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Dragon Town
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Ebook257 pages3 hours

Dragon Town

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About this ebook

In una palude del mar Piccolo viene rinvenuto il corpo mutilato di una ragazza molto conosciuta. Si scatena una caccia all’uomo, più che altro mediatica, e ne fa le spese il fidanzato della vittima. Le indagini vertono poi su Dragon Town, una setta o un’organizzazione segreta che compie atti di cannibalismo e che rivendica l’omicidio della ragazza e di altri misfatti simili. Un mese dopo il primo omicidio, a Taranto giunge un magnate indiano che ha intenzione di creare in città una sede dell’Università privata di cui è fondatore (e che ha diverse sedi nel mondo). Dragon Town rapisce sua figlia e per salvarla un gruppo di uomini si mette in azione, fino alla conclusione in cui vengono rivelati tutti i retroscena.
LanguageItaliano
Release dateSep 8, 2015
ISBN9788868810696
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    Dragon Town - Cosimo Dellisanti

    Cosimo Dellisanti

    Dragon Town

    © 2014 Edizioni Ensemble,

    Roma, edizione digitale settembre 2015

    ISBN 978-88-6881-069-6

    www.edizioniensemble.it

    direzione@edizioniensemble.it

    Edizioni Ensemble

    ISBN: 978-88-6881-069-6

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write (http://write.streetlib.com)

    un prodotto di Simplicissimus Book Farm

    Indice

    Thysìa

    Katábasis

    Epifàneia

    ​TITOLI DI CODA

    Èchos 30 

    Who knows what evil lurks in the hearts of men?

    The Shadow

    Wait till they get a load of me.

    Jack Nicholson

    Thysìa

    1

    La ragazza, una bionda, era stesa supina sull’erba umida, come se volesse abbronzarsi; ma non poteva sapere che non avrebbe mai più preso alcuna tintarella. Al contrario, il suo colorito era pallido e a tratti livido. Se ne stava immobile con la testa rivolta a destra, e i capelli, increspati e fradici, si erano impastati a fango, sabbia, fili d’erba e melma rossastra. Non indossava costume, né altri indumenti; era del tutto nuda, ma non per mancanza di pudore. No, semplicemente era morta.

    Il cadavere giaceva quieto a pochi metri dal telo dove era stato avvolto fino a poco prima. La brezza marina spargeva sulla carne fredda granelli di sabbia e brecciolino che vi si appiccicavano sopra; in una pozza d’acqua stagna era immerso un piede, l’unico.

    Una zanzara tigre atterrò sul braccio sinistro e cercò invano di suggere sangue dalle vene ormai asciutte, mentre un gabbiano, che si era posato sulla gabbia toracica, beccava via filamenti di muscoli e grasso dal torace scarnificato. Un pastore tedesco abbaiò e scacciò il volatile, quasi azzannandolo, poi avvicinò il muso bruno al naso livido della ragazza, dandovi una leccata, come per risvegliarla dal sonno. Questo sarebbe stato impossibile, ma il cane non poteva immaginarlo, o magari aveva capito che per la bionda non c’era più nulla da fare e voleva darle un ultimo saluto nell’unica maniera che conosceva.

    «Ehi, ehi! Via!» fece a gran voce Paolo, agente dell’UACV.[1] «Tu, porta via quel cane, per favore» ordinò, con marcata cadenza barese, a un collega della questura. Il poliziotto, dal canto suo, tirò il pastore col guinzaglio, faticando a tenerlo. Quando il cane, guaendo con tristezza, fu allontanato, Paolo ricominciò a fotografare gli scarni resti della ragazza. Per il momento aveva fatto diverse foto alla scena del crimine, ma ora doveva passare in rassegna i particolari più agghiaccianti, come il labbro inferiore, che era stato asportato, forse con un morso, lasciando scoperti i denti e le gengive fino al frenulo. Zumò sulle grosse croste nere del tronco, dove un tempo erano attaccate le mammelle, e sull’addome, scavato e svuotato delle interiora, come quello di un animale sacrificale. Mancavano anche i glutei, gli organi sessuali e una gamba intera, la sinistra, dalla metà del femore in giù.

