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Qui Belfast: Storia contemporanea della guerra in Irlanda del Nord
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Qui Belfast: Storia contemporanea della guerra in Irlanda del Nord

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Dal 1982 fino ai giorni nostri, Silvia Calamati ha vissuto in prima persona la questione dell'Irlanda del Nord. Un dramma a cui, con "Qui Belfast", l'autrice cerca di dare voce, aprendo una breccia in quel muro di omertà che circonda il conflitto nord-irlandese. Una censura il cui prezzo più alto è stato pagato da migliaia di civili innocenti, costretti a subire le violenze dello Stato, delle forze di sicurezza britanniche e della polizia, senza avere poi giustizia. Con esperienza, partecipazione e sensibilità, Silvia Calamati ha raccolto le voci della società civile insieme a testimonianze e articoli di personalità di spicco del mondo politico, culturale e religioso, seguendo da vicino il tormentato percorso che ha portato, nell'aprile del 1998, alla firma dello storico "Accordo del venerdì santo" e all'inizio di un travagliato, e ancora oggi incompiuto, processo di pace. E mentre è vivo e forte, da parte di Londra, il tentativo di affievolire, insieme alle sue pesanti responsabilità, la memoria della guerra in corso, "Qui Belfast" consegna al lettore pagine di indignata verità: una storia molto diversa da quella che i media più autorevoli tentano di contrabbandare come ufficiale.
LanguageItaliano
Release dateOct 21, 2014
ISBN9788867180653
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    Qui Belfast - Silvia Calamati

    2012]

    INTRODUZIONE

    Nel mio lungo rapporto con l’Irlanda del Nord è sempre stata la morte di una persona che mi ha spinto a scrivere o a tradurre, di volta in volta, un libro.

    Qui Belfast, invece, nasce a seguito di un progetto reso pubblico dalle autorità britanniche nel 2006.

    L’idea è quella di smantellare il carcere di Long Kesh (dove Bobby Sands e altri nove giovani detenuti irlandesi si lasciarono morire di fame nel 1981, dopo anni di durissime lotte carcerarie), per «riutilizzare» l’enorme area in cui sorgeva la prigione.

    Durante la conferenza stampa di presentazione del progetto, tenutasi nel gennaio 2007, il ministro per le Attività Sportive David Hanson ha dichiarato che l’obiettivo è quello di creare un imponente stadio per le partite di rugby, calcio e sport gaelici.

    «L’idea è ancora in fase di elaborazione, ma la nostra intenzione è avere uno stadio internazionale per un pubblico internazionale. Sarà un vero modello di comfort, accessibilità e durata nel tempo», ha assicurato John Barrow, portavoce di Hok Sport, lo studio di architettura londinese che fa parte del team incaricato dal Governo di stilare il progetto.

    Secondo quanto già annunciato nel maggio 2006 da Hanson lo stadio, che dovrebbe avere una capienza di 38.500 posti, potrà servire anche per manifestazioni di massa e concerti all’aperto. L’area verrà dotata di alberghi «di alta qualità», caffè, bar, cinema multisala e, probabilmente, anche di una piattaforma per il pattinaggio sul ghiaccio.

    Verrà inoltre creato un non meglio definito International Centre for Conflict Transformation (ICCT, Centro internazionale per la trasformazione dei conflitti), utilizzando «alcuni edifici già esistenti», tra cui, a quanto pare, uno degli otto Blocchi H che formavano la prigione, nonché l’ospedale e la chiesa del carcere.

    La zona, in cui sorgeranno estesi spazi abitativi (anch’essi di «alta qualità»), sarà dotata di aree espositive, parchi giochi per bambini, strutture sportive per i residenti. Tutto questo «incoraggerà gli investimenti nell’area, sotto la supervisione del Governo».

    L’«Irlanda del Nord deve girare pagina»: questo è il motto che sta alla base di tale decisione.

    In tutti questi anni mi sono recata più volte a Long Kesh. Ho accompagnato Bridget Coogan a incontrare il figlio Liam, diciotto anni, uno dei «Cinque di Beechmount», i ragazzi di Belfast che nel maggio 1991, dopo essere stati sottoposti per giorni a maltrattamento fisico e psicologico nel centro interrogatori di Castlereagh, avevano finito per firmare un’autoaccusa già preparata dalla polizia. Nel mio libro Le compagne di Bobby Sands. Le donne e la guerra in Irlanda del Nord (2011) ho raccontato la storia di questa madre coraggiosa e tenace, che ha fatto l’impossibile per aver giustizia per il figlio.

