I segreti del seminario
By Ugo Aquilio
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I segreti del seminario - Ugo Aquilio
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La domenica volgeva alla fine. L’aria fredda e carica di umidità di quella giornata di fine novembre ripuliva le strade dalla presenza degli ultimi passanti, come i tergicristalli la pioggia sui parabrezza delle auto; la messa serale era appena terminata e gli ultimi fedeli, uscendo dalla casa di Dio in religioso silenzio, si sparpagliavano veloci nella larga piazza dinanzi alla chiesa, ognuno alla ricerca della propria strada, che conduceva al rifugio sicuro delle calde e confortevoli abitazioni.
Minacciava di nuovo pioggia e in lontananza si sentiva il brontolio dell’ennesimo temporale che avrebbe rotto, con i suoi fragorosi tuoni, il silenzio della sera ormai prossima della piccola cittadina di provincia. Al momento il cielo sembrava aver stabilito una breve tregua e le nere nubi che si inseguivano veloci nell’aria contenevano, a fatica, l’imminente rovescio di acqua.
Anche una piccola comitiva di giovani, che in genere sono i più restii a darla vinta alle condizioni climatiche, abbandonava il campo, per cercare rifugio negli abitacoli appannati delle auto, regni di musica ad alto volume, di fumo e sede dei primi amori di gioventù, o davanti al video di una playstation a casa di qualcuno di loro.
Due anziane signore, a braccetto, si sostenevano reciprocamente parlando dei tempi che furono, di malanni e delle gioie dei nipoti; l’ombrello di una di loro, già aperto nonostante ancora non piovesse, serviva da appoggio per entrambe e per difendere le vecchie e infreddolite ossa da quell’umidità penetrante che da giorni regnava sovrana. Abitavano una accanto all’altra e da anni oramai, rimaste vedove, avevano stretto amicizia e si ritrovavano per la messa la domenica sera. Nelle loro argomentazioni puntuale compariva il giudizio sul sermone del parroco, padre Flavio.
«Sempre le stesse prediche; si limita a riassumere le letture liturgiche e non dà mai consigli utili per le azioni concrete.»
Questo, in genere, era la conclusione alla quale giungevano alla fine del tragitto chiesa casa. Anche quella sera non furono da meno.
Padre Flavio Francioni, un sacerdote di mezza età, non aveva fatto gran che breccia nei cuori dei suoi parrocchiani; aveva sostituito, da non molto tempo, l’amatissimo padre Giuseppe che, all’apice del suo amore per Dio ed il prossimo, aveva chiesto ed ottenuto di lasciare il suo tranquillo posto da parroco per potersi recare in uno sperduto villaggio del centro America a fare il missionario, incurante dei mille pericoli ai quali andava incontro: guerre, malattie, carestie, con il solo desiderio di aiutare le popolazioni indigene nel loro disperato tentativo quotidiano di sopravvivenza. Al cospetto di un tale paragone, padre Flavio si era arreso senza combattere consapevole, nel profondo della sua coscienza, di non poter essere mai all’altezza di una tale fede. I tempi in cui aveva deciso di intraprendere la strada sacerdotale erano lontani; una piccola fiammella si era accesa in gioventù, e forse gli era sembrato davvero di sentire qualcosa che lo spingesse ad amare gli altri più di sé stesso.
Il vento della quotidianità, della brama di affermazione, dell’egoismo e dei piaceri della carne ben presto spensero quel lumicino e di esso non restò neanche una sottile striscia di fumo. La vita in seminario gli fece capire sin da subito cosa sarebbe stato vivere ogni giorno cercando di mettere sempre al primo posto l’amore per Dio e per gli altri, sacrificando l’amore forte, animalesco e istintivo che ognuno ha per sé stesso. Una dura battaglia, che può essere vinta solo se supportati da una immensa fede. Si era reso conto di non essere in grado di portare a termine un impegno così grave eppure, nonostante questo, fece uno sbaglio ancora più grande.
