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Oltre il nido del cuculo
Oltre il nido del cuculo
Oltre il nido del cuculo
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Oltre il nido del cuculo

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Chi era Phil Paxton? Aaron aveva davvero dello speciale? Dove finivano, se finivano, i viaggi del Maggiore Tom? E io, ero veramente il Capitano?

La vita ci pone degli interrogativi e lascia al tempo il compito di rispondervi, se mai ne avrà voglia. Perché alcune cose vanno spiegate, altre no... o semplicemente non possono essere spiegate.

Una serie di racconti senza tempo, senza luogo e probabilmente senza senso dove personaggi si incontrano per scoprire se ad essere più strani sono loro, le loro storie o il loro autore. Racconti che faranno buio totale su quanto di più inutile possa partorie una mente umana. D'altra parte su quante cose nella nostra vita necessitiamo veramente di far luce? Forse il tempo, o questo libro, risponderanno alla domanda, se ne avranno voglia. O forse no. Perché non è necessario avere una spiegazione a tutto.
LanguageItaliano
Release dateOct 8, 2013
ISBN9788868554507
Oltre il nido del cuculo

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    Oltre il nido del cuculo - Alessio Trombettoni

    Pachino

    Il boss

    Non avevo mai avuto un lavoro e quando sentivo la parola boss, pensavo solo a Bruce Springsteen: the Boss!

    Quel giorno furono diverse le cose irrilevanti. Un gabbiano mi planò poco distante lasciandomene apprezzare la leggerezza; tirai due dadi lasciati su un tavolo da pranzo realizzando un 9: non male pensai; mi divertii tagliando barba e capelli in modo buffo; conobbi una giapponesina piccola piccola, come me la aspetterei insomma; provai la coca-cola alla vaniglia; scambiai qualche parola con due ragazze tedesche. Di rilevante vi fu solo la ricezione di una mail.

    Non lavoravo e ammazzavo il tempo come meglio potevo, ma nella gran parte dei casi non riuscivo nemmeno a ferirlo. Provai a rispondere agli annunci di lavoro pensando di poterlo trovare divertente, ma mi sbagliai. Scrivevo a tutti con copia e incolla che lanciavano l’amo: informazioni basilari su di me. Se qualcuno finiva con l’abboccare, andavo curiosando, per vedere di cosa si trattasse. Mi capitò di ricevere offerte come veterinario, operatore di carrelli elevatori e istruttore di snorkeling. Non avevo la minima concezione del mestiere in nessuno dei casi: ritenni anche scoccianti le e-mail ricevute.

    Quel giorno che arrivò la mail interessante invece non veniva specificato quasi nulla delle mansioni da svolgere. Già scoprirlo rappresentava un rimedio alla noia. E v’era anche l’altro dettaglio che poteva crearmisi un lavoro.

    Non avevo mai avuto un boss. Questo si sarebbe chiamato Jack Kennedy. Niente di più scontato.

    Il boss Jack Kennedy.

    Mi chiamo Kennedy, Jack Kennedy.

    Jack Kennedy nella Rock & Roll hall of fame.

    Hollywood: a Jack Kennedy l’Oscar come miglior attore.

    E ora lo sport: ingaggio milionario per Jack Kennedy.

    Nome importante. Forse troppo Jack per essere un presidente, forse troppo Kennedy per essere un ordinario agricoltore. Ma nome importante.

    The Boss un giorno disse:

    "Questo treno porta santi e peccatori…

    porta sconfitti e vincitori…

    porta puttane e giocatori d’azzardo…

    porta anime perdute.

    I sogni non saranno ostacolati…

    la fede verrà premiata…"

    Presi quel treno non sapendo chi fossi veramente, senza avere fede e forse nemmeno un sogno. Presi quel treno chiedendomi cosa si sarebbe aspettato il boss. Se anche lui un giorno avrebbe amato the Boss.

    Mi trasferii nella fattoria senza nulla di più sapere. Gli adescamenti dei killer seriali credo che avvengano così in linea di massima, anche se non li ho mai studiati. Se li avessi studiati poi mi troverei in un posto di tutto rispetto, dietro ad una scrivania probabilmente. O anche fossi disoccupato cercherei in campi attinenti gli studi, non mi butterei sicuramente dietro agricoltori che non forniscono generalità. Ma non ero ne studioso ne scaltro. E nessuno dei due lo ero mai stato o lo fui mai. Avevo da combattere la noia inoltre.