    Nel 2003, sulla base dell’«Accordo del Venerdì Santo», il carcere è stato chiuso e tutti i prigionieri sono stati rilasciati. Da allora ho avuto modo di entrare a Long Kesh altre due volte, nel maggio e nell’agosto del 2006. Appena in tempo, perché nell’aprile 2007 è giunta la notizia della completa demolizione del perimetro esterno delle mura del carcere.

    Credo fermamente che abbattere Long Kesh sia come voler far sparire dalla faccia della terra il campo di concentramento di Auschwitz o quello di Dachau.

    All’interno di quei famigerati luoghi dell’orrore che sono stati per anni i Blocchi H è stata scritta una delle pagine più tragiche della storia dell’Irlanda del Nord. La sofferenza, la repressione e la violenza che hanno albergato in quelle celle e che sono state inflitte sui corpi e nell’anima dei prigionieri risultano incommensurabili.

    Non è un caso che, in questi ultimi anni, stiano morendo prematuramente ex prigionieri che avevano effettuato la blanket protest o partecipato agli scioperi della fame del 1981. Il motivo? Il loro fisico è stato minato in modo irreversibile da quella terribile esperienza.

    Il carcere di Long Kesh non avrebbe dovuto essere abbattuto non tanto per ribadire l’infamia di chi lo gestì in modo così disumano per tutti quegli anni, ma soprattutto perché rimanesse un monito per quelli che verranno dopo di noi, esattamente come lo sono Auschwitz e tutti gli altri campi di concentramento in giro per l’Europa: ricordare che un orrore simile non deve ripetersi più.

    La decisione di abbattere Long Kesh risponde a una logica molto pragmatica: gettare «una colata di cemento», reale e psicologica, sugli ultimi quarant’anni di storia dell’Irlanda del Nord.

    È a questa logica che rispondono, ad esempio, l’abbellimento dei «muri della pace» che vi sono ancora a Belfast, il colore bianco dato alle jeep e alle autoblindo della polizia, la riprogettazione urbanistica di aree in cui sono avvenuti i fatti più tragici del conflitto nord-irlandese, come il quartiere di Bogside, a Derry, oggi irriconoscibile rispetto ai tempi del «Bloody Sunday».

    Nonostante la pesante crisi economica, a prima vista Derry è una città in espansione, che non ha nulla a che spartire con il luogo martoriato che appare nelle immagini in bianco e nero del fotografo Clive Limpkin riguardanti la cosiddetta «Battaglia di Bogside» dell’agosto 1969.

    Belfast, oggi collegata direttamente con le maggiori capitali d’Europa con voli low cost, è divenuta nella mente di moltissimi turisti «la città del Titanic». Questo in virtù di una costosissima campagna pubblicitaria a livello mondiale, che sfrutta quella che fu in realtà una «tragedia sul mare», per di più annunciata e costata la vita a oltre 1.500 persone, tra cui più di trenta italiani.

    Simbolo di tutto ciò è il Titanic Quarter, l’area nel porto di Belfast dove fu costruito il leggendario Titanic, situato a pochi metri di distanza dall’enorme gru dei cantieri Harland & Wolff, ancora oggi pesante icona della ferocissima discriminazione a cui furono sottoposti per decenni i lavoratori nazionalisti di Belfast.

    Anche in questa zona sono previsti centri direzionali, abitazioni esclusive, bar e ristoranti, che si affiancheranno ai già esistenti Paint Hall Studios, un’area adibita a studi cinematografici.

    Qui, durante una mia visita nell’estate 2007, la Playtone, la compagnia di produzione cinematografica di proprietà dell’attore americano Tom Hanks, stava girando il film del regista Gil Kenan City of Ember, con Bill Murray e Tim Robbins.

    E nel novembre 2011 la diciottesima edizione degli MTV Europe Music Awards ha portato a Belfast migliaia di giovani da tutto il mondo, accorsi per vedere artisti di fama internazionale come Lady Gaga e i Coldplay.

    L’intento di Londra è quello di far sparire in breve tempo il ricordo di Belfast, di Derry e delle altre cittadine dell’Irlanda del Nord come luoghi costellati da barricate, posti di blocco della polizia e dell’esercito, griglie alle porte e alle finestre, soldati per le strade. In altre parole, l’immagine dell’Irlanda del Nord che per decenni ha fatto il giro del mondo.

    Peccato però che, di tanto in tanto, i giornalisti dei media internazionali siano costretti ad aggiornarsi in tutta fretta sugli ultimi sviluppi della questione nord-irlandese, quando si trovano a dover commentare, ad esempio, l’ultimo attacco di dissidenti repubblicani contrari al processo di pace, avvenuto a Derry o Belfast. «Ma la Regina Elisabetta non ha stretto la mano all’ex capo dell’IRA Martin McGuinness?», si chiedono perplessi.