Era diventato sacerdote, confidando in una vita tranquilla, in un lavoro
sicuro con uno stipendio più che dignitoso. Quel lavoro forse un giorno, se si fosse mosso nelle dovute maniere e se fosse riuscito a trovare le giuste raccomandazioni, gli avrebbe permesso di fare anche un po’ di carriera
; certo non pensava di diventare Papa, ma magari sarebbe riuscito a diventare vescovo e forse anche qualcosa di più. L’ambizione non gli mancava e neanche l’intelligenza e quella giusta dose di cattiveria
necessaria per farsi strada nella vita, qualunque via si sia deciso di percorrere. Non gli sarebbe importato di dover passare avanti a qualche suo collega maggiormente degno di porsi alla guida di comunità più grandi; a volte bisogna essere anche cinici e pronti a fare qualche sgambetto pur di proporsi come meritevoli agli occhi di chi giudica.
Purtroppo per lui le cose non erano andate proprio così. L’amore per se stesso, troppo superiore ed in conflitto con quanto era necessario per dare almeno una parvenza di adeguatezza a quel sacerdote diventato tale per mestiere, le troppe chiacchiere che circolavano su sue presunte storie con donne sole da consolare
, strane attenzioni
che egli aveva dedicato a giovani ragazzi frequentanti le sue parrocchie, avevano fatto si che ben presto fosse segnalato
, anche con lettere anonime, ai vari vescovi delle diocesi dove si era trovato a dire messa. Era stato già più volte oggetto di trasferimenti per ragioni più o meno dichiarate e, comunque, certamente bollato come un sacerdote da tenere d’occhio e non per le sue virtù.
Quella sera, al termine della celebrazione, non aveva atteso neanche la fine dell’ultimo canto ed aveva lasciato l’altare per la sacrestia, dove si era spogliato dei paramenti sacri; quegli abiti gli pesavano sempre più, anche se aveva cominciato a considerarli come una sorta di costume di scena dietro al quale nascondersi per recitare una parte.
Aveva tolto la stola e, ripiegatala per bene, l’aveva riposta nel cassone di un antico mobile di noce scuro, alquanto sgangherato, che aveva conosciuto certamente tempi migliori. Tutti i mobili della sacrestia erano molto antichi, sicuramente centenari, ma non erano stati ben conservati nel corso degli anni e la sensazione che trasmettevano era quella di una triste decadenza. La sacrestia, il cui intonaco scrostato dall’umidità da anni desiderava una tinteggiatura, era un locale di grandi dimensioni, illuminato dalla bianca e fredda luce di due lampadari al neon; in quelle giornate di lunghe e ininterrotte piogge, poteva senza dubbio essere classificata come uno dei luoghi più tristi, squallidi e malsani al mondo.
Si era spogliato della casula e del camice e li aveva riposti nell’enorme armadio a due ante nel quale erano conservati gli indumenti indossati per le liturgie. Fu aggredito dall’umidità dell’ambiente. Si guardò intorno e una sorta di tristezza gli strinse l’anima. Si sentì straniero e inadeguato fra quelle mura. Nulla gli recava conforto e i pensieri lo riportarono indietro nel tempo al ricordo delle sue speranze giovanili quando l’ambizione lo conduceva per il mondo spavaldo e fiero. La vita allora gli offriva mille promesse; oggi nessuna era realizzata. Aveva voluto prendere la via che gli era sembrata più agevole da percorrere, ma era rimasto ingannato poiché si era inoltrato in una strada per lui senza uscita.
I suoi pensieri si rincorrevano e ancora una volta, come tante altre, la sua mente andò a quel giorno in seminario quando …
Un improvviso tuono lo richiamò nel luogo in cui era. Si rifiutò allora di continuare a tormentarsi e impose a se stesso di badare alle cose presenti che, pur avendo l’odore della muffa e l’amarezza della delusione, erano preferibili al senso di vuoto che gli procurava il ritorno a quei giorni.
Aveva ricominciato a piovere. Il forte scroscio dell’acqua picchiava tamburellante sulle colorate vetrate a mosaico della chiesa. Padre Flavio, desideroso di rientrare al più presto nella sua abitazione, lasciò la sacrestia e si diresse con passo sicuro verso le navate laterali; il sacrestano quella domenica era stato costretto a letto dall’influenza dilagante di quei giorni. Non avrebbe potuto adempiere perciò ai suoi doveri e sarebbe toccato al sacerdote svuotare le cassette delle elemosine poste sotto la sfilza di candele elettriche che illuminavano la Vergine e San Paolo, il santo patrono della parrocchia.
