Giallo e blu
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Book preview
Giallo e blu - Ismar Gennari
© Edizioni SENSOINVERSO
Collana OroArgento
www.edizionisensoinverso.it
ufficiostampa@edizionisensoinverso.it
Via Vulcano, 31 – 48124 – Ravenna (RA)
ISBN 9788867930630
1° edizione cartaceo – Aprile 2013
© 2013 - Copyright | Tutti i diritti riservati
Sensoinverso - P.I. 02360700393
Creazione e impaginazione eBook | http://creoebook.blogspot.com
Ismar Gennari
GIALLO E BLU
Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.
A Lucia
che sa essere la mia musica
e i miei colori
Per Ruben
Prefazione
Era come in un quadro di Van Gogh.
Titolo Giallo e Blu.
Peccato il maestro non l’abbia mai dipinto.
Giallo e blu, come dire giorno e notte, luce e oscurità, raziocinio e follia.
Due colori agli antipodi, tuttavia diversi dal classico bianco e nero
.
Il giallo e il blu portano in sé l’imperfezione del non completamente chiaro o totalmente scuro, la ricchezza di una sfumatura, di un confine fragile e indefinito tra ciò che è palese, normale, buono e ciò che è onirico, distorto, assurdo.
Giallo e blu sono sedici racconti, sedici istantanee, sedici vicende che narrano se stesse, che raccontano vite, momenti, pensieri, emozioni, talvolta gialle, talvolta blu, talvolta in sottile equilibrio sul confine tra i due colori, fino a sovrapporre il giorno con la notte, la realtà con l’immaginazione, il suono col silenzio.
Giallo e blu, i colori di una bandiera, di un giorno di primavera, di un sentimento che avrebbe potuto non essere.
E invece è stato.
Applausi
A volte credo cha a piacermi siano la fatica e il dolore, l’umile sopportazione, la totale dedizione.
Ma, in fondo, so che non è così.
Ricordo quando ho iniziato, gli sguardi perplessi di mio padre e di mia madre.
Troppo grande, troppo ingombrante, poco in evidenza nella sua collocazione finale.
Ma a me non importava.
Ho proseguito, con metodo, applicazione, sacrificio.
Tanto esercizio, tanto dolore.
A volte la mano mi doleva al punto da non riuscire a reggere la forchetta a tavola, da non riuscire ad allacciarmi le scarpe, da non riuscire nemmeno a distendere o serrare completamente le dita.
Ma non mi sono fermato, mi piaceva troppo.
Un passaggio dopo l’altro, un esercizio dopo l’altro.
Accarezzando i fianchi, la forma sinuosa, simile al corpo robusto di una madre d’altri tempi, trovavo l’ispirazione.
Le corde, dure, spesse, che segnavano le dita, che trasformavano i polpastrelli in appendici tremendamente doloranti, facevano nascere in me il desiderio, la voglia di sfiorare, di stringere, di far vibrare, di sentire il fremito profondo del legno fin dentro le mie ossa, fino in fondo alle mie emozioni.
Io so perché lo faccio.
Non voglio la ribalta, non mi interessano le parti da solista.
Il mio è un suonare operaio, è la base, il solido fondamento.
È il pilastro su cui si regge tutta l’alchimia musicale, è la roccia madre che porta su di sé il peso dei virtuosismi e delle armonie.
È il ferro che lega e metabolizza il ritmo, che fonde, dà senso e sapore a tutta la creazione, a tutta l’espressione.
E io ne sono il costruttore, l’esecutore, il modellatore, il fedele servitore.
Mio padre e mia madre mi avrebbero voluto violinista, come loro.
Mi ripetevano di continuo che con quell’armadio a quattro corde non avrei mai fatto strada, non sarei mai diventato un musicista di successo.
Ma io non volevo fare strada.
Io volevo costruire fondamenta.
La strada rischia di distrarre da quello che è il senso delle proprie azioni, il valore delle proprie emozioni.
La strada serve a spostarsi, a volte ad allontanarsi.
Le fondamenta non si muovono.
Sono sempre lì, solide radici, a stretto contatto con la terra, con la realtà.
I miei ne hanno fatta molta, di strada.
Li ho visti eseguire complicate melodie, affrontare e vincere passaggi impegnativi.
Li ho visti interpretare brani di livello tecnico elevatissimo con assoluta sicurezza e precisione.
Li ho visti puntare lo sguardo sul pubblico, come soldati di fronte al nemico, avidi di consenso.
Li ho visti trionfanti raccogliere applausi e ovazioni.
Li ho visti snocciolare inchini di circostanza con assoluto distacco a una platea in visibilio.
Li ho visti regalare incantevoli momenti di musica, di sentimento, di passione.
Li ho visti perdere la passione.
Perché la musica viene da dentro, non da fuori.
Se suoni soltanto per compiacere il pubblico, per appagare il tuo ego, per dimostrare di essere il numero uno, non puoi essere felice, non puoi saziare il tuo spirito.
Se cerchi di dar vita con la musica a emozioni che non ti appartengono devi fingere.
Devi diventare un attore, non un musicista.
E, alla fine, ti ritrovi a piangere, come Pierrot.
Perché da te stesso non puoi scappare, a te stesso non puoi mentire.
Mai.
Io non voglio raccontar frottole a nessuno, tanto meno a me stesso.
Non voglio essere costretto a impormi dei sentimenti, delle sensazioni, soltanto per essere all’altezza del mio lavoro.
Per questo ho scelto il contrabbasso.
Perché ogni volta che le sue corde risuonano mi fanno rabbrividire.
Perché la sua voce è vera come il dolore che attanaglia i miei polpastrelli.
Perché il suo suono è la carta su cui viene scritta la musica, è il grembo che genera la creatura, è la mente che dà vita all’idea.
È l’anima che nessuno vede, ma che, se sai ascoltare, puoi sentire.
Reale, onesta, sincera.
Da sempre sento le sue gravi, dolci note.
Come quando da piccolo correvo ad abbracciare il grande faggio nel parco dietro casa, per vedere quanto fossi cresciuto, per vedere se ero diventato abbastanza uomo da riuscire ad avvolgere completamente il tronco con le mie braccia.
Appoggiavo la guancia alla dura scorza e mi distendevo per riuscire a chiudere l’abbraccio.
E il legno parlava. Sussurrava cupo e potente nel mio orecchio, vibrava dolcemente contro il mio corpicino di bambino, soffiava amorevole nel mio cuore.
Parlava una lingua antica, cantava il respiro della terra.
Sommesso, il legno si raccontava piano, un mormorio leggero.
Per chi sapeva ascoltare, per chi sapeva sentire.
E io ci riuscivo, capivo il suo idioma, il dolce rombo della sua voce, il canto arcaico di tempi lontani.
Stavo lì, appoggiato al tronco, ad ascoltare le storie della terra, la voce della grande madre che narrava tranquilla salendo dal profondo delle radici, inondando il mio spirito di giovane uomo.
Ascoltavo sognante, meravigliandomi.
In silenzio.
Ed ero felice.
Anche adesso mi reco all’ombra del faggio.
Porto il contrabbasso e lascio che il legno canti il respiro della vita.
La sua voce è dolce e grave come quella del tronco, è la stessa voce, è il suono profondo e gentile della terra.
Ascolto, attento colgo ogni passaggio, apro l’anima alla musica.
Perché la musica viene da dentro, arriva dal vortice della creazione e irrompe nel cuore, nello spirito.
Sincera, vera e viva stordisce di emozione, ammalia con passione, fa piangere di gioia.
E inizio a suonare. Assorto. Rapito.
Le mie mani diventano rami,