    La memoria storica che il Governo britannico vuole cancellare, tuttavia, non si limita al solo ambito urbanistico. Riguarda anche le vicende che hanno caratterizzato l’Irlanda del Nord. E, in primo luogo, le responsabilità che questo stesso Governo ha avuto nel farla diventare il luogo d’Europa con la più alta violazione dei diritti umani.

    Come ho scritto nel libro Irlanda del Nord. Una colonia in Europa (2005), dall’invio dei suoi soldati nell’agosto 1969 la strategia di Londra è stata quella di presentare, agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, il conflitto nord-irlandese come una «guerra di religione» o una «guerra civile».

    In tale contesto il ruolo di Londra appare quello di un onesto mediatore, impegnato da sempre a cercare di portare la pace tra due comunità divise da un odio secolare.

    In realtà i protagonisti di questo conflitto non sono stati solo l’IRA, la comunità unionista e quella nazionalista, ma anche altre forze in gioco: i gruppi paramilitari lealisti, la Gerarchia cattolica e quella protestante, Dublino, i media, la lobby americana di origine irlandese e, in primo luogo, il Governo britannico. Su tutti questi protagonisti ricade il peso di quel che è successo durante il conflitto.

    Londra, quindi, non può sottrarsi alle sue responsabilità. Il tentativo che ora sta facendo di eliminare la memoria storica è quindi anche un tentativo di cancellare la violenza che ha perpetrato su migliaia di persone in oltre trent’anni di guerra.

    Questo libro nasce quindi con lo scopo di fare in modo che la memoria di un passato europeo così recente non venga sepolta, così come il Governo britannico invece vorrebbe. È una raccolta di articoli, redatti e testimonianze, scritti da me e da altri giornalisti, a partire dal 1984.

    Il primo riguarda la morte di Sean Downes, un giovane di 22 anni ucciso il 12 agosto 1984 a Belfast da un proiettile di plastica, sparatogli al cuore da un agente di polizia al termine di una pacifica manifestazione di migliaia di persone, con tante donne e bambini, a cui anch’io avevo preso parte. I feriti furono una ventina, alcuni finiti sotto le ruote delle jeep della polizia che si erano mosse in direzione della gente seduta a terra.

    Gli articoli che ho scritto successivamente sono stati in gran parte pubblicati nel settimanale «Avvenimenti», con cui ho collaborato fino al 1995. Tramite le pagine di quello che è stato per moltissimi lettori italiani un settimanale militante e coraggioso, ho potuto raccontare quello di cui ero testimone tutte le volte che mi recavo in Irlanda del Nord, in un periodo in cui ciò che succedeva per le vie di Belfast e Derry trovava poca eco nei giornali e alla televisione.

    A quel tempo l’Irlanda del Nord era presentata come un deserto, illuminato di tanto in tanto solo dal fuoco delle bombe dell’IRA.

    Quello che avevo attorno a me ogni volta che mi trovavo a Belfast era invece qualcosa di molto più complesso. C’era la vita quotidiana della gente, la repressione, le perquisizioni a notte fonda, i comuni cittadini portati via dalle proprie case e sbattuti nei centri di interrogatorio e poi per anni a Long Kesh, seppure innocenti. E poi la repressione della polizia e dei soldati, i civili uccisi dai gruppi paramilitari lealisti, la precarietà dell’esistenza, la degradazione sociale, la disoccupazione generazionale. Ma, soprattutto, la sofferenza quotidiana che tutto questo comportava per migliaia di persone, in primo luogo donne e bambini, una sofferenza così diffusa e profonda che a malapena si riesce a descrivere.

    È per tutto questo che ho girato infinite volte le strade dell’Irlanda del Nord, per raccogliere di persona voci e testimonianze di gente comune, la cui vita forniva una versione del conflitto nord-irlandese diversa da quella presentata dai media.

    Negli articoli e nelle interviste che ho scritto per «Avvenimenti», quindi, l’Irlanda del Nord è raccontata «dal di dentro», dalla sua gente.

    A parlare sono (per citarne solo alcune) persone come Annie Armstrong e Joe B., scampati a un tentativo di assassinio da parte dei gruppi paramilitari lealisti, Emma Groves, resa cieca da un proiettile di gomma sparatole al volto da un soldato britannico nel 1971, Peter Caraher, il cui figlio Fergal fu ucciso nel 1990 mentre usciva da un parcheggio dopo essere stato fermato dai soldati, Bernadette Devlin McAliskey, leader del Movimento per i diritti civili alla fine degli anni Sessanta, Gerard, figlio di Bobby Sands, e Paul Hill, uno dei «Quattro di Guildford», i quattro irlandesi che hanno trascorso quindici anni in carcere seppur innocenti e la cui vicenda ha ispirato il film Nel nome del padre, del regista Jim Sheridan (1993).