Tutti i fedeli avevano già lasciato l’edificio. Come sempre, senza rivolgergli neanche un saluto, era prontamente andato via anche quel bravo organista, Simone Lorenzi, o almeno così gli pareva si chiamasse, che da circa un paio di mesi si era offerto, gratuitamente, di accompagnare le messe serali della domenica. Per quelle del mattino non sarebbe stato possibile a causa dell’impegno che già aveva preso, per pura carità cristiana e quindi senza compenso, con don Luca, il sacerdote della chiesa di Sant’Andrea.
Proprio a don Luca, padre Flavio aveva chiesto notizie riguardo a quel ragazzo, tanto virtuoso e appassionato all’organo quanto schivo e riservato quando si trattava di scambiare due parole. Neanche dal suo collega era riuscito a saperne più di tanto. Di circa trent’anni di età, sembrava fosse arrivato da qualche anno in città, insieme alla sua mamma; la domenica metteva in evidenza e a disposizione di tutti le sue notevoli capacità.
Pensava ancora a Simone e a quei suoi occhi di ghiaccio, che non lasciavano trapelare i messaggi della mente e del cuore, quando, camminando, notò che non tutte le panche erano vuote; un giovane era rimasto raccolto in preghiera.
Teneva la testa bassa, il viso nascosto fra le mani; probabilmente pregava con tale fervore e intensità da non essersi reso conto che la messa era oramai terminata.
Padre Flavio lo aveva visto tante volte, tutte le domeniche. Il suo nome era Davide. Non sapeva bene cosa pensare di lui. A volte ne provava pena perché sembrava non essere completamente in sé e partecipava alla messa con un fare che rasentava il maniacale; altre volte quasi ne provava invidiava, poiché, se il fervore ed il trasporto che dimostrava durante le celebrazioni era dettato realmente dalla fede, allora era una delle persone più fortunate che avesse mai incontrato. E già, proprio quella fede di cui egli sentiva un disperato bisogno ma che invece non gli apparteneva!
Era indeciso se lasciarlo pregare ancora un po’. Un forte tuono venne in suo soccorso nel fargli prendere una decisione. Aveva voglia di rincasare quanto prima, possibilmente senza prendere troppa di quell’acqua che il cielo distribuiva in quei giorni così generosamente. Gli si avvicinò e poggiandogli una mano su una spalla disse: «Anche la casa del Signore ha i suoi orari; se proprio ne hai voglia, Dio ti ascolterà anche se lo pregherai da casa tua».
Stupito, il giovane alzò il capo; aveva occhi lucidi, quasi come se stesse per piangere o come se avesse smesso di farlo da poco. Per un attimo sembrò analizzare le parole che gli erano state dette e il suo viso assunse un’espressione come di meraviglia. Poi, giunto al risultato dell’elaborazione, il suo volto si irrigidì, gli occhi divennero delle strette minacciose fessure e la sua voce, dal tono più robusto di quanto il suo esile corpo lasciasse immaginare, uscì lenta ma sicura, denotando una certa dose di rabbia: «Ho capito; vado».
Scosso da quella reazione, il sacerdote si girò e si diresse, con lieve turbamento, verso le cassette contenti le offerte dei fedeli. Stava per raggiungere la prima quando il bagliore di un lampo attraversò le vetrate seguito, quasi immediatamente e con gran fragore, da un tuono. I pochi faretti accesi quella sera per la celebrazione, sistemati presso le colonne della navata principale, con uno schiocco secco si spensero; la loro energia era stata richiesta con violenza da quell’ultimo fulmine che si era abbattuto nelle vicinanze.
Padre Flavio si ritrovò nel buio e, per un attimo, rimase immobile, indeciso sul da farsi. Stava per tornare indietro verso la sacrestia, rinviando all’indomani la raccolta delle monete, quando nell’oscurità sentì un fruscio e un soffio di vento gelato sfiorargli il viso. Si chiese cosa potesse essere stato; qualcuno o qualcosa lo aveva sfiorato passandogli vicino o era stata semplicemente una corrente d’aria generatasi per il riscontro del portone principale della chiesa, ancora aperto, con chissà quale altra porta o finestra? La sua mente non aveva ancora finito di formulare queste due ipotesi quando gli parve di sentire, non troppo distante da dove si trovava, dei passi rapidi percorrere la navata laterale seguiti subito dopo da un cigolio; era come se una porta fosse stata prima aperta e poi richiusa.