    «Cristo mio, Cristo mio…» bisbigliò Paolo a denti stretti nella mascherina ovale. Aveva le lacrime agli occhi, nonostante fosse abituato a trattare coi cadaveri, più o meno intatti. Ai corsi di Anatomia patologica non erano mai mancati corpi di donne e signore mature, vittime di violenze commesse da compagni di una vita, da pretendenti più o meno leciti, o da sconosciuti con malsane voglie sessuali. Ci aveva fatto l’abitudine alla bestialità di alcuni suoi simili maschi, eppure su quel corpo infangato, lì, nel mezzo della palude, c’era traccia di una ferocia logica, diabolicamente precisa e funzionale a qualcosa.

    Una manata possente si abbatté sulla spalla del tecnico, che si voltò sussultando. Era così colpito, così sconvolto, che ebbe come una frustata al cuore. Dell’uomo in giacca color cammello che l’aveva raggiunto vide solo i folti capelli lisci, d’un biondo molto chiaro, pettinati con la scriminatura al lato. Il resto del viso, dal naso al mento, era coperto da un fazzoletto che era tenuto appiccicato al volto. Gli occhi, molto chiari, erano, almeno quelli, ben visibili, ma questo non bastò a Paolo per riconoscerlo.

    Il biondo mostrò il tesserino della polizia di Stato usando la mano libera e si presentò come «Ispettore Merli, Questura di Taranto».

    La voce arrivò bassa e soffocata, ma Paolo capì comunque.

    «Ah, certo, Merli. La conosco di nome. Be’, solo quello a dire il vero, ma ho letto di molte sue inchieste. Io sono Ferrante» si presentò Paolo. Gli avrebbe stretto la mano, ma i guanti in lattice erano sporchi di sangue raggrumato. Del resto, nemmeno Merli gli porse la mano disimpegnata.

    «Cosa puoi dirmi, Ferrante?» fece poi Merli, con la voce stanca e mesta, osservando l’abominio per terra.

    «Ah, ispettore… io… io ho visto di peggio, ispettore. Sono stato persino ad Avetrana, in quell’indimenticabile notte d’ottobre, eppure non m’era mai capitato di sentirmi così… così… fragile. Mai come in questo momento».

    «Va bene, va bene, Ferrante, posso capire, ma intendevo chiederti se potessi dirmi qualcosa di più su questo caso» tagliò corto Merli, non per disinteresse, ma perché voleva rimanere lì il minor tempo possibile. «Hai già un’idea, in generale?».

    «È morta relativamente da poco, intorno alla mezzanotte di ieri. Posso dire con certezza che era avvolta nella tela incerata in modo impeccabile» e indicò il telo poco distante da lì, scomposto in una strana scultura verdognola, «ed era come se l’avessero impacchettata per noi. Se vuole la mia opinione, non è opera di uno squartatore improvvisato, ispettore. Forse hanno agito a più mani. Chiunque sia stato ha, o hanno, asportato con precisione certosina quanto gli interessava… per farne cosa, non lo so, ma qualche ipotesi la si può azzardare».

    «Il compimento del tabù massimo» osservò triste Merli, con un altro sospiro. Lo sguardo gli cadde in modo inevitabile sul ventre squartato; trovava che fosse qualcosa di davvero orrendo. Addirittura riusciva a intravedere le vertebre lombari.

    «Va oltre il sacrificio rituale. Gli assassini si sono accaniti sul serio, ma l’hanno fatto con razionalità. Non… non si sono…» balbettava Ferrante, con rabbia. Smise di fotografare e si tastò le tempie con il polso. «Mi perdoni, ispettore. Credevo che non mi sarei mai più sentito così male, e invece…».

    «Se non te la senti di lavorare oltre, fatti dare il cambio. Ti firmo io il rapporto» propose un po’ burbero Merli.

    «No, è il mio lavoro, che diamine!» e Ferrante fece un cenno di diniego con la mano, passandosi il polso sulla fronte. «Comunque, ho studiato a fondo casi analoghi, come quello di Issei Sagawa, lo studente giapponese che mangiò una sua collega all’università».