    Oltre che su queste voci alcuni articoli sono incentrati sull’analisi del processo politico che l’Irlanda del Nord ha attraversato prima di arrivare allo storico accordo del 10 aprile 1998, conosciuto come «Good Friday Agreement» (Accordo del Venerdì Santo).

    Quel che mi premeva far capire ai lettori italiani erano le dinamiche e le ragioni che, dalla metà degli anni Ottanta, hanno visto la nascita di un cammino politico di cui i passi più importanti sono stati l’«Anglo-Irish Agreeement» (l’accordo siglato nel 1985 dal Governo irlandese e quello britannico), il dialogo tra lo Sinn Féin e lo SDLP, i due principali partiti nazionalisti nord-irlandesi (la cosiddetta «Iniziativa Hume/ Adams») e, infine, la «Downing Street Declaration», il documento firmato da Londra e Dublino nel 1993.

    Sono articoli di stretta natura politica, che consentono di capire quanto sia stato difficile arrivare al dialogo tra tutti i partiti, Sinn Féin incluso, e, successivamente, di definire i punti principali su cu si fonda l’Accordo del Venerdì Santo.

    A ciò ha contribuito la prima dichiarazione di cessate il fuoco dell’IRA il 31 agosto 1994. Un momento storico (a cui si è giunti tramite l’intermediazione del Governo americano e del presidente Bill Clinton) che ho vissuto in prima persona, in una Belfast satura di giornalisti provenienti da ogni parte del mondo.

    Qualche mese dopo si è avuto il cessate il fuoco dei gruppi paramilitari lealisti (ottobre 1994). Da allora è stato violato in continuazione per anni.

    Dopo la bomba di Canary Wharf, a Londra (febbraio 1996), che ha segnato la fine del primo cessate il fuoco dell’IRA, il 31 luglio 1997 ne è stato dichiarato un secondo. Si sono create così le condizioni politiche per la firma dell’Accordo del 1998, siglato sotto forti pressioni e tra non poche difficoltà.

    Dal 1999 ho cominciato la mia collaborazione con Rainews24, con i canali radio della Rai e con altre emittenti, sia italiane che straniere. Da allora la mia attività di giornalista e reporter si è svolta principalmente al microfono.

    Per Rainews24 ho seguito i principali avvenimenti che dal 1999 hanno avuto luogo in Irlanda del Nord, continuando a raccogliere le voci della gente e a seguire il travagliato processo politico: la formazione, dopo cinque rinvii, dell’Esecutivo dell’«Assemblea per l’Irlanda del Nord» (il mini-parlamento nord-irlandese voluto dall’Accordo del Venerdì Santo, dicembre 1999) e la sospensione di tale Assemblea per quattro volte (rispettivamente nel febbraio 2000, agosto-settembre 2001 e ottobre 2002), a causa dello strenuo rifiuto degli unionisti nord-irlandesi di aprirsi al dialogo con lo Sinn Féin se non dopo la consegna delle armi da parte dell’IRA. Ho poi via via commentato le varie fasi del disarmo dell’IRA (ottobre 2001, aprile 2002 e ottobre 2003). In tutto quest’arco di tempo le armi dei gruppi paramilitari lealisti sono rimaste saldamente nelle mani di questi ultimi.

    In questo concitato susseguirsi di avvenimenti e nonostante il cessate il fuoco dell’IRA sono continuate, se non addirittura intensificate, le azioni violente dei gruppi paramilitari lealisti contro la popolazione cattolico-nazionalista. Uno stillicidio di attacchi pressoché quotidiani, documentati ampiamente nel mio libro Irlanda del nord. Una colonia in Europa.

    Si è trattata di una «guerra a bassa intensità», non rivendicata, e quindi formalmente senza nessun responsabile, costata la vita a molti cattolici nazionalisti. Vi sono stati poi attacchi di gruppi dissidenti repubblicani, contrari al processo di pace, di cui il più tragico è stata la bomba del «Real IRA» scoppiata a Omagh il 15 agosto 1998, che ha causato la morte di 29 persone: l’attentato con il più alto numero di vittime di tutta la storia dell’Irlanda del Nord.

    Poiché, come dicevo, dal 1999 il mio lavoro di giornalista è avvenuto in collaborazione con emittenti radio-televisive e non principalmente sulla carta stampata, per documentare tutti questi avvenimenti ho pensato di riproporre in questo libro articoli scritti da prestigiosi giornalisti inglesi, irlandesi e statunitensi. Sono loro che raccontano gli sviluppi politici più significativi avvenuti in questi anni.

