Per un sorso di cristal
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Tra normalità , perversioni e passioni, si muove questo giallo che ha il sapore amaro e secco di un buon bicchiere di champagne francese!
In una vecchia Scuola Primaria verrà ritrovato il cadavere di un'insegnante, il paese entra in subbuglio, niente è come sembra e Caputo, il Maresciallo, farà non poca fatica a dipanare il suo gomitolo, ma ci riuscirà, riportando a galla la legge eterna che vede l'amore come un sentimento spesso troppo complicato per restare solo....amore.
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Per un sorso di cristal - Marzia Francesconi
Marzia Francesconi
superfilo92@libero.it
Per un sorso di Cristal
Ai miei genitori: Elio e Egle che mi hanno voluto bene chiedendomi solo di essere una donna onesta e serena e soprattutto di essere me stessa.
Indice
Quella mattina…
Caputo si passò…
L’aveva voluto lei, se l’era cercata...
Guardando dalla finestra...
La mattina dopo, Caputo…
Alle 24.00 Giovanni Caputo...
Barbara si rigirò…
Pietro Santini era un uomo…
Dentro il Caffè…
Quella notte non riusciva a dormire…
Caputo si era fatto portare....
Barbara uscì in fretta di casa…
Andare a parlare di cadaveri…
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Quando Caputo vide entrare…
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Mentre si dirigeva verso la caserma di Mondolfo…
Il cielo era stellato, non pioveva più…
Li sentiva, sentiva che si muovevano come topi…
La stanza d’Ospedale era piccola e odorava di pulito…
Quando finalmente furono fuori da quella stanza…
I titoloni sui giornali….
Ringraziamenti
Quella mattina…
Quella mattina di gennaio, il sole, alle 7.30, sembrava non essere ancora sorto.
Il cielo era grigio e pesante, come un’enorme lastra di ferro.
I lampioni, nelle strade deserte, erano accesi e macchiavano con il loro riflesso luminoso l’asfalto grigio e umido delle vie. Dalle serrande o dalle persiane delle case, ancora chiuse, filtrava il chiarore giallognolo della luce artificiale e le saracinesche dei negozi, ben serrate, sembrava non dovessero rialzarsi più.
A un tratto il silenzio fu rotto come un vetro che va in frantumi e dalla chiesa di S. Giustina partirono i rintocchi di campana che annunciavano la prima messa della giornata.
Mirella Ripanti parcheggiò in via Costa, a quell’ora non c’era certo il pericolo di non trovare parcheggi! Girò meccanicamente la testa verso la chiesa, verso i rintocchi: Debbo andare a messa più spesso
pensò.
Quindi scese stancamente dalla sua vecchia Panda grigia, la schiena le dava qualche fastidio in quel periodo, si raddrizzò, poi sospirò.
Un’altra giornata cominciava e, come d’altronde tutte le altre, non sembrava che avrebbe portato niente di buono, almeno non per lei.
Erano ormai anni che Mirella, qualunque fosse il tempo: sole o pioggia, caldo o freddo, non sperava più nella bella giornata
, quella serena, quella fortunata, quella che ti cambia la vita…
La sua vita era cambiata, certo, ma non in meglio, dopo la morte di suo marito si era ritrovata in un mare di debiti, soprattutto debiti di gioco che suo marito non aveva pagato e con due figli, ancora piccoli, da tirar su. Stordita, era stata costretta a cercare lavoro, a quarant’anni suonati, lei che in tutta la vita aveva sempre fatto la signora
.
Mirella sospirò ancora, si tirò su il bavero di pelliccetta, rigorosamente ecologica, non perché fosse animalista, ma perché quella vera non poteva permettersela, del giaccone e dirigendosi verso il portone di vetro della scuola Primaria del paese, sorrise, un sorriso storto e un po’ triste: Fortuna la scuola...
pensò.
Eh, sì! Perché proprio il suo modesto lavoro da bidella, o come si dice oggi, di collaboratrice scolastica, in quella scuola elementare, che adesso si doveva chiamare Primaria
, le aveva salvato la vita, l’aveva resa più sicura, le aveva permesso di crescere i figli e di concedersi anche qualche piccolo sfizio, come la vacanza in montagna con i volontari dell’AVULS che aveva fatto l’estate precedente.
Quella scuola, così severa e scura, ricoperta per lo più da mattoncini e da poco ingentilita da un’imbiancatura quasi aranciata, che la rendeva, Mirella doveva ammetterlo, più luminosa, con il chiarore lucido di quel portone di vetro, che certo sarebbe stato meglio in un palazzo moderno, piuttosto che in una scuola sorta nel ventennio fascista, insomma quella scuola un po’antica e un po’ moderna, ma solida, era il suo rifugio.
