallo e contraddistingueva i prodotti della fermentazione di frutta o cereali.

    Un riso particolarmente ricco di glutine era prodotto nella regione del Jiejiang e forniva il noto vino Shaoxing, il nome deriva dalla località di origine.

    Per il lungo periodo di quasi un millennio, furono queste le bevande fermentate bevute dai notabili e le classi dirigenti Cinesi o utilizzate per i sacrifici.

    In alcune segnalazioni risalenti al periodo Zhou sarebbe documentata la presenza di vigne all’interno dei palazzi reali.

    Sotto le dinastie Shang e Zhou il consumo dei vini si allarga sempre più al popolo. Nella dinastia Han, regnante tra il 200 a.C. e 200 d.C. circa, si assiste al maggiore uso di riso e frumento a scapito del miglio.

    Iniziano a essere riportate, nei testi della farmacopea, alcune delle proprietà medicamentose attribuite all’uva e al vino.

    Nello stesso periodo, attorno al II secolo a.C., si hanno le prime menzioni storiche di sicuro riferimento sul vino d’uva, le notizie partono da un generale dell’esercito imperiale cinese, Zhang Qian, mandato dal suo imperatore Wudi, in missione a Dawan.

    Era uno stato dell'Asia Centrale situato nella valle Fergana, fra i territori degli attuali Uzbekistan, Tajikistan e Kirzighkistan (ovvero la parte occidentale del Turkestan), lontane aree occidentali situate al confine del Celeste Impero.

    Le popolazioni locali erano spesso aggredite dagli Hsiung Nu, a noi noti con il nome di Unni, e la circostanza metteva anche a rischio il percorso delle carovaniere che commerciavano la seta, filato di esclusiva produzione cinese e fonte di importanti ricchezze.

    Zhang Qian, oltre al successo della missione a protezione della Via della Seta, riportò l’uva, proveniente da Vitis Vinifera, e le nozioni per il processo di vinificazione, già noto alle popolazioni delle pianure centrali.

    Da testimonianze scritte all’epoca sappiamo che: «…nelle vicinanze di Dawan si produceva vino dall'uva e che le persone benestanti ne facevano abbondanti scorte. Gli abitanti di queste zone bevevano abitualmente vino e i loro cavalli mangiavano il trifoglio».

    Una differente tradizione assegna a un altro ufficiale al servizio del medesimo imperatore, l’onore di avere introdotto l’uso della vite. Costui riuscì a fuggire dalla prigionia degli Unni portando con sé dei grappoli d’uva. Se è diverso il personaggio a cui spetta il merito dell’introduzione della vite, rimane indubbia l’area di provenienza.

    Con tutta probabilità è da attribuire alla dinastia Han l’inizio della produzione di vino d’uva; infatti, reperti archeologici e altre remote tradizioni, espongono i metodi di coltivazione e vinificazione nonché cenni riferibili alla tecnica commerciale del vino. In ogni modo, il vino rappresentò, per parecchio tempo, una rarità appannaggio della famiglia regnante e dei personaggi di rilievo alla corte imperiale.

    A dimostrazione di ciò vale la documentazione storica relativa alla corruzione tramite l’offerta di vino al ministro Zhang Rang, in carica durante la dinastia Han, effettuata da un certo Meng Tuo desideroso di farsi nominare governatore. La quantità del vino offerta al ministro era di circa una decina di litri, con un valore evidentemente sufficiente per acquisirsi la prestigiosa carica. La diffusione del vino d’uva non ebbe un immediato successo, trovò una certa fortuna solo nelle aree del Xinjiang e di Taiyuan. Il motivo potrebbe ricercarsi nelle molte cure necessarie alla vite, alla stagionalità e all’aleatoria produzione dell’uva, confrontato alla più sicura riuscita e convenienza dei vini prodotti dalla fermentazione dei cereali.

    La vinificazione decadde e continuò in piccole e ristrette aree dei territori posti nelle vicinanze della frontiera, il vino ottenuto era offerto all’Imperatore in veste di un particolare omaggio. Evidentemente l’importanza non era diminuita, al contrario accresciuta dalla scarsissima disponibilità.

    Alla caduta della dinastia Han segue un periodo assai turbolento, durante il quale si affermano alcuni nuovi movimenti spirituali: il Buddismo proveniente dall’India, il Confucianesimo e il Taoismo, entrambi di genesi cinese.

    Le due correnti del pensiero cinese rifuggivano i beni materiali. Soprattutto nel Taoismo, però, l’impiego del vino non era bandito, anzi talvolta assumeva un discreto ruolo di richiamo nella cultura del tempo.

    Secondo il racconto del maestro Kong (Kong Fuzi, da noi noto come Confucio), il vino risulta ben conosciuto secoli prima dell’era cristiana. Il maestro raccomanda: «…accostatevi pure al vino ma non bevetelo fino all'ebbrezza». Sempre presente la raccomandazione all’uso consapevole.

    Di diverso parere appare l’imperatore Wen Wei, vissuto nel corso di un periodo d’incertezza successivo alla dinastia Han durato circa tre secoli, definito agli storici il Periodo dei Tre Regni, in quanto vide la lotta di tre potentati per la conquista dell’intera Cina.