    Arrivai dopo un lungo tragitto alla più vicina stazione, dove buttando in avanti lo sguardo vedi la foresta mangiarsi i binari, nell’entroterra selvaggio ma incontaminato. Le rotaie correvano dritte come loro solito e ti mostravano un paesaggio che alla fine era più continuo che ripetitivo. Mi capitò di osservare un gioco di luce in lontananza, ripensare ad una cosa tanto innocente quanto divertente e priva di significato accadutami poco prima. Mi spuntò un sorriso. Capii che apprezzavo ancora la bellezza celata dietro le piccole cose, che è la più bella perché pura. Il boss Jack Kennedy era lì a prendermi, come promesso. Scoprire se fosse selvaggio, incontaminato o entrambe le cose fu il primo obiettivo che mi detti. Già non ricordavo più il significato di noia.

    La città in cui ero arrivato non era piccola, ma possedeva quelle caratteristiche intrinseche per la quale nonostante tutto in essa fosse gigante, appariva come minuta e priva di significato. Le strade erano enormi per i grandi carichi che dovevano calcarle, ma la geometria e ortogonalità con il quale erano state realizzate toglieva spazio alla fantasia. I negozi si avvicinavano più alle nostre fabbriche: vi regnava disordine e rumore, sporcizia e sensazione di precarietà. Il tutto chiuso nella solita immensità dello spazio infinito che si scorgeva all’interno. Alla fine dei conti vi si poteva trovare di tutto. Alla fine dei conti per uno come me, che veniva da un altro mondo, mancava tutto. Mancavano i colori, la passione.

    Uscendo dal centro abitato si attraversava un ponte su un fiume di medie dimensioni che da lì a diverse miglia sarebbe sfociato nell’oceano freddo di quel periodo. La notte era già scesa e con essa anche le temperature. Il vento incostante ma forte si era manifestato dal primo minuto del mio arrivo invece. Al di là del fiume finiva tutto. Case, negozi, ristoranti, alberghi: il nulla. Immense distese di terra apparentemente abbandonata si perdevano a vista d’occhio. Isolati alberi facevano da contorno a quelli che non potrei definire boschi, ma che donavano in egual modo interruzione verde in quello che sembrava un posto privo di altra flora. La fauna, a suo agio, era guardinga, nascosta, dormiente. La strada per arrivare al ranch era lunga e dritta. Dopo un po’ mi resi conto che oltre ad essere lunga e dritta all’inizio, lo era anche nel mezzo e immaginavo lo sarebbe stata fino in fondo. Non so dire se più lunga o più dritta, ma la noia mi ripiombò addosso con estrema forza. Facemmo almeno un’ora di strada in unica direzione prima di arrivare ad un tratto sterrato: ne occorreva ancora un’altra prima di giungere alla proprietà. Buche si alternavano pigre lungo il tracciato, canguri saltellavano vicini più dettati dallo spavento che dalla compagnia che gli si presentava. Iniziarono alcune svolte. Non si dovevano evitare alberi o altro: forse era semplicemente un tragitto dettato dalla natura. In quel posto la si percepiva, capivi come non avresti potuto farne a meno. Sarebbe stata la tua unica ragione di vita, la tua morte sicura se ad essa non ti fossi allineato. Giungemmo nel ranch a tarda notte. Poca era la luce e tanta la stanchezza. Decisi che un pasto veloce, una doccia calda e molti pensieri sarebbero state le uniche cose al quale ricorrere prima di buttarmi sotto le coperte. Al mio lavoro, alla mia nuova casa e a Jack avrei iniziato a pensare dall’indomani.

    Indomani significava alba al ranch. Più o meno. La vita non concedeva svaghi notturni, piuttosto fatiche diurne. Il sole non era pigro, le ore di luce non aspettavano certo noi, allora ci si alzava con l’inizio del giorno e si era pronti ad iniziare, dopo un’abbondante colazione. Il business di Jack riguardava il bestiame. Farmelo mangiare credevo fosse il suo business; farmelo recintare era la realtà. In fin dei conti poteva anche andar peggio. Quando si arriva alla solitudine, e benché fosse il primo giorno era già presente, si iniziano a fare pensieri strani. Io che i pensieri strani li facevo in compagnia, da solo iniziai a farli stranissimi. Folli. Mi immaginavo che se il business fosse stato farmi mangiare il bestiame, l’intento era quello di mettermi all’ingrasso. Una volta all’ingrasso sarei diventato io stesso bestiame, lasciando il posto di mangiatore di bestiame ad un altro ‘lavoratore’. Da lì iniziava un circolo vizioso che non aveva più fine; sotto lo sguardo assente di un Jack soddisfatto in cuor suo. I miei pensieri erano piuttosto originali, o malati se vogliamo, ma mi distoglievano quel tanto da farmi tornare con un sorriso nostalgico alla realtà; che non era malata a tal punto, ma aveva nella sua essenzialità forse la stessa dose di pazzia. La nostalgia era dovuta allo stile di vita al quale ero abituato e che inconsapevolmente già sapevo di aver abbandonato.