    Dopo la storica dichiarazione di fine della lotta armata da parte dell’IRA (25 luglio 2005) e il suo disarmo totale (settembre 2005), è stato il «St Andrews Agreement» dell’ottobre 2006, sottoscritto da tutti i partiti assieme a Londra e Dublino, a far ripartire il processo politico, culminato nello storico incontro Gerry Adams-Ian Paisley del marzo 2007.

    L’intesa Sinn Féin-DUP ha portato alla ricostituzione dell’Assemblea per l’Irlanda del Nord (maggio 2007) e alla formazione del suo Esecutivo, dopo anni di sospensione, fino alla realizzazione della «devolution» per l’Irlanda del Nord, con il passaggio dei poteri di polizia e del potere giudiziario da Londra a Belfast (12 aprile 2010).

    Se dal punto di vista istituzionale la devolution ha rappresentato l’inizio dell’attuazione dell’autogoverno irlandese, così come previsto dall’Accordo di pace del 1998, questi ultimi anni hanno visto anche l’acuirsi delle tensioni e fratture all’interno del Movimento repubblicano.

    I gruppi paramilitari dissidenti (Real IRA, Continuity IRA e Óglaigh na hÉireann), hanno consolidato la loro opposizione al processo di pace e, in primo luogo, alla politica «governativa» dello Sinn Féin, da essi considerato oggi come parte integrante del meccanismo di dominio coloniale britannico in Irlanda del Nord.

    Le loro azioni armate sono state rivolte contro basi, caserme, membri della polizia e dell’esercito britannico, non solo in Irlanda, ma anche sul suolo britannico. Tra quelle più eclatanti vi è stata la bomba scoppiata contro la sede dei servizi segreti britannici a Londra nell’aprile 2010.

    Tali azioni sono culminate nell’uccisione di due soldati britannici a Masserene nel marzo 2009, seguita, due giorni dopo, dall’assassinio dell’agente di polizia Stephen Carroll a Belfast. Sempre per mano di dissidenti hanno perso la vita un altro agente di polizia (Ronan Kerr, quest’ultimo cattolico, aprile 2011) e un agente carcerario (David Black, novembre 2012).

    In questi ultimi anni sono sorti altri piccoli gruppi repubblicani dissidenti, nati ex novo o dalla scissione di gruppi preesistenti.

    Ciò spiega perché, per creare una nuova forza dissidente unita e «per presentare una sfida più forte al Governo britannico», alla fine del luglio 2012 il Real IRA, il Republican Action Against Drugs (RAAD) e il gruppo responsabile dell’uccisione di Ronan Kerr si sono fusi assieme e hanno dato vita a un nuovo IRA, dichiarando che «fintantoché la Gran Bretagna continuerà a negare all’Irlanda i suoi diritti nazionali e democratici l’IRA dovrà continuare ad affermare tali diritti».

    A tale fusione, tuttavia, non hanno preso parte il Continuity IRA e l’Óglaigh na hÉireann. Rimane quindi per i gruppi dissidenti l’incognita di riuscire a creare un «fronte unico» nella loro lotta.

    Una lotta che, dal punto di vista di capacità militari, numero di volontari e armamentario, ha caratteristiche diverse rispetto a quella che il Provisional IRA ha combattuto in passato.

    In un’intervista, rilasciata alla giornalista di Belfast Suzanne Breen all’indomani dell’annuncio della formazione del nuovo IRA, un suo portavoce ha fatto intendere che, sebbene i principali obiettivi della nuova organizzazione siano i soldati britannici e gli agenti del PSNI, il nuovo IRA ha intenzione di condurre una campagna di violenza diversa da quella attuata in passato dal Provisional IRA.

    «I tempi sono cambiati rispetto all’epoca del Provisional IRA», ha specificato. «Il nostro scopo è fare azioni di disturbo contro la politica di normalizzazione del Governo britannico. Per fare questo è necessario da parte nostra effettuare operazioni militari ogni giorno o ogni settimana. Il persistere della lotta armata è segno della menzogna che il conflitto sia terminato e dimostra che vi sono ancora persone pronte a sfidare il dominio britannico».

    Un’ultima questione riguardo al nuovo IRA è rappresentata dal rapporto con la comunità repubblicana da cui proviene. Come dice Breen, si tratterà di vedere quale sarà, in futuro, il livello di sostegno e appoggio che riceverà da tale comunità.

    In riferimento alla politica attuata dal Governo britannico per combattere i gruppi dissidenti vi è una nuova/vecchia strategia messa in atto in questi ultimi anni, ovvero togliere dalla circolazione e mandare in carcere coloro che sono anche solo sospettati di far parte o di sostenere tali gruppi.