    Wen, imperatore della Cina Settentrionale, durante un conciliabolo con i propri ufficiali alla vigilia dell’ennesima battaglia affermò: «Passo la notte sotto la rugiada; quello che è dolce non mi sembra dolce, quello che è agro non mi sembra aceto, il freddo non è freddo; il sapore è intenso, il succo dura a lungo; metto da parte i fastidi e mi libero della tristezza. C'è un'altra ricetta simile a questa?».

    Proprio con la dinastia Tang, affermatesi a cavallo del VI secolo d.C. alla fine delle vicissitudini che avevano attanagliato la Cina, si ha una buona diffusione di uva e vino in molte delle sue aree. I vitigni erano importati dal Turkestan, assieme a un prodotto alcolico tipico delle popolazioni mongole: il kumiss, derivato dal latte di cavalla fermentato.

    Infatti, all’inizio della dinastia Tang, nella parte centrale della Cina non erano presenti vigneti e perciò fu necessario l’introduzione delle viti dal Turkestan.

    Tra i vitigni, quello più citato nei testi cinesi dell’epoca è quello noto per la forma allungata e dagli acini color porpora, chiamato capezzolo di cavalla, è ricordata la tipologia perle di drago, di forma sferica. Pure le tecniche di produzione del vino d’uva provenivano dalla stessa area, in particolare dal protettorato di Qoco.

    L’imperatore Tai Zong ne ha lasciato tracce durante una campagna militare nello Xinjiang, è stato scritto: «L'imperatore Tai Zong occupò Gaochang e raccolse semi di uva Maru per essere coltivata nel giardino imperiale e produrre vino con tecniche apprese. Il vino era verde, di sapore fresco e forte, di gusto molto cremoso. Era la prima volta che la popolazione di Chang'an conosceva il vino».

    Quindi l’Imperatore portò l’uva nella propria capitale e iniziò un nuovo iter, alcuni dei suoi successori divennero produttori e il vino prodotto era in parte offerto ai notabili della corte.

    Il vitigno introdotto da Tai Zong era conosciuto anche con il nome di Niunai o uva latte, e parrebbe derivare da un’uva autoctona cinese.

    La diffusione del vino tra le classi nobili cinesi influenzò la produzione poetica, in molti testi è citato con accenni positivi, nella Canzone dell’Uva, opera composta durante la dinastia Tang, i versi finali citano: «…i fiori si aprono come frange di seta, i frutti pendono come grappoli di perle... Noi uomini di Tsin queste uve così belle coltiviamo come gemme tra le più rare e di esse facciamo un vino delizioso di cui gli uomini non estinguono mai la sete».

    Ulteriori autori hanno lasciato chiare indicazioni sul gradimento del vino, il poeta Li Yuxi svela: «Essendo nativo dello Shanxi, pianto questo frutto di giada e ne faccio un vino prelibato di cui non ne ho mai abbastanza».

    Ottima dichiarazione d’amore per il vino, e contemporanea fonte sulla presenza di buona produzione vinaria nella zona di Shanxi, in particolare nei dintorni della città di Taiyuan destinata a divenire la capitale della regione nei secoli successivi.

    Il vino d’uva stentò, in ogni modo, a diventare un prodotto a diffusione elevata, tanto da essere bevuto inizialmente dai vari dignitari solo in occasione di circostanze d’estrema importanza.

    In ogni modo fu assai gradito dall’imperatore Mu Zong, vissuto a metà del IX secolo, sua l’affermazione: «Quando lo bevo sono immediatamente conscio dell'armonia che soffonde le mie membra; è il vero Principe della Grande Tranquillità!». L’allocuzione fa pensare al titolo onorifico attribuito a Lao Zi, il padre del Taoismo, ed è forse l’unico accenno a un collegamento tra il vino e una possibile entità spirituale, se non addirittura a qualche divinità.

    La medicina cinese non aveva tardato l’introduzione del vino, pur se prodotto da differenti materie prime, tra i farmaci più in uso e, nelle varie prescrizioni, era sempre più presente.

    Il vino celebrato durante il periodo Tang, tra il VI e VII secolo d.C. non era tutto fatto con uva, così come quello in uso nella farmacopea. Abbiamo notizie sulle diverse tipologie dei vini che riportano: «…puoi far fermentare il latte di vacca, la soia e le bacche e altro ancora per ottenere vino».

    Oppure descrizioni attinenti alla tipologia: «…vino primaverile di lunga durata che ingrassa e rende chiara la pelle, vino di miele, vino bianco, amaro, di cenere, distillato, di digitale e vino d’uva».

    A questo ultimo era attribuita la facoltà di ravvivare il soffio vitale e riconsegnarlo più armonico, rendere l’organismo più resistente alle carestie, nonché rafforzare la volontà.

    La farmacopea attribuiva notevoli proprietà pure al solo frutto dell’uva; in alcuni testi di Shen Nong, mitico imperatore delle epoche remote è riportato: «L'uva fa bene ai muscoli e alle ossa, potenzia il flusso vitale, rende resistenti alla fame, immuni al raffreddore e se mangiata a lungo fa dimagrire, tiene lontana la vecchiaia e ringiovanisce». Poi conclude con un’importante segnalazione: «Puoi inoltre farne vino».

    L’uva era ritenuta un notevole aiuto all’organismo per le sue spiccate proprietà diuretiche.

    Un medico, Meng Shen, parrebbe parzialmente in disaccordo, infatti, afferma: «…mangiarne troppa provoca sintomi di ansietà e oscuramento della vista».

