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Un Mondo di Felicità
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Un Mondo di Felicità

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About this ebook

I malesseri della società e le debolezze umane sono messe in risalto in maniera esagerata in questo romanzo che si divide sostanzialmente in due parti: la prima da avventure tragicomiche e farneticazioni mentali del protagonista; la seconda da una evasione fantascientifica dal mondo del lavoro che porta il protagonista a una fantastica esperienza in un mondo sommerso popolato da sirene. Ma era tutto un sogno…
LanguageItaliano
Release dateDec 1, 2014
ISBN9788890740688
Un Mondo di Felicità
Author

Luigi Savagnone

Luigi Savagnone è uno scrittore indipendente. Scrive romanzi d’amore e di fantasia adatti ad un pubblico di tutte le età. In questi romanzi avvincenti e di facile lettura, sono tuttavia inseriti dei contenuti culturali e scientifici.

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    Un Mondo di Felicità - Luigi Savagnone

    Capitolo 1

    Prologo

         Quando ero piccolo, gli anziani del mio paese mi ripetevano in continuazione che tutti, prima o poi, raggiungono il loro status ideale e riescono a vivere felici, o quantomeno sereni, il resto della loro esistenza prima che sopraggiunga la morte. È con questa consapevolezza e certezza, per il fatto che ho sempre considerato saggi e infallibili i vecchi che mi hanno istruito, nonostante qualcuno di essi aveva la brutta abitudine di darmi pizzicotti sulla guancia, che io ho vissuto la mia giovinezza, ma … sino ad ora! In quanto io, dal canto mio, non sono riuscito a realizzare e ad ottenere proprio niente.......!!

         Ho venticinque anni, sì venticinque anni e mi sembra che ben più di un quarto di secolo io abbia vissuto. Tutto il mondo che mi circonda mi è venuto a noia. Mi sembra quasi una sanguisuga gigantesca che succhia giorno dopo giorno tutto ciò che c’è di buono in me: la mia gioventù, la mia spensieratezza, il mio amore. Vedo tutto grigio e squallido, tutto meccanico. Ogni passo nella strada mi sembra un rito, un troppo usuale rito. Dove è finito, penso, quell’estro che ci rende dissimili alle bestie; dove è finito quel gusto di conoscenza che ci ha elevati dallo stato di barbari in cui vivevano i nostri antenati nelle caverne. Tutto mi sembra statico, meccanico, telecomandato. Dove è finita quell’amicizia che ci ha permesso di riunirci nelle città? Dove è quell’amore, così sacro duemila anni fa e tanto profano adesso, che pur ci dava un interesse alla sopravvivenza? Le grosse fabbriche si stagliano all’orizzonte ed i neri comignoli vomitano veleni nell’atmosfera. Che ci ha fatto la natura per ripagarla con siffatta moneta? Le coste sono ormai inquinate dai nefasti detriti puzzolenti che produciamo. Che ci ha fatto quel mare così benigno, che ci pulisce ogni estate dai nostri fetidi sudori, per esser ripagato in tal maniera? Spesso mi avvicino alla gente per ascoltare i loro discorsi: tutti logici ed ideali all’apparenza, ma alzando lo sguardo euad incrociandolo con i loro, mi accorgo della perfidia che sprigionano quegli occhi. Poi mi guardo io stesso e penso: perché questa stupida carne ha bisogno di cibi e di liquidi se poi li espelle tutti! Quindi è inutile dare ad essa se poi non ne fa buon frutto! Ma l’istinto di conservazione prevale su qualsiasi logica. Sembriamo tutti degli automi, degli animali privi di ogni fantasia e intelligenza! E le donne poi, a me solo e abbandonato come sono, mi sembrano degli ufo… talmente io sono incapace di trovarne una! E, conseguenza di questo mio stato d’animo, ogni volta che qualcuna mi sorride con gentilezza, sono convinto che in realtà nasconda un mostro pronto a dilaniarmi! Io ho voglia di sesso, di sesso sfrenato! Ma non ho voglia poi di rimanere intrappolato! So che ad Haiti invocano Erzulia, gli antichi egizi e poi anche i Romani invocavano Iside, la dea del sesso!

         Sono andato molto spesso a prostitute, uniche donne disponibili a voler fare l’amore con me, e mi facevo umiliare, sperando in fondo al mio cuore che in esse si nascondesse una dea, una dea che finalmente mi concedesse le sue grazie, anche se a pagamento, e non osavo chiedere loro altro se non la possibilità di leccare loro i piedi, anche se alcune di esse volevano un supplemento della tariffa per concedermi la possibilità anche solo di odorarli, puzzolenti com'erano, e quando mi concedevano di leccare pure la loro vagina era solo per usare la mia lingua per pulirsi dallo sperma lasciato dai clienti precedenti. Ricordo che andavo in alcuni monolocali a pianterreno, contraddistinti da una lucina rossa posta nel campanello fuori la porta d’ingresso. Entravo e mi accomodavo in uno sporco divano, dove spesso trovavo alcuni uomini che, come me, aspettavano il loro turno per scopare con la puttana. Cercavo di nascondermi la faccia imbarazzato, ma riuscivo comunque ad attendere pazientemente il mio turno. Quando la puttana aveva finito con il cliente di turno, appariva, quasi sempre a seno nudo, nel salottino, dove io e gli altri avventori attendevamo pazientemente. Dopodiché, se era troppo brutta, qualcuno andava via, mentre chi si accontentava entrava con lei nella stanza da letto, se era il suo turno, ovviamente. Appena mi spogliavo, lei dopo avermi lavato le parti intime, attaccava il timer a 10 minuti, tempo massimo entro il quale io dovevo venire; se non ci riuscivo, mi dava l’opportunità, o di continuare raddoppiando la sua tariffa, oppure vestirmi e andarmene. Per esempio scappai una volta, ed è un ricordo che non potrò mai cancellare dalla mia memoria, quando, importunata da un cliente ubriaco, lo sfregiò con un calcio ruotante usando come lama il suo tacco a spillo.