Mirella l’amava, perché solo lì riusciva a trovare un po’ di quella serenità che a casa, tra i problemi, le faccende e i soldi che non bastavano mai, spariva come neve al sole. Quando le colleghe o le maestre parlavano di vacanze e contavano i giorni che mancavano al Natale, alla Pasqua o meglio ancora, alle vacanze estive, Mirella non parlava mai, non faceva commenti, ma dentro di sé sentiva come un vuoto, come se le togliessero qualcosa.
Automaticamente, guardò l’orologio che aveva al polso e all’improvviso fu presa da una fretta che le fece accelerare i movimenti un po’ lenti e scendere, a balzi, quasi saltellando, i pochi gradini che la separavano dal portone. Era già passato qualche minuto alle 7.30, tra un po’ sarebbe arrivato l’applicato di segreteria e avrebbero cominciato a squillare i telefoni, Mirella doveva sbrigarsi.
Infilò la chiave nella toppa e aprì. Dentro l’aria era già abbastanza calda, l’orologio del termostato aveva fatto il suo dovere e si era acceso. L’ingresso un po’ scuro l’accolse come tutte le mattine, eppure, quel giorno, Mirella, non avrebbe mai saputo spiegare il perché, si sentiva turbata, percepì qualcosa di diverso, un odore forse o un rumore?
Si fermò un attimo a metà del breve scivolo ricoperto di linoleum, il cuore le aveva preso a battere più forte, Mirella avrebbe giurato che ci fosse già qualcuno all’interno della scuola. Inspirò, poi espirò lentamente e, dandosi della sciocca, cominciò a dirigersi verso la stanza delle bidelle, la cui porta, chiusa, vedeva davanti a sé.
Quando stava per infilare la chiave nella toppa si girò lentamente verso destra, verso l’ala più ampia del lungo corridoio, quella che portava anche alla segreteria e all’ufficio della dirigente, e fu allora che la vide…
Dapprima non capì subito di cosa si trattasse, ma c’era una massa distesa, poco lontano da lei, una massa quasi informe sul pavimento rossiccio. Cos’era?
.
Cosa diavolo è?
si domandò Mirella nella luce debole della prima mattina, poi capì perché non riconosceva quella forma, non aveva acceso la luce, automaticamente allungò il braccio alla sua sinistra, verso l’interruttore e quasi simultaneamente sentì un urlo acuto, stridulo, quasi inumano e dovette passare qualche secondo prima che capisse che quell’urlo veniva dalla sua bocca!
Caputo si passò…
Caputo si passò una mano tra i capelli, ancora folti e scuri, nonostante avesse passato ormai la cinquantina e si guardò intorno sconsolato, lo spettacolo che gli si era parato davanti, in quella mattina di gennaio, poteva tranquillamente essere paragonato a una scena dei più tipici e terribili horror americani.
La povera Mirella Ripanti, la bidella che aveva trovato il corpo, non si era ancora ripresa e se ne stava, tremante e singhiozzante, su una sedia del suo stanzino, rincuorata da una collega più alta e corpulenta di lei, che continuava a passarle la mano grossa, da lavoratrice, sulle spalle.
I bambini erano, naturalmente, stati rispediti tutti a casa e a nessuno di loro, né dei loro genitori, era stato permesso di varcare la soglia della scuola. Invece i docenti, il personale di segreteria, i collaboratori scolastici, alias bidelle, nonchè la dirigente erano tutti quanti arrivati, fatti entrare ed erano stati convogliati in una stanza a fianco dello stanzino delle bidelle, una stanza senza banchi, abbastanza ampia, con delle seggiole di plastica rossa con gambe di metallo, una specie di aula magna
per così dire…
Quelli della Scientifica erano arrivati da pochi minuti e con le loro tute, i loro pennelli e i loro strumenti si muovevano silenziosi come fantasmi, intorno a quel corpo, in mezzo al corridoio.
Il medico legale non si era ancora visto, ma Caputo era certo che il buon Zandri non sarebbe mancato all’appuntamento, l’avrebbe visto entrare, di lì a poco, grosso e pesante, avvolto nel suo cappotto e nel suo silenzio, Caputo aveva sempre avuto l’impressione che per Zandri parlare fosse una vera fatica, il silenzio era la sua naturale predisposizione.
Corsi gli si avvicinò e, dopo aver dato un’occhiata preoccupata alla Ripanti, disse:
«Che dice maresciallo, la mandiamo a casa, quella poveretta?»