    Tra gli scritti lasciati dai medici più importanti, nello stesso periodo, troviamo frasi molto interessanti: «Il vino disperde la malinconia, annulla la passione, per questo si beve e ci si ubriaca. Il vino da potenza alle droghe e annienta i cento influssi nocivi. Il vino che userai è soltanto quello che si ottiene facendo fermentare il riso glutinoso. Se viene aggiunto senza moderazione in medicina non è di alcun giovamento. Il vino di gelso è un rimedio per le cinque viscere, rende più acuto l'udito e rischiara la vista. Il vino di cipolla è un rimedio per le forze indebolite».

    Il vino d’uva era ritenuto utile per curare il catarro polmonare e i disturbi intestinali.

    Il codice Pen t'sao p'in hui ching yao, traducibile in Materia Medica Essenziale, colossale opera della farmacopea cinese, tramanda molte regole in cui sono raccomandati farmaci a base di uva o vino.

    A titolo illustrativo ne riportiamo alcune: «Nella circolazione dei flussi il frutto (della vite) guarisce l'idropisia, regola e imbriglia i flussi e fa orinare. Aggiungi vino al sale arrostito e bevilo; servirà ad arrestare le emorragie delle vene e delle arterie provocate dalle ferite».

    Il già citato Meng Shen, nel suo Shih liao pen ts'ao, ovvero Testo di Dietetica, loda invece il succo dell’uva in quanto cita: «Se una donna incinta è oppressa dal feto che si agita contro il cuore, bevendo il decotto di radice farà discendere l'utero e avrà sollievo». In un altro passo riporta un concetto già espresso: «Aggiungi l'uva al vino e bevilo durante le epidemie: eviterai piaghe e ascessi».

    Con la radice della vite raccomanda di fare infusi atti a bloccare il vomito e la nausea causata dal colera.

    T'ao Hung-Ching, vissuto durante il V secolo d.C. e più noto come T'ao l'Eremita, oltre ad essere un cultore delle teorie Taoiste, era un valente conoscitore delle erbe officinali.

    Trasmise le sue nozioni nello scritto Memorie di Medici Famosi in cui evidenzia con chiari esempi pratici, alla stregua di racconti morali, i valori del bere in differenti condizioni sia ambientali e stagionali che di stato fisico.

    In uno dei raccontini riporta: «Quando fa molto freddo il mare si gela, ma il vino non diventa ghiaccio. Una volta tre uomini uscirono di mattina presto e s'imbatterono nel grande freddo: quello che aveva mangiato riso bollito si ammalò, quello che era digiuno morì e quello che aveva bevuto vino si salvò. Infatti la natura del vino è calda. Anche in tutti gli altri mesi, la mattina quando ti metti in viaggio dovrai bere del vino, poiché nei mesi primaverili ti pungeranno le cento larve velenose, nei mesi d'estate gli ardori del sole ti opprimeranno e in autunno il tempo umido ti ferirà. Bevendo il vino ti difenderai da questi mali poiché il vino accresce il soffio vitale, fa circolare il sangue nelle vene, rende l'interno più resistente e l'esterno inaccessibile».

    Possiamo concordare con la maggior parte di quanto riportano i medici cinesi, dobbiamo dissentire su una ricetta da cui si ottiene un orrendo beverone così composto:«Col brodo di carne di cane fermentato, otterrai un vino molto efficace». Qui la parola vino è riferita forse solo alla fermentazione del brodo, ma è significativo l’accostamento tra i due termini.

    Per fortuna si riscatta con altre citazioni: «Il vino d'uva giova al soffio vitale e lo rende più armonico, fa più resistenti nelle carestie, rafforza la volontà.

    È buono anche il vino che si ottiene facendo fermentare il succo di viticci.

    Il vino di primavera fa ingrassare e rende più chiara la pelle».

    Alle soglie del primo millennio il medico Ch'en Ts'ang-ch'i, assicurava: «Il vino ammorbidisce la carnagione ed elimina il mal della pietra».

    In ogni modo è con la dinastia Song, impostasi a cavallo del I millennio, che si assiste, con buona probabilità, alla prima evoluzione dell’enologia.

    Compaiono testi che trattano delle tecniche di vinificazione, con norme ben stabilite, prima la produzione del vino doveva essere assai aleatoria e basata sull’esperienza personale.

    La possibilità di ottenere con più sicurezza il vino, potrebbe essere responsabile dell’aumento della produzione. In più, la corte imperiale aveva imposto un rigido controllo sul commercio del vino, d’uva e di riso.

    Nella già ricordata città di Taiyuan, capitale della provincia di Shanxi, era presente un avviato centro di produzione e di distribuzione del vino. Sembra che fossero disponibili, addirittura, più di cinquanta tipi di vino di riso.

    Dai confini occidentali, nonostante la Grande Muraglia, una popolazione Mongola invase la Cina e instaurò la dinastia Yuan. Gli Imperatori mongoli apprezzavano molto il vino, esplicitandolo con l’introduzione della coltivazione della vite a Nanchino e nella provincia di Gansu. Non paghi di ciò vollero una cantina all’interno del palazzo imperiale e imposero l’uso del vino all’interno dei templi per particolari importanti avvenimenti. Mantennero il monopolio sul commercio, ereditato dai precedenti regnanti.

    In molti territori aumentò l’area dedicata ai vigneti e la produzione del vino, aiutata da una particolare esenzione dalle tasse: si pagava solo un contributo sul lievito di riso, indispensabile per la produzione di bevande alcoliche derivate da cereali, assolutamente inutile per fermentare il vino d’uva. In ogni caso, nel settore del vino non d’uva, si assiste al calo dell’uso del riso a scapito del sorgo.