    Capitolo 2

    Preparativi

         Per questi ed altri motivi che non sto qui ad elencare, ho dato fondo a tutti i miei sudati risparmi ed ho acquistato una vecchia baracca di pescatori situata su un piccolo molo vicino casa mia. L’ho acquistata per duecentomila lire e devo dire che son proprio contento di aver fatto quest’affare. Per la verità, ho pagato solo un po’ di tranquillità, perché la costruzione non ne vale neanche un quarto di quel denaro: è rettangolare, sei metri per due, tutta di legno, marcio perché corroso dalla salsedine, sporco di muffa perché abbandonato a sé stesso da tempo. Io non ho toccato né pulito niente: mi piace quell’odore di antico! Ho solo portato un tavolino, una lampada a gas, una piccola stufa ed una poltrona per le mie meditazioni. Lì poi, ho passato molto del mio tempo studiando un libro che mi ha prestato un pescatore. Volevo imparare a costruire una barca, una piccola barchetta a remi per poter lasciare la terraferma e guardare da un posto vivo quella città morta. E mentre studiavo il come fasciare il legname, le ore passavano in assoluta tranquillità, rotta soltanto dal rumore delle onde che si infrangevano sul piccolo molo, e dal sottile sibilo del gas che teneva viva la fiammella della lampada. Pensavo ad Hemingway ed al suo Il vecchio e il mare e mi immedesimavo in quel fantastico personaggio, mi immaginavo vecchio con una barba copiosa ed incolta, ma con l’animo tranquillo mentre gustavo quel dolce sapore di tabacco aspirando dalla mia pipa di radica.

         Ah! Come sarebbe stata importante per me quella barchetta! A che vale accumulare tesori sulla terra quando poi si è sempre agitati. A che vale avere una famiglia, quando poi sono gli stessi figli, il sangue del tuo sangue, i primi a calpestarti. Ho scelto appositamente di studiare quel libro di barche in quel luogo scomodo ed umido, anziché comodamente in casa mia per una ragione molto semplice: quando sono dentro la città, per l’enorme ipocrisia che vi si annida e che si autoalimenta fino a divenire una perenne nube tossica che tutto avvolge, mi fa provare quel disgusto che mi riempie, anche solo nell’ascoltare un rumore di essa, mi impedisce qualsiasi forma di poesia, qualsiasi bontà d’animo, qualsiasi tranquillità interiore, rendendomi nevrotico e quindi incapace di assimilare quegli insegnamenti pur così semplici, ed in più, ho la sensazione di avere costantemente una miriade di occhi minacciosi addosso, che aspettano il mio più piccolo sbaglio, come può essere per esempio il toccarmi il membro, per giudicarmi, schernirmi e punirmi. Lì invece, in quella baracca così vicina geograficamente, ma così lontana idealmente, mi trasformo, rinasco!

         Quel pescatore che mi aveva prestato il libro era disposto, dietro lauto compenso naturalmente, a fabbricarmi la barca che desideravo. Io ho rifiutato! La barca per me è sacra, è il mezzo che mi permette di vivere nel vero senso della parola, è il mezzo per essere accolto fra le benefiche braccia del mare.

         E fu così che un giorno, un freddo giorno di Novembre, decisi di mettere in pratica quegli insegnamenti che quel libro mi aveva dato. Acquistai del legname, dei chiodi, un martello, un punteruolo, una sega ed una pialla. Cominciai a tagliare lo scafo e la chiglia in modo che fossero privi di spigoli e ben levigati. In fin dei conti sono la base su cui poggia l’intera costruzione; per questo motivo ci misi ben quindici giorni per terminarli. Successivamente fissai la ruota di prora, che è il punto di unione delle due serie di fasciami. 

         Mentre facevo quel lavoro, mi ricordavo di aver letto che i vichinghi consideravano quell’asse di legno come una parte essenziale delle loro barche, anche dal punto di vista estetico e lo abbellivano con decorazioni e con vere e proprie sculture. Ho sempre ammirato i vichinghi: un popolo duro e rozzo, ma giusto. Grandi conquistatori, ma sopratutto grandi esploratori, essendo stato ormai provato che essi scoprirono l’America ben prima del nostro Colombo. Le mie mani lavoravano quasi automaticamente, mentre la mia fantasia vagava senza confini né di tempo né di spazio.

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