    «Parigi, 1981. Conosco bene quella faccenda. Sagawa oggi è considerato una sorta di vip in Giappone, il che mi disturba parecchio. Di storie come questa, ne ho lette a bizzeffe, ma non voglio Sagawa scatenati nella mia provincia! Per questo non possiamo permetterci né pause né svenimenti» e, detto ciò con estrema gravità (e con una punta di rimprovero sarcastico), si chinò sulle ginocchia, tappandosi il naso in maniera più salda e focalizzando l’attenzione sul labbro mancante. Quello che aveva davanti era stata una graziosa bionda in vita, ma adesso non era che un ammasso organico in putrescenza, tormentato da mosche, moscerini e zanzare.

    Quella testolina dalla chioma dorata, che adesso sembrava più crine di cavallo reso lurido dalla macellazione, un tempo viveva. Ora, gli occhi puntavano l’ispettore senza guardare, stanchi, quasi assonnati. Merli ebbe l’impressione che, da un momento all’altro, il cadavere avrebbe alzato il collo, lo avrebbe osservato e gli avrebbe sussurrato: «Aiutami!».

    «Chi l’ha trovata?» domandò l’ispettore.

    «Due tecnici televisivi» sospirò Ferrante, continuando a scattare fotografie. «Erano qui per cambiare le telecamere. Ci hanno spiegato che l’emittente per cui lavorano trasmette su internet, ventiquattr’ore su ventiquattro, le immagini di questa palude, che è anche una riserva naturale, e hanno avvistato il corpo infagottato in quel telo» fece una pausa e scattò un altro paio di foto. «Non avevano capito bene cosa fosse, così lo hanno trascinato a riva con dei bastoni, così, per curiosità. Uno dei due ragazzi è svenuto appena ha svolto la tela… credo che sia ancora privo di sensi, nell’ambulanza. Il collega, invece, ha fatto appena in tempo a chiamare noi, poi è scoppiato anche lui. L’hanno trovato che urlava e si agitava. Camminava in tondo intorno al cadavere e piangeva».

    Merli, quando era arrivato, aveva parcheggiato sul ciglio della strada, a poca distanza da un’ambulanza, e, poco prima di scendere, aveva notato il ragazzo che piangeva appollaiato sul guardrail, che separava la strada dalla spiaggia; era coperto da un plaid e circondato da paramedici che cercavano di rincuorarlo. Piagnucolava che non c’entrava nulla e si preoccupava delle conseguenze in cui sarebbe incappato.

    «Lo credo bene. Ora a me tocca identificare lei, ho bisogno delle foto. Riesci a fare una ricostruzione del viso e mandarmela? Non possiamo diffondere sui giornali la fotografia del cadavere».

    «Nel furgone ho un portatile connesso a internet. Gliela spedisco non appena termino qui. Mi dia un quarto d’ora».

    «Fico» fece Merli. Dalla tasca del cappotto trasse un bigliettino da visita, con recapiti telefonici e indirizzi mail. Porgendolo poi all’altro: «Spedisci tutto a questa mail» e indicò la prima dell’elenco. «Io attendo. Ci aggiorniamo, Ferrante. Stai bene».

    «È una parola, ma ci proverò» chinò il capo il perito della scientifica, soffocando un altro conato.

    Merli diede un’ultima fugace occhiata ai resti della povera giovane donna e tornò verso la strada. Quando fu certo che non sarebbe stato nemmeno più sfiorato dall’odore di carne morta, ripose il fazzoletto nella tasca della giacca, ridonando libertà e aria fresca al naso e ai baffi color miele. Rimesso piede sul durissimo asfalto, andò alla propria auto, un residuato degli anni Settanta, una 124 Sport cerulea, dai sedili in pelle avana.

    Sapeva bene di girare su un reperto d’altri tempi ed era ben conscio di riscuotere sia l’ammirazione degli intenditori, sia i sogghigni di scherno delle generazioni più giovani e meno acculturate, in fatto di motori.

    Aprì lo sportello, si sedette sul sedile d’avanti, rimanendo con i piedi al di fuori dell’abitacolo.