    Durante la dinastia, regnando l’imperatore Kublai Khan, arrivò in Cina il veneziano Marco Polo il quale, nel suo girovagare all’interno del Celeste Impero, rilevò la presenza di vigneti nei dintorni di Shanghai.

    Riporta la testimonianza in un passo dell’opera Le livre de Marco Polo citoyen de Venise, dit Million, où l'on conte les merveilles du monde, o più semplicemente Il Milione: «Quivi hae molto vino, e per tutta la provincia del Cattai non ha vino se noti in queste città; e questa ne fornisce tutte le province d'intorno».

    Marco Polo assaggiò, quasi certamente, anche il vino proveniente da Taiyuan, da lui riconosciuta come regione ricca di vigne.

    La storia del vino prosegue con la dinastia Ming, succeduta agli Yuan, in cui si assiste ancora alla crescita della produzione del vino, pur sempre in minoranza rispetto a quello di cereali.

    I Ming abrogarono il monopolio e lasciarono il mercato del vino alla libera iniziativa privata.

    Arrivarono in Cina i missionari cristiani e, da loro abitudine, portarono con se il vino per la celebrazione della messa. Alcuni di loro tentarono la produzione di vino con vitigni autoctoni cinesi ottenendo l’appoggio dei notabili locali.

    Poi per un lungo periodo non si hanno mutamenti, le tecniche di vinificazione rimasero pressoché invariate, pareva che solo un miracolo potesse smuovere l’apatica enologia cinese.

    Durante tale regno è d’importanza fondamentale la presenza di Xu Guangqi, eclettico personaggio nato nei primi decenni del Millecinquecento. Oltre ad essere un valente matematico, collaborò con alcuni gesuiti italiani, Matteo Ricci e Sabatino de Ursis, tradusse molti classici occidentali in cinese.

    Poi scrisse un trattato enciclopedico sull’agricoltura, il Nong Zheng Quan Shu, in cui tratta dell’uva descrivendo alcune tipologie presenti: «uva cristallina con un'aureola biancastra, soffice, larga e lunga, dal gusto dolce; uva mammola di colore nero, piccola o grande e dal sapore agrodolce; uva verde, originaria del Sichuan, che raggiunge un colore verde quando matura e assomiglia all’uva verde dell'occidente, viene chiamata anche Occhi di lepre priva di semi ed ha un gusto più dolce del miele; uva piccola, introdotta dall'occidente e piccola come il pepe; uva dello Yunnan che ha gli acini grandi come datteri ed un sapore straordinario».

    Finalmente si arriva all’ultima dinastia che perdurò fino all’inizio del XX secolo, ovvero la dinastia Qing.

    Gli Imperatori Qing regnarono per quasi tre secoli e, almeno all’inizio, resta salda la predominanza del vino da cereali su quello d’uva. Sono riportate notizie su alcune usanze tra giocatori in cui, chi perde beve un bicchiere di una bevanda alcolica ritenuta di basso profilo, e la bevanda era il vino d’uva.

    Chi credette nel vino fu, invece, un certo Zhang Bishi cinese vissuto all’estero per molti anni. Costui dopo aver raggiunto una notevole disponibilità finanziaria ritornò in Cina e nel 1892 impiantò vigneti con vitigni occidentali in quel di Yantai, luogo ritenuto idoneo alla coltivazione della vite.

    L’impianto avvenne dopo una diligente selezione per comprendere quali sarebbero stati i vitigni migliori per il terreno e il clima cinese. Ai vitigni selezionati assegnò un nome cinese, in modo da classificarli definitivamente. In contemporanea iniziò la costruzione di una notevole cantina ove vinificare e conservare il vino ottenuto. Portò in patria anche tutto ciò che era necessario per una moderna enologia: tini, torchi, botti, bottiglie, tappi nonché i macchinari ormai in uso nelle vigne e nelle cantine più evolute dei paesi occidentali.

    La coltivazione poi si estese in altre località tra cui Qingdao, Beijing e Tonghua nella provincia di Jilin. L’azienda assunse la denominazione di Zhangyu dalla radice del suo nome, il successo arrise al coraggioso imprenditore tanto che, nel 1914, un suo Gewürstraminer ottenne il primo premio in una manifestazione a Nanchino, poi nel 1915, lo stesso vino e alcuni rossi, ottennero menzioni speciali alla Mostra Internazionale delle Nazioni.

    La rinascita del vino cinese subì danni gravissimi durante l’epoca dei combattimenti tra i vari Signori della Guerra, con le ingerenze delle potenze occidentali, nel periodo iniziato nel 1916 e terminato nel 1926 con la presa del potere da parte del Kuomintang di Chiang KaiShek. L’infausto periodo bellico vide però sorgere, per opera di Zhang Zhiping nel 1921, una cantina a Qingxu, nella regione dello Shanxi, nota da tempo per la presenza di numerose vigne. Zhang voleva produrre vino per fare diminuire l’importazione dall’estero, quindi si attrezzò facendo arrivare dalla Francia tutto l’occorrente per la vinificazione e iniziò la produzione d’ottimi vini bianchi e rossi e pure di brandy.