    Jack Kennedy era un uomo solitario che prestava la sua vita al lavoro. Non ero consapevole ancora da cosa venisse la sua felicità, non ero consapevole se l’avesse. Aspetto duro e segnato dal tempo, fisico tosto, a suo modo imponente. Jack era alto qualche centimetro più di me. Indossava un cappellino blu che presto scoprii nascondeva solo la testa. Pochi erano i grigi capelli adagiati su entrambi i lati, vicino alle orecchie. Il resto era una nuca rotonda lasciata sola. La bocca era capace di sorridere, così come gli occhi, ma entrambi sembravano destinati ad altro. Perché erano costretti a quella durezza? Mani grandi, piedi altrettanto. Jack faceva il suo lavoro: il suo aspetto fisico era stato pensato e modellato esclusivamente per questo. Possedeva un quadro che mostrava una mucca viva sulla sinistra e una morta sulla destra. Un articolo di giornale con una sua foto al centro. Il tutto capeggiato da due semplici e lapidarie scritte: Before – After. Era lo stile di Jack, era lo stile della sua casa, probabilmente della sua vita.

    La tenuta era povera. Molto. Nient’altro che eccedesse l’ordinario. Per un letto non serve una testata, per mangiare non occorre una tovaglia, per i muri non occorre una tinteggiatura, per le cose non occorre un ordine. Per nulla occorre abbellimento. Essenzialità, concretezza: probabilmente i vocaboli più d’uso comune o oltre la quale non osava spingersi la mente di Jack. Si accedeva tramite una scala in legno al primo ed unico piano. La casa era realizzata sopra dei pali alti un paio di metri: rimedio contro l’umidità… e la presenza di animali indesiderati, pensai. Un unico corridoio correva dritto per nemmeno dieci metri, alla fine del quale si trovava una cucina sulla sinistra e una lavanderia e bagno sulla destra. Prima uno studio, sulla destra, e un soggiorno a interporsi al bagno. Sulla sinistra due stanze: la sua e la mia, vicino alla cucina. Un portico su due lati della casa lasciava la possibilità di godersi il vento leggero, quando decideva di farti visita. Era il legno il materiale prevalente. Quasi sempre in deterioramento. Il colore pensato inizialmente doveva essere il bianco ma attualmente non lo si poteva dire con certezza. Cercai più volte di capire dall’espressione di Jack quale fossero le sue emozioni che accompagnavano la mia vista di tutte quelle cose, ma come ho detto non era facile che si lasciasse scappare un’emozione. O era anche vero che quella rappresentava la normalità in terre così remote; soltanto un forestiero come me poteva spendere il proprio tempo ad occupare la mente con i sentimenti, con pensieri riguardo a beni materiali, al loro apparire agli occhi del prossimo.

    Il primo giorno fu una gita allo scoperta del mio nuovo mondo. Mi fu insegnato come avvicinarmi ai cavalli, come gestire le diverse recinzioni e i mezzi lungo i sentieri, come proteggermi da eventuali attacchi animali e a riportare alla quiete i cani. Erano tre: Buster, Smaty, e Balder. Prendemmo Balder. Bastava un fischio per farlo saltare sul retro del pick-up e legarlo prima di metterci in marcia. Il pick-up era sporco, con il parabrezza scheggiato, in attesa solo di rompersi. Era un mezzo da lavoro, non doveva essere attrezzato per compiere altro. Ci dirigemmo nel più vicino store dove poterci rifornire di materiale, diesel e indumenti. Tutto ciò che avrebbe reso possibile il lavoro. Ci fermammo per riparare la ruota di un mezzo pesante poi in un grande alimentari. Acquistammo oltre 300$ in provviste. Jack fece di tutto per accontentarmi nei gusti, acquistò anche ciò che a lui non piaceva. Capii che era capace di dolcezza, e questo suo tenero nascosto in un certo senso mi colpì. Non ricevevo coccole da tempo e avvertire inaspettatamente una dimostrazione di affetto mi lasciò quasi commosso. Iniziai forse in quel momento a volergli bene. O decisi allora che ci avrei provato. Comprammo un gelato: fu l’ultima cosa che facemmo prima di tornare verso il pick-up, verso casa. La lunga lista di cose da acquistare ci aveva impegnato per diverse ore.

    Che Balder fosse scappato, mi disse Jack, non era normale. Che non rispondesse ai suoi fischi correndoci incontro, non era normale. Che non

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