    A seguito dell’Accordo del Venerdì Santo, infatti, sono tornati in libertà «su licenza» molti prigionieri repubblicani. La loro licenza, tuttavia può essere revocata da un ministro del Governo britannico, il Segretario di Stato per l’Irlanda del Nord, senza che alcuna accusa debba essere pronunciata dai tribunali nei loro confronti.

    Il Segretario di Stato, dal canto suo, non è tenuto a fornire alcun motivo per giustificare la loro nuova incarcerazione, tranne il fatto che essi rappresentano «un rischio per la sicurezza» e «un pericolo per la società». Si tratta di una nuova forma di internamento, che ricorda uno dei più tragici periodi della storia nord-irlandese (1971-1975), quando migliaia di persone furono incarcerate senza processo in Irlanda del Nord.

    Questo è stato il caso, per fare solo alcuni esempi, di Brendan Lillis (malato di una grave forma di artrite e rilasciato solo in condizioni di salute molto precarie), Martin Corey e Marian Price (tenuta in isolamento anche se malata e incapace di sostenere un processo, nonostante gli appelli lanciati a suo favore da parte dei più importanti organismi internazionali per i diritti umani, quali il British Irish Human Rights Watch di Londra).

    A questa nuova forma di internamento si è accompagnato il trattamento riservato ai dissidenti (o sostenitori di dissidenti) rinchiusi nel carcere di Maghaberry.

    In aperta violazione degli accordi presi con i detenuti nell’agosto 2010, le autorità carcerarie hanno attuato una politica repressiva, con maltrattamenti e violenze quotidiani sui detenuti, che ricordano da vicino quel che accadde nel carcere di Long Kesh al tempo delle lotte carcerarie 1976-1981. In particolare la pratica delle «strip-search», le perquisizioni forzate tramite completo denudamento della persona ed effettuate con violenza anche più volte in uno stesso giorno su uno stesso prigioniero (sovente da gruppi di secondini vestiti in assetto da guerra), sono state usate come strumento per fiaccarne la resistenza, così come traspare in questo libro dalla testimonianza di Colin Duffy.

    Dall’Accordo del Venerdì Santo, quindi, l’Irlanda del Nord è ancora lontana dall’essere una «terra di pace». Ciò a cui stiamo assistendo può essere definito «assenza di guerra», con ancora moltissimi problemi sociali da risolvere.

    L’attuale crisi economica viene utilizzata dal Governo britannico per rallentare, o addirittura bloccare, la realizzazione di progetti per la creazione di strutture educative, culturali e comunitarie a favore delle fasce sociali più deboli.

    Senza tali progetti l’Irlanda del Nord non potrà mai girare pagina. Non è un caso che, nel primo decennio dopo la firma dell’Accordo del Venerdì Santo, il numero di suicidi in Irlanda del Nord sia raddoppiato, così come rivelato da uno studio del Professor Mike Tomlinson, della Queen’s University. L’associazione «Suicide Awareness and Support Group» di Belfast ha denunciato l’alto numero di giovanissimi che si tolgono la vita ogni anno in Irlanda del Nord.

    Poiché in tutti questi anni ho seguito da vicino il lavoro svolto dai molti parenti della vittime, riuniti in associazioni quali il Pat Finucane Centre (Derry), Relatives for Justice e An Fhírinne, entrambe con sede a Belfast, uno degli aspetti del conflitto nord-irlandese che ho approfondito maggiormente riguarda le collusioni tra soldati, polizia, membri dell’Intelligence militare britannico e gruppi paramilitari lealisti.

    Tali collusioni, così come denunciato da Amnesty International e dai principali organismi internazionali per i diritti umani, hanno portato all’uccisione di decine e decine di civili innocenti, in gran parte nazionalisti.

    Le collusioni si sono intensificate soprattutto dopo il gennaio 1988, a seguito dell’arrivo dal Sudafrica in Irlanda del Nord di un ingente quantitativo di armi, finite nelle mani dei gruppi paramilitari lealisti grazie all’intermediazione di Brian Nelson, un ex soldato entrato a servizio dell’Intelligence britannico e fatto infiltrare da quest’ultimo nell’Ulster Defence Association (UDA).

    Queste collusioni sono venute alla luce in tutta la loro gravità nell’agosto 2000, con il ritrovamento di documenti top-secret nel quartier generale dell’esercito britannico a Lisburn.

    Tali documenti hanno rivelato l’esistenza del Force Research Unit, un’unità segreta, creata in seno all’esercito britannico e guidata da Gordon Kerr ai tempi di Brian Nelson, che per decenni ha infiltrato i suoi agenti nei gruppi paramilitari lealisti. Il compito di tale unità era dirigere le azioni dei gruppi paramilitari, raccogliendo da questi informazioni e passando loro di volta in volta nomi e dettagli sulle persone da assassinare.