    La cantina subì gravi danni durante la Guerra Civile Cinese; solo dopo il 1949, con l’avvento della Repubblica Popolare Cinese, tornò alla piena produttività. Nel nuovo corso, con la promulgazione di vari piani quinquennali, si cercò di far rinvigorire l’enologia cinese. Il ministero Statale dell’Industria Leggera ha elaborato numerosi progetti che prevedevano, oltre al rilancio delle cantine storiche, recentemente ristrutturate e l’introduzione di nuovi vitigni in campagna, a provenienza Bulgara, Ungherese e Russa.

    Il vivaismo cinese sta, per di più, selezionando e valutando i vitigni autoctoni.

    La produzione attualmente sale di circa il 10-15% all’anno, e il Governo Cinese si propone di raggiungere 800.000 tonnellate annue entro il 2010. Le aree maggiormente interessate alla rapida crescita sono quelle delle province di Shandong nell’Est del paese e in Hebei nei dintorni di Pechino, nelle province Nord Occidentali di Gansu, Xinjiang e Ningxia.

    Il consumo procapite è valutato in meno di 0.2 L il giorno tra gli abitanti delle grandi metropoli, se consideriamo il miliardo di potenziali utenti, spaventa la quantità di vino necessaria per assicurare a tutti un solo bicchiere di vino.

    Sarebbe indispensabile decuplicare la corrente produzione annua, o cambiare le viti da frutto - la Cina è il massimo produttore mondiale - in viti atte a produrre vino. Nell’attesa, bevono tanta birra.

    Lasciato il paese del Celeste Impero riprendiamo il nostro racconto.

    L’ESERCITO DI ARGILLA

    1.3 MEDIO-ORIENTE

    «Ha rubini per frutti,

     Carica di grappoli, deliziosi allo sguardo….»

    Dalla Decima tavoletta della storia di Upnapishtim

    Dalla tradizione biblica attribuiamo la scoperta del vino al buon vecchio Noè il quale, dopo una lunga permanenza nel chiuso dell’Arca e attorniato dall’immensa distesa d’acqua del Diluvio Universale, pensò bene di rifarsi con il vino: «Noè cominciò a fare l'agricoltore e piantò una vigna. Avendo poi bevuto del vino, si ubriacò...» (Genesi 9, 20-21).

    Prima ancora, nelle leggende Assiro Babilonesi del II millennio a.C., un certo Upnapisthim (il Noè del posto) costruì una specie di arca, la riempì di animali e di altro ancora per evitare le conseguenze di un’enorme alluvione. Dopo qualche tempo mandò fuori tre uccelli, per sapere se le acque fossero ritirate. Poi, una volta arenata la barca in cima ad una montagna, uscì all’asciutto e sacrificò alle divinità… bevendo vino.

    Un altro personaggio impose il proprio nome a un’intera saga: L’epopea di Gilgamesh. Costui era il re di Uruk, partito alla scoperta del mondo e, durante il suo viaggio incontrò, al confine tra la Terra Reale e il Regno del Sole, una semidea di nome Siduri «...la donna che fa il vino, colei che è la donna della vigne…» secondo la traduzione dei caratteri cuneiformi della X tavoletta della saga. Non si attribuisce alla dea la scoperta del vino, ma la sorveglianza della vigna incantata.

    Gilgamesch chiede a Siduri l’immortalità e costei risponde: «Gilgamesh, non troverai mai la Vita che cerchi. Quando gli dei crearono l'uomo, gli diedero in fato la Morte, ma tennero la Vita per loro. Quanto a te, Gilgamesh, riempi il tuo ventre di cose buone; giorno e notte danza e sii lieto, banchetta e rallegrati. Rendi felice tua moglie e abbi caro il fanciullo che ti tiene per mano. Perché questo, questo, è il fato dell'uomo…».

    In pratica si comporta, nell’opera, come una saggia taverniera, molto intelligente e in grado di illuminare l’uomo con giudiziosi cenni di filosofia sulla natura umana derivata dalla quotidiana attività. Gilgamesh, era coraggioso e volonteroso, eppure risulta altrettanto sfortunato, succede spesso a molti eroi, e si lascia sfuggire di mano la pianta capace di renderlo eternamente giovane, quindi ritorna ad essere un semplice mortale. Dalla saga si evince lo stretto rapporto delle donne con il mondo del vino: a loro erano deputate la mescita, la cura e la conservazione.

    Comincia in tale antico periodo storico una maggior presa di coscienza sull’importanza simbolica del vino e della vite, se il vino era utilizzato nelle cerimonie religiose al momento del sacrificio rituale agli dèi.

    Tra gli Assiri era prassi comune estirpare una vite, quando qualcuno moriva. Dimostrazione dell’alta considerazione per tale pianta.

    Reperti archeologici provenienti da zone vicini al monte Zagros, nell’attuale Iran, paiono porre l’accento sulla capacità dei nostri progenitori, alla fine del Neolitico, a vinificare le uve assieme ad altre bacche in tini rudimentali costituiti da semplici scassi nel terreno poi foderati d’argilla malleabile, lasciata seccare allo scopo di renderli impermeabili. Tutto ciò avveniva ancora prima delle notizie storiche o provenienti dai miti a noi noti. Sappiamo per certo che almeno da sei millenni a.C. gli uomini conoscevano il modo di fare il pane, cuocere cibi, fermentare la birra, avendo inoltre scoperto la possibilità di costruire validi recipienti in argilla.