    Merli prese lo smartphone dalla tasca, scorse il dito sulla rubrica digitale del cellulare e toccò due volte la voce «Diana». Lo premette ancora una volta, inoltrando una chiamata. Inserì il cavetto degli auricolari e dopo un po’ gli rispose la donna cui corrispondeva il nome di Diana.

    «Merli?».

    «Diana» fece lui, con la sua peculiare voce grave. «Cosa fai?», come era solito chiederle prima di qualunque altra cosa.

    «Preparo la colazione ai ragazzi. Tu sei alla palude?».

    «Sì, sono alla palude La Vela» rispose, senza dire oltre, come se volesse trattenersi.

    «Okay. Quindi? È grave? Cos’era quella segnalazione? La solita strage del sabato sera? Un’auto finita nella palude?».

    «Ben peggio. Davvero molto peggio, Diana» sospirò Merli.

    «Va bene. E quindi, di che si tratta?».

    Merli si accorgeva di non sapere quali parole usare per rivelare a Diana la situazione. La conosceva come una donna forte e decisa e, dopotutto, era specializzata in casi di violenza e abusi sessuali su minori e donne. Insomma, si era scelta un campo difficile, non tanto per le situazioni che andava ad affrontare, quanto per il coinvolgimento emotivo che, di caso in caso, poteva o meno intaccarne l’efficienza professionale. Strappare di bocca le informazioni a un lurido teppista, ammetteva Merli, era una passeggiata, in confronto al dover convincere donne dagli occhi lividi, o bambini dalle labbra gonfie, di potersi fidare; senza contare che le parole di uno spacciatore di droga non toccano il cuore come quelle di un ragazzino dalla voce rotta, su cui pesano gli abusi di un padre ubriacone.

    «Diana, è una faccenda molto, molto difficile. Io e te non ci siamo mai trovati ad affrontare nulla del genere».

    «Va bene, Merli, ma se continui a girarci attorno…».

    «Diana! C’è una ragazza dell’età di tuo figlio Diego, qui, morta e immersa nel fango» disse d’un fiato. «Ed è stata fatta a pezzi. Sicuramente l’hanno cannibalizzata».

    «Cosa? Oh, no, no, ci mancava solo questo, a Taranto! Dei fanatici cannibali».

    «Preparati, sto per venire a casa tua. Tra poco avremo la ricostruzione del volto della vittima. E ti dico cosa penso che accadrà ora: siamo agli inizi di una nuova tormenta mediatica. I particolari sono così… così indicibili che la morbosità della gente sarà irrefrenabile, come uno tsunami».

    «Guarda, non so ancora bene di cosa tu stia parlando ma, con le elezioni politiche tra due settimane e un papa dimissionario, ti posso dire che gli editori avranno altri argomenti da spremere» fece Diana. «E poi a Taranto, con tutti i problemi che ci sono, se i giornalisti nazionali ci mettessero piede, sarebbero aggrediti dagli ambientalisti. Forse avremo noie con quelli delle redazioni locali, ma anche loro hanno il loro bel daffare con i candidati di qui».

    «Cerchiamo comunque di venirne a capo al più presto». «Temi un’altra Avetrana, non è vero?».

    «Per la miseria, ho appena visto qualcosa di infernale!» sbottò il poliziotto.

    Merli fu distratto da un vociare in crescendo parecchio agitato e, alzando lo sguardo, vide una torma di cronisti armati di registratore e fotoreporter con reflex pronte a fare fuoco. Si accalcavano per tutta la lunghezza del guardrail, in quel lembo della strada provinciale 78. Erano all’incirca una trentina e, considerando che più o meno ognuno di quelli apparteneva a una redazione diversa, Merli ebbe lo spunto per riflettere sul perché i media fossero così in crisi: «Troppi cuochi guastano la cucina» come si dice.