«Certo, certo, falla pure accompagnare a casa, e dalle il tempo di riprendersi, la sentiremo, con più calma, in caserma. Invece, per ora voglio entrare in quella stanza» e indicò con il dito l’aula in cui erano radunati i dipendenti della scuola, «e voglio sentire quali sono a caldo i commenti e le osservazioni, anche perché…» e non finì la frase, ma con un gesto eloquente indicò il corpo.
Corsi annuì, pensieroso, poi si diresse verso la Ripanti, mentre Caputo entrò deciso nella stanza con le sedie rosse.
Appena entrò, il primo impatto che ebbe fu di troppa gente presente: Ma quanta gente ci lavora in questa scuola?
, pensò, dentro c’erano almeno una ventina di persone!
Naturalmente erano quasi tutte donne e questo Caputo se l’aspettava, perché sapeva che nella scuola Primaria i maestri
erano diventati praticamente una rarità, anzi il maresciallo si stupì delle ben tre presenze maschili che vide!
Uno dei tre sembrava piuttosto anziano, quasi completamente bianco di capelli, se ne stava seduto in una delle sedie in fondo, non aveva tolto il pesante cappotto grigio, nonostante l’aria all’interno della stanza fosse piuttosto calda, ma lo teneva slacciato, rivelando, sotto, una pancia prominente; poco lontano da lui, ma in piedi e appoggiato al muro, se ne stava un uomo un po’ più giovane, con i capelli lunghi, gli arrivavano quasi alle spalle, e pettinati all’indietro, era molto pallido, con un colorito malaticcio, giallognolo; il terzo invece, sempre un uomo di mezz’età, ma con i capelli tinti di un nero corvino, era seduto in prima fila e teneva lo sguardo fisso, quasi assente di fronte a sé. Per il resto erano tutte donne, per lo più intorno ai quarant’anni, giudicò Caputo con un colpo d’occhio, anche se almeno tre non dovevano aver superato la trentina.
Il maresciallo aveva fatto in tempo a fare solo un passo avanti che si trovò di fronte una figura femminile un po’ inquietante, un misto tra una Barbie un po’ troppo matura e un’hippy degli anni ’70. Aveva lunghi e lisci capelli di un biondo quasi platino, ingentiliti da una lunga frangia e portava una gonna nera, accompagnata da una balza in fondo, e un grosso maglione, pure nero, di lana grossa, fatto a mano, con un collo ad anello. Nonostante il colore dei capelli e l’abbigliamento un po’ alternativo, Caputo giudicò, dalle rughe che vedeva, che la donna doveva avere abbondantemente superato la cinquantina.
«Sono la dirigente» si presentò la donna, con una voce un po’ stridula, non si sapeva se per l’emozione o per natura, «Stella Ruggeri» continuò imperterrita, senza permettere un fiato al povero maresciallo. «Insomma, cosa diavolo è successo? Ci avete chiuso qua dentro ormai da circa un’ora senza darci notizie, cosa è successo nella mia scuola?»
Ora la voce della donna si era un po’ incrinata e gli occhi sembravano più lucidi.
«Avete ragione, avete ragione» ripeté Caputo mettendo una mano sulla spalla della donna, come a volerla tranquillizzare, «ora vi metterò al corrente dell’accaduto. Purtroppo nella vostra scuola, in questa scuola, è successo un fatto grave, si è verificato un omicidio».
Caputo sapeva che la parola omicidio suscitava sempre una forte reazione emotiva in chi la percepiva, quindi dopo averla pronunciata tacque, per osservare l’effetto che quella parola aveva provocato nelle persone presenti.
Una delle donne più giovani, una brunetta con i capelli corti, si buttò addosso all’uomo con il cappotto grigio e cominciò a singhiozzare, la dirigente si mise le mani sulla bocca e sbarrò gli occhi, l’uomo con i capelli tinti distolse lo sguardo dal muro che aveva di fronte per volgerlo verso Caputo, una donna alta con un maglione rosso a collo alto disse: «Mio Dio!»
Gli altri, pur impallidendo tutti drasticamente, non fiatarono, né si mossero.
«Un omicidio? Ma cosa dice maresciallo, un omicidio nella mia scuola?» La dirigente quasi balbettava e Caputo, vedendola impallidire ancora di più, pensò fosse il caso di accompagnarla ad una delle sedie vicine e di farcela sedere sopra.
«Chi è morto? Chi è stato ucciso?» La voce veniva da una donnina piccola e pallida, che se ne stava seduta vicino alla porta, con le gambe strette l’una all’altra e le minuscole mani adagiate sopra. Non si era trattato di un grido, di una richiesta forte, la voce era uscita debole e quasi inudibile da quelle labbra chiare