    La costruzione del primo vasellame contribuì alle successive conquiste in campo gastronomico permettendo la cottura e la conservazione delle vivande.

    È diffuso il pensiero, legato alla famosa Mezzaluna Fertile, che la zona tra i fiumi Tigri ed Eufrate fosse la culla della vite; è doveroso soffermarsi sulle citazioni d’alcuni ricercatori attestanti essere in Georgia e Armenia il fiorire della vite. Era una pianta di genesi e provenienza indiana, addirittura il nome vino pare derivare dalla parola sanscrita vena, dal significato di amore. È comune asserzione sulla derivazione Transcaucasica dei vitigni ritenuti tra i più antichi come il Muscat.

    Non è possibile descrivere, in poche righe, tutto l’evolversi politico della vasta regione le cui popolazioni combattevano tra loro per assicurarsi la supremazia (Sumeri, Hittiti, Fenici, Assiro-Babilonesi, Ebrei, Popoli del Mare).

    Meglio dare uno sguardo d’insieme e seguire il percorso compiuto dal vino, iniziato qui, per passare in Egitto, Grecia, Italia e così via per proseguire nel resto dell’Europa. I nomi dei territori indicati in seguito sono, in parte, quelli ora in uso, per mera semplicità.

    Probabilmente, nei primi tempi dell’avventura enologica, il vino fu un succo di frutta leggermente fermentato, estremamente dolce e piacevole, in qualche modo simile al nostro vino nuovo.

    Nel periodo dello splendore mediorientale si arrivò a una bevanda più alcolica, ancora dolce e densa, da bersi diluita con acqua. Dovranno passare secoli, dalla tradizione greca del periodo classico prima e, all’epoca romana poi, per ottenere un prodotto più simile a quello conosciuto ai nostri giorni.

    Da qui si diffuse in Occidente la coltura della vite, grazie ai contatti commerciali dei navigatori mediorientali, che introdussero un più adeguato sistema di allevamento.

    La vite selvatica cresceva strisciante simile all’edera o, in alcuni casi, avvinta ad alberi vivi, sembra logico che, all’inizio della domesticazione, l’uomo avrebbe continuato con una coltivazione ricalcante quella riscontrata in natura.

    Il sistema di propagazione della pianta era effettuato quasi certamente con i semi, quando non eseguita tramite il metodo della propaggine, considerando l'attitudine a formare radici dai rami a contatto con il suolo.

    Con il procedere delle conoscenze e la comparsa delle viti del genere Sativa (una forma non più selvatica ma coltivata) cambiò il tutore, non più albero vivo ma un supporto inerte. Il sistema d’impianto mutò e le nuove piante più che dal seme traevano origine dalla propaggine o dalla talea. Ciò ridusse pure la forma della pianta, con la comparsa di un allevamento con ceppo basso, suscettibile di una potatura corta. La vite appoggiata a tutore vivo preferisce una potatura lunga (nel capitolo dedicato all’allevamento tratteremo dei sistemi di potatura).

    Le viti orientali, quando erano impiantate in nuovi territori, erano già Vitis Sativa e si trovarono, talvolta, a confronto con viti selvatiche; si ebbe quindi una graduale sostituzione con possibili incroci e creazione di nuove specie.

    L’uso del vino risulta già in auge in epoche remote, lo dimostrano ulteriormente le immagini del famoso stendardo di Ur, giunto fino a noi grazie all’opera degli archeologi, dalla città sumerica e datato al 3000 a.C., ove sono raffigurati alcuni nobili personaggi intenti a bere, in un rito simile ad un brindisi indirizzato al loro Re.

    Le testimonianze delle tavolette sumeriche d’argilla riportano, inoltre, alcune indicazioni sull’ubicazione delle vigne, collocate spesso nei pressi dei templi, vedremo ancora nei millenni successivi riproporsi con metodica continuità il connubio luogo sacro-vigna.

    In alcune iscrizioni con i caratteri cuneiformi trovate nell’area di Sivra presso il fiume Eufrate, datate circa nel 1800 a.C., troviamo una dichiarazione importante perché delinea un florido commercio e presenza di una figura responsabile alla selezione dei vini: «…aiutato dal coppiere di Atamtum ho fatto portare sulla banchina le giare del vino della nave, sono state scelte 90 giare…».

    I famosi Hittiti, grandissimi lavoratori di metalli fin dall’era del bronzo, tra i pochi a conoscere la giusta proporzione tra rame e stagno per la preparazione del bronzo, non hanno lasciato molte tracce come viticoltori. Però, in un passo di una tra le loro leggi, si fa riferimento alle severe pene applicate a chi avesse danneggiato una pianta di vite.

    In compenso costruirono mirabilmente molti contenitori in cui bere il vino, realizzati in metalli preziosi con una fattura artistica eccezionalmente raffinata, notevolissima per l’epoca e che non avrebbero sfigurato assolutamente con creazioni del Rinascimento. È evidente un fatto: la cura per il contenitore implicava un grande amore per il contenuto, per l’acqua bastava un boccale d’argilla.

    La Mesopotamia non aveva molti vigneti, il vino proveniva quasi tutto dalle regioni più a nord, si è potuto ipotizzare che le leggende tramandate sull’origine del vino siano un racconto/ricordo delle tante esplorazioni nelle terre vicine, i cui abitanti già conoscevano la vite e i suoi prodotti. Abbastanza logico il pensare che siano stati portati in patria, oltre al vino, informazioni più o meno veritiere sulla produzione e origine.