    Gli agenti avevano bloccato l’accesso alla spiaggia e loro si agitavano, protestavano contro la polizia che si opponeva al sacrosanto diritto di fare informazione, tentavano di scorgere qualcosa nella zona delimitata dal nastro bicolore, all’interno della quale vedevano muoversi i rilevatori in tuta bianca, piccolini come formiche. Allora, come uno sciame di vespe ronzanti, aggredirono il tecnico televisivo ancora in lacrime, con i loro pungenti flash e domande che, gridate una sull’altra, divennero strida senza senso.

    Era come se uno stormo di cento avvoltoi si fosse avventato sull’unica carcassa distesa nel deserto, provocando, però, solo un gran bailamme e una tormenta di piume.

    Merli sussurrò al telefono: «Ecco, Diana, lo tsunami è già iniziato».

    2

    I.

    Diego Durante sedeva al tavolo della cucina, davanti alla sua solita tazzina di caffè e al piattino contenente due fette biscottate con marmellata di ciliegie e burro. Con lui c’erano i suoi fratelli minori, Marco e Irene, che preferivano i più ordinari cereali. Lui mangiava e beveva scorrendo lo schermo del suo tablet personale, un po’ lento e acciaccato, dal quale consultava le notizie al mattino, senza il fastidio di dover scendere in pigiama a comprare l’ultima edizione del quotidiano. Era giunto alle notizie riguardanti Taranto.

    «Oh, Cristo santissimo!» sbottò sbarrando gli occhi. Quella mocciosetta di Irene, immediatamente, con la bocca piena, strillò: «Mamma, Diego ha bestemmiato!».

    «Che è successo?» chiese invece Marco, che aveva diciotto anni ed era meno infantile della sorella.

    «Questa mattina alle sei, più o meno, hanno ritrovato i resti di una ragazza alla palude La Vela, sul Mar Piccolo».

    «Oh» fece Marco, senza scomporsi più di tanto. Mangiò qualche altra cucchiaiata di cereali, poi domandò: «Hanno messo le foto?».

    «No» rispose secco Diego, infastidito da quella domanda.

    «Ma dicono altro?».

    «Il giornalista dice che è stata sventrata e che le mancano diverse parti del corpo. Puoi indovinare quali».

    «Ah, sì!» ridacchiò Marco.

    «E poi? E poi?» si affrettò a chiedere Irene, con gli occhi luccicanti di curiosità. Diego la guardò con disprezzo, nonostante amasse sua sorella più della sua stessa persona. E anche Marco lo infastidiva, con quel ghigno crudele. Ma forse, si diceva, lo strano era lui, che se la prendeva per simili sciocchezze.

    «Sicura di volerlo sapere? Non è che poi non dormi la notte?» domandò Diego a Irene.

    La ragazzina s’imbronciò. «Io non ho paura! Lo sai che guardo i film horror la notte quando sto a casa di Fra e di Roby?».

    «Non è un film horror, questo, bella mia» sogghignò Diego.

    «Dimmelo!» ordinò Irene.

    «Va bene. Forse è stato un cannibale».

    E Irene, in quel momento, forse si pentì di aver insistito così tanto, perché sussultò sulla sedia e smise di mangiare i cereali, che si rammollirono fino a farsi pappa.

    «Uh, praticamente, devono averle combinato un macello!» fece Marco, togliendo di mano il tablet al fratello e scorrendo la notizia senza leggere, ma solo in cerca di foto. «Dì, non è che le hanno spedite a mamma?» domandò poi.

    «Non lo so» si affrettò a dire con rabbia Diego. «Non permetterti di entrare nella posta di mamma, hai capito? Sono cose della polizia. Non ti riguarda».

    «Uh, e capirai!» fece Marco, stringendosi nelle spalle e continuando la ricerca. «Ehi, ho trovato la foto! Una specie di identikit della ragazza. Però! Da come l’hanno disegnata mi sembra una bella tipa».

    «Fa’ vedere» fece Diego, riprendendosi il tablet con modi meno bruschi. Zumò l’immagine usando pollice e indice.

    Il disegno della vittima era completo di colori. Rappresentava il volto di una graziosa ragazza bionda, con i capelli lunghi e poco ondulati, con la fronte spaziosa e gli occhi cerulei, col naso piccolo e dritto e con le labbra carnose.

    «