«Chi c’è? ... C’è qualcuno? … Davide sei tu? ... » quasi urlò con una voce che gli uscì tanto tremolante da far sì che anche lui stesso ne fu sorpreso. Sentì all’improvviso il cuore partire all’impazzata; si sentì la gola serrare dalla paura e dalla pressione che quel battito selvaggio gli procurava. Tutti i muscoli del corpo si erano irrigiditi e sembravano pronti ad esplodere, non capiva bene se per difendersi dall’ignoto o per esibirsi in una mirabolante fuga per portarlo il più lontano possibile.
Alle sue domande non seguì alcuna risposta. Allora, sempre brancolando nel buio e cercando di non inciampare in qualche panca o in qualche scalino, riprese a camminare lentamente verso la sacrestia, con le mani tese in avanti e con le orecchie pronte a cogliere qualsiasi altro percettibile rumore. Una volta lì, avrebbe preso il cappotto, sarebbe passato dalla porta che dava sul retro della chiesa e, uscito fuori, avrebbe chiuso dall’esterno il portone della chiesa. Se qualcuno fosse rimasto chiuso dentro, tanto peggio.
All’improvviso sentì una mano afferrargli il braccio; si immobilizzò e con uno sforzo immenso, sovraumano, riuscì a mala pena a far uscire dalla bocca l’aria necessaria per dire: «chi sei?».
Silenzio! …
Cercò di ordinare alle sue gambe di correre, di portarlo via il più in fretta possibile, ma non ci fu niente da fare. Non era più padrone del suo corpo; la paura si era impossessata totalmente di lui.
All’improvviso i faretti si rianimarono e la luce ebbe il sopravvento sul buio. A Padre Flavio uscì un grido strozzato a fatica in gola. Accanto gli stava la statua lignea a grandezza d’uomo di San Paolo che lo guardava con severità e lo tratteneva con la mano. Provò la sensazione di sentirsi leggero come l’aria e il sollievo che lo invase era pari a quello che si prova in genere al risveglio da un terribile incubo. L’enorme sospiro che emise portò via con sé, dai suoi polmoni e dal suo corpo, la grande paura che lo aveva attanagliato. Il cuore decelerò e il numero dei battiti ritornò più consono a quello di una situazione di normalità.
La paura che aveva provato portava con sé qualcosa di irrazionale; da piccolo non aveva mai avuto timore del buio. Eppure, da quando la sua coscienza era stata macchiata da azioni non adeguate a quelle di un uomo retto, tanto meno a quelle di un prete, aveva cominciato a sentirsi più solo, ramingo nel mondo, senza il conforto di parenti, amici e, quello che più gli mancava, senza il conforto e la presenza di Dio. Sapeva di non meritare alcun perdono, anche perché non si era mai affacciato in lui il pentimento; anzi, egli persisteva diabolicamente in quei comportamenti e nel condurre una vita lontana ed opposta a quella di un buon sacerdote.
Decise di affrettarsi a spegnere la sfilza di candele elettriche votive, raccogliere le offerte e chiudere il portone principale della chiesa. Non voleva ritrovarsi di nuovo al buio, correndo magari il rischio di mettersi a piangere come un bambino chiamando a gran voce la mamma. Sorrise a questo pensiero, vuotò la cassetta delle monete, offerte a San Paolo per esaudire le preghiere più svariate, e spense le lucine tremolanti. Stava per dirigersi a compiere la stessa operazione presso la statua della Vergine, quando notò che la luce del confessionale, quella che segnala la presenza di un fedele che vuole confessarsi, era accesa. Il primo pensiero fu di stizza.
Chi mai a quest’ora ha deciso di alleggerirsi l’anima?
Mentre con passo deciso si sentiva già pronto a mandare via il noioso peccatore dell’ultima ora, d’improvviso si fermò e sentì il suo cuore ripartire per una nuova galoppata. Rivisse, agitato, i momenti che aveva trascorso al buio, e la sua mente gli ricordò i passi rapidi che aveva sentito e il cigolio, come di una porta che si apriva e veniva successivamente richiusa.
C’era dunque qualcuno nel confessionale che, interpellato, non si era voluto manifestare.
Con fare timoroso si avvicinò lentamente. Afferrò la maniglia, trattenne per un attimo il respiro e poi … con un veloce strattone aprì la porta utilizzata per l’accesso dei fedeli.
Nessuno!
Si era dunque sbagliato ancora una volta. La forte tensione si allentò nuovamente, ma questa volta lo stress provato gli era costato un prezzo più alto che in precedenza. Si