    Sempre in Mesopotamia nasce una simpatica leggenda sulla scoperta del vino, narra di una dolce fanciulla afflitta da un fortissimo mal di testa, perdurante per giorni e giorni (in quella epoca niente analgesici!!).

    Non potendo più sopportare il tremendo dolore decise di suicidarsi. Negli stessi giorni dell’uva conservata in una giara, per essere consumata come frutta, aveva assunto una strana connotazione semiliquida e iniziava a spumeggiare.

    Ritenendola piena di frutta avariata e probabilmente velenosa, il Re aveva ordinato di riporla in un luogo appartato nell’attesa di essere eliminata. La fanciulla decise di morire affogandosi nella bevanda venefica per essere più sicura dell’effetto finale; non morì, le passò il mal di testa, si divertì moltissimo e avvisò subito il suo signore dell’accaduto. Il Re e tutta la corte le furono oltremodo grati.

    In molte parti pianeggianti del Medio Oriente era più facile coltivare datteri e fichi, la vite occupava zone più elevate, nelle alte valli dei due fiumi, il Tigri e l’Eufrate. Se la coltura della vite non era molto sviluppata, il consumo di vino sì; importato dai territori corrispondenti all’attuale Siria, Iran, dall’Armenia e dalla zona del Caucaso.

    Da porre l’accento sul fatto già intuibile dalla saga gilgameshiana: nell’antica Babilonia erano le donne a controllare la gestione delle scorte, una specie di oste-cantiniere, e a servire il vino; da quello che riportano le scritture delle mitiche tavolette in argilla doveva essere un incarico molto importante e di grande responsabilità. Alcuni storici prospettano, giustamente, una maggiore disponibilità della birra, di costo più accessibile, e il vino migliore usato per lo più a scopo religioso.

    Tale gestione affidata alle donne può trovare una plausibile spiegazione a proposito dei vari culti ove la dea Terra o Grande Madre era una divinità femminile, venerata sotto diversi nomi, Ishtar in Mesopotamia e Demetra in Grecia, quindi ciò che dalla terra deriva aveva sempre connotazioni femminili.

    La bevanda più comune e diffusa rimaneva comunque la birra ricavata dai cereali. Il vino doveva avere in ogni modo un’evidente rilevanza se il Codice di Hammurabi (1700 a.C. circa), abbracciante un vasto insieme d’aspetti attinenti al rispetto delle leggi e alla vita di relazione, ne regolamenta la vendita - le donne ancora in posizione preminente - con sane sanzioni per chi trasgrediva. All’epoca non si andava tanto per il sottile, il non rispettarle poteva costare la testa, non in senso letterale.

    Un passo recita: «Se una taverniera nelle cui casa alcuni sobillatori hanno complottato e non li consegna o denuncia al palazzo, questa taverniera sia uccisa...» e non è l’unica disobbedienza con simili pene.

    Il riferimento è per le locande, appunto condotte dalle donne, ove si poteva mangiare, bere e spesso anche accostarsi a piacevoli incontri con le ragazze a disposizione per servire i clienti, non solo per il vino e il cibo. Tali locali erano denominati cabaret.

    Il trasporto del vino da alcune regioni armene, secondo quanto ha testimoniato lo storico giramondo greco Erodoto (484-425 a.C.), era molto interessante ed effettuato con barche a forma quasi circolare, il fasciame era costruito con legno di salice e ricoperto poi di pelli. La barca, una volta riempita di canne per meglio sostenere gli otri con il vino, era caricata pure con alcuni asini, scendeva il fiume sospinta della forte corrente. Arrivati alla meta, città come Babilonia, i commercianti scaricavano il vino, vendevano le canne e il fasciame della barca, caricavano le pelli sugli asini e tornavano in Armenia via terra.

    Il vino, sempre secondo quando molti attribuiscono allo storico greco, era contenuto e trasportato anche in botti di palma. La palma è invece responsabile di fornire un vino fresco e gradevole. In verità non ho personalmente riscontrato alcun cenno nel capitolo dedicato ai Persiani, nell’opera Le Storie, in cui parla di contenitori fenici nel trasporto del vino, secondo la modalità sopra riportata, con le barche di pelle. Oppure eminenti studiosi, citando il fatto per certo, potrebbero rifarsi a un altro lavoro dello scrittore. Se la citazione è vera, occorre notare come il legno di palma, però, non sia adatto per tale uso; si potrebbe ipotizzare d’alcuni grossi tronchi scavati in modo idoneo all’interno e tappati con lo stesso legno.

    Perché secondo alcuni Erodoto cita le botti, quando i Greci non conoscevano contenitori di legno, perché il legno di palma invece di altro più idoneo, per quale ragione dalla lontana Armenia quando esistevano produttori più vicini?

    Il primo dubbio potrebbe risolversi in una semplice controversia semantica, pur essendo fortemente plausibile che i greci non conoscessero le botti di legno, anche perché nel loro territorio, oltre alla scarsità di legname riservato principalmente alla costruzione delle triremi, mancavano i legni adatti allo scopo.

    Mentre solo l’ultima domanda trova una risposta più plausibile, forse il vino armeno era migliore e più gradito e quindi preferito. Il solito Erodoto si sofferma sulle belle vigne attorno a Babilonia, e fa presupporre che la zona mesopotamica meridionale non ne fosse molto ricca e il vino prodotto potesse essere prevalentemente di datteri, lasciando ad altre terre la produzione di vino da uva.

    Nel libro I° della opera cita il pensiero sulla bevanda: «... per il vino i Persiani hanno una vera passione… …ma hanno l’abitudine di discutere le questioni più serie in stato di ubriachezza…» e cita molto spesso il vino di palma, evidentemente molto diffuso e consumato.

    Quando più tardi l’Impero Assiro si espanse più a nord, quindi in zone più vocate, vale a dire più idonee, la conoscenza della vite e della vinificazione migliorò: già allora il vino derivato da vigne collinari era ritenuto migliore. La città di Ninive divenne presto famosa anche per i suoi vini.

    Un bassorilievo del 600 a.C, il famoso Banchetto sotto il pergolato, mostra il re Assurbanipal in compagnia della consorte (?) all’ombra di un pergolato sorseggiare vino offerto dalle ancelle. Episodio importante perché la presenza della Regina e delle donne, ai banchetti e alla distribuzione del vino in epoche successive e presso molti popoli, diventerà rara. Sappiamo che esistevano riserve distinte d’alimenti e vini nella casa della Regina, e fa pensare alla possibilità che potesse avere una propria organizzazione per i pranzi.

    I contenitori usati per sorseggiare il vino erano coppe d’argilla oppure i "corni potori", ottenuti scavando corna animali e poi abbelliti con metalli preziosi.

    I popoli dell’area vinificavano in grandi giare sotterrate: in un museo georgiano sono esposti vasi in terracotta chiamati kwevri, la forma dei vasi vinari è rimasta pressoché immutata dai tempi antichi ai nostri giorni, in Georgia sono ancora oggi regolarmente adottati. La tecnica di produzione prevedeva che il contadino introducesse l’uva in una specie di piccolo tino, ricavato scavando un tronco d’albero e, dopo essersi lavato bene i piedi con acqua calda, iniziasse la pigiatura fino a rompere tutti gli acini. Con un passaggio successivo versava il mosto entro i kwevri interrati, allo scopo di mantenere la temperatura più bassa possibile. Infine il kwevri era chiuso con un tappo d’argilla in cui era lasciata una piccola apertura, rimanendo così fino alla primavera successiva. A vinificazione terminata il kwevri era aperto e subito effettuato il travaso del vino in un altro pulito utilizzando, a guisa di mestoli, dei recipienti (in terracotta o zucche svuotate) legati in cima ad una pertica. A operazione terminata era messo un coperchio d’argilla. Era prestata la massima attenzione durante l’operazione per non raccogliere le fecce sul fondo; il vino limpido sostava, nel nuovo recipiente, fino al momento del consumo, pare potesse conservarsi così alcuni anni.

    Quale sapore avesse un siffatto vino non lo sappiamo, non abbiamo neppure cognizione se fatto con uve a bacca bianca o nera. Sembra più probabile l’uso d’uve a bacca nera, pur se i botanici affidano ai Fenici il merito di avere portato, da tali aree al Libano, la Vitis Vinifera Pontica o Orientalis (figlia della Vitis Vinifera Sativa) probabile antenata delle nostre uve bianche. Per i primitivi cantinieri non esisteva, riteniamo, una sostanziale differenza tra le due varietà, la comune macerazione avrebbe, in ogni caso, prodotto un vino perlomeno rosato. Gli antichi abitanti della Persia gustavano una coppa di vino puro solo all’inizio del pasto, in quanto predisponeva lo stomaco al successivo cibo, e perché, in tale maniera, potevano sacrificare agli dèi, lasciandone cadere alcune gocce a terra. Gesto effettuato, secondo molte mitologie e soprattutto quella dell‘antica Grecia, a ricordo dei tempi felici dell’Età dell’Oro, quando, secondo la tradizione, uomini e divinità mangiavano assieme. Agli dèi il vino doveva essere offerto puro, i mortali lo consumavano diluito con acqua, usanza poi diffusa in molti popoli antichi.

    Nell’antichità l’uomo viaggiava parecchio a bordo di rudimentali carri o per via fluviale e marittima, il commercio era molto diffuso, più di quanto noi possiamo immaginare.

    Le zone costiere e i porti che vi sorgevano erano un crogiolo di varie comunità, che traevano profitti dai relativi scambi e, salvo qualche tributo alle autorità centrali, godevano di larga autonomia commerciale. L’unico problema era la sottile linea di demarcazione tra l’attività di mercante e quella di pirata, fatto che sarebbe perdurato in pratica fino a pochi secoli fa.

    Il commercio del vino non faceva eccezione, e si diede inizio alla coltivazione della vite nelle zone costiere del mar Mediterraneo, quindi vicino ai punti di imbarco, e proprio grazie ai traffici incominciano ad arrivare materie prime essenziali (come lo stagno), in cambio di buon vino. Parrebbe, secondo alcuni storici, il primo approccio commerciale indispensabile per la necessità di ottenere metalli, inizialmente il rame poi lo stagno per preparare il bronzo atto alla costruzione delle prime armi di un certo pregio, i popoli ove era possibile reperirlo gradivano molto il vino come moneta di scambio.

    I Fenici, grandi navigatori e mercanti d’origine cananea, arrivarono sicuramente in Inghilterra per procurarsi lo stagno, e quindi passarono ben oltre le mitiche Colonne D’Ercole, portando il vino, caldo prodotto mediterraneo, nelle fredde terre del Nord. Erano

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