    Credo che oggi non si possa fare un’analisi seria e obiettiva della questione nord-irlandese se non a partire dalla politica delle collusioni. Chiunque si ostini a ritenere che in l’Irlanda del Nord si è avuto un conflitto di tipo religioso, oppure una guerra civile nei confronti della quale il Governo britannico sia stato un mero spettatore, è un illuso o in mala fede.

    Ecco perché questo libro riporta la toccante testimonianza di Ger -aldine, moglie di Pat Finucane, l’insigne avvocato per i diritti umani ucciso nel febbraio 1989 davanti a lei e ai suoi figli, proprio a causa di tali collusioni. Nel discorso tenuto al Congresso americano nel maggio 2004 Geraldine Finucane ha accusato apertamente Londra di aver voluto la morte di suo marito e di impedire, attraverso una serie infinita di rinvii, che la verità riguardo il suo assassinio venga a galla.

    Oggi non sappiamo ancora se i tentativi di costruire un enorme stadio nel sito dove vi era il carcere di Long Kesh e di cancellare la memoria storica in Irlanda del Nord avranno successo.

    Né sappiamo se tutti coloro che hanno subito violenza in trent’anni di guerra potranno avere un giorno giustizia, o tantomeno se coloro che nelle istituzioni dell’Irlanda del Nord sono stati responsabili di ingiustizie e violenze riusciranno a farla franca. Di certo non basteranno a cancellare tale memoria milioni di sterline, città che cambiano volto di giorno in giorno o un afflusso di turisti mai registrato prima.

    Quel che è accaduto a Emma Groves, Pat Finucane, Bobby Sands, Rosemary Nelson e a tante altre persone in Irlanda del Nord è radicato profondamente nelle coscienze e fa parte della memoria collettiva della gente.

    E lo sarà, così come succede da sempre in questo piccolo angolo d’Europa e come le antiche ballate irlandesi ancora oggi testimoniano, per tanto, tanto tempo ancora.

    Silvia Calamati

    Belfast, agosto 1997 (© Calamati).

    QUI BELFAST

    Storia contemporanea

    della guerra in Irlanda del Nord

    Belfast, 12 agosto 1984. Uccisione di Sean Downes (© Burke).

    Belfast, 12 agosto 1984: fuoco sulla folla. Un altro Bloody Sunday

    Silvia Calamati [«il manifesto», 12 settembre 1984]

    Belfast. La manifestazione organizzata alla metà di agosto dal Movimento repubblicano irlandese per ricordare il tredicesimo anniversario dell’inizio dell’«Internamento senza processo» (9 agosto 1971) aveva avuto un carattere pacifico.

    Alla marcia avevano partecipato intere famiglie, con bambini e anziani. Numerose le televisioni straniere.

    La manifestazione doveva concludersi ad Andersonstown, di fronte a Connolly House (la sede dello Sinn Féin), dove sarebbero intervenuti vari oratori, tra cui Martin Galvin, l’avvocato americano dirigente dell’«Irish Northern Aid Committee» (NORAID) al quale il Segretario di Stato per l’Irlanda del Nord James Prior aveva negato l’ingresso in Ulster.

    La gente era già seduta lungo i marciapiedi e sulla strada quando Gerry Adams, leader dello Sinn Féin, ha annunciato l’intervento di Galvin. In quel momento è scoppiato il caos. Nel giro di pochi secondi le autoblindo della polizia si sono mosse verso il palco, con decine e decine di persone ancora sedute sull’asfalto. Contemporaneamente gli agenti hanno aperto il fuoco, sparando proiettili di plastica contro la folla. La gente gridava, i genitori cercavano di portare in salvo i propri figli. Molti sono finiti in ospedale travolti dalle jeep.

    È stato a questo punto che un agente ha fatto fuoco, da pochi metri di distanza, contro Sean Downes, un giovane di ventidue anni. Colpito in pieno torace, è stato sbalzato indietro, una macchia rossa sul petto. Ogni tentativo di salvarlo è stato inutile.

    Contro le donne irlandesi. Le strip-search

    Silvia Calamati [«I diritti dei popoli», giugno 1985]

    Le brutalità commesse dal Governo britannico in Irlanda del Nord trovano scarsa eco sulla stampa internazionale.

    All’uso indiscriminato dei proiettili di plastica contro la popolazione civile nazionalista (che ha causato fino a oggi quindici morti e decine di feriti), ai supergrass (informatori pagati da soldati e polizia), ai tribunali senza giuria, alla tortura sistematica nei centri di interrogatorio e nelle prigioni, si è aggiunto, dal novembre 1982, un nuovo strumento di repressione: le strip-search, perquisizioni che prevedono il completo denudamento della persona, a cui vengono sottoposte, nel carcere femminile di Armagh, tutte le prigioniere al di sopra dei quindici anni, comprese quelle più anziane, in stato di gravidanza o mestruale.

    Le detenute vengono perquisite ogni volta che entrano o escono dal carcere. Quelle in attesa di giudizio devono presentarsi in tribunale periodicamente. Le donne il cui processo è già in corso, invece, vengono perquisite due volte al giorno, cinque giorni alla settimana, per tutta la durata del processo, che può protrarsi per mesi.

    Quando escono dal carcere le prigioniere sono tenute sotto strettissima sorveglianza e, una volta in tribunale, non entrano in contatto con alcun membro del pubblico.

    È quindi assurda la tesi sostenuta dal Governo britannico secondo cui tali perquisizioni sono necessarie in quanto efficaci strumenti di sicurezza: dopo oltre duemila perquisizioni sono state trovate addosso alle detenute solamente una boccetta di profumo e una banconota da cinque sterline.

    Il vero scopo delle strip-search è quello di degradare e umiliare le prigioniere, sottoponendole a una brutale e sistematica procedura.

    Ecco come una di esse la descrive:

    «Dopo essere entrata in uno stanzino mi viene ordinato di spogliarmi alla presenza di una mezza dozzina di secondine, ma a volte arrivano a essere fino a quindici. Una volta nuda il mio corpo viene minuziosamente ispezionato davanti e dietro. Mi vengono esaminati i capelli, il palmo delle mani e, alzandomi a turno le gambe, la pianta dei piedi, quasi fossi un animale al mercato.

    Quando ho le mestruazioni sono costretta a dare loro l’assorbente che ho addosso. Le detenute che si rifiutano di farlo vengono picchiate e spogliate con la forza».

    Dure critiche nei confronti delle strip-search sono state espresse da Ivor Browne, professore di psicologia allo University College di Dublino: «Le detenute riferiscono spesso di essere schernite e di ricevere commenti denigratori da parte del personale maschile che staziona fuori dallo stanzino. Durante una strip-search lo stato psicologico ed emotivo della detenuta è molto simile a quello di una donna che viene violentata».

    Il Governo britannico sta usando le strip-search come strumento di intimidazione e di controllo: sono soprattutto le detenute repubblicane a subirle con più frequenza.

    Nel marzo 1982 due prigioniere sono state perquisite ventuno volte ciascuna, altre due diciotto volte. Mary Wright, 23 anni, di Belfast, ha subito diciotto perquisizioni in sei mesi e, in un caso, due strip-search in quindici minuti.

    Nel 1983 questa stessa detenuta è stata perquisita con la forza due volte in quattro giorni: si era rifiutata di togliersi gli slip e l’assorbente. Subito dopo il suo ciclo mestruale si è interrotto, segno evidente del trauma psicologico subito. Successivamente è stata condannata a tre giorni di isolamento e ad altri sette di carcere, con l’accusa di essersi rifiutata di obbedire a un ordine, di aver usato un linguaggio volgare e di aver aggredito una guardia.

    La pratica della strip-search, oltre a essere una procedura degradante, ha essenzialmente un carattere politico: rappresenta l’ennesimo tentativo di Londra di minare la resistenza delle detenute repubblicane, che da anni si oppongono alla criminalizzazione della loro lotta.

    Regno Unito. Le carceri speciali di massima sicurezza

    Silvia Calamati [«Avvenimenti», 16 maggio 1990]

    In Gran Bretagna vi sono una dozzina di carceri speciali di «massima sicurezza». La tendenza è quella di rendere «speciale» un sempre maggior numero di prigioni.

    La presenza di detenuti irlandesi è usata di fatto per la ristrutturazione del carcere che, in virtù di tale presenza, passa da prigione «normale» a «punitiva», per poi diventare «carcere speciale». Il regolamento prevede che tutti i prigionieri siano classificati in base al loro grado di pericolosità, cioè dalla categoria A alla D. Vi è anche la E, che riguarda i prigionieri che si ritiene possano evadere. Molti detenuti irlandesi appartengono alla categoria E. Infine c’è la «Special A» o «Irish A», una categoria istituita per isolare il più possibile i prigionieri irlandesi, impedendo loro di incontrare altri detenuti.

    Il regolamento GOD (Good Order and Discipline) è un provvedimento temporaneo in base a cui un prigioniero può essere posto in isolamento fino a ventotto giorni. Alcuni prigionieri irlandesi hanno passato anni in isolamento, dal momento che il GOD può essere rinnovato continuamente.

    Durante l’isolamento essi rimangono chiusi in una cella spoglia per ventitré ore al giorno, con solo un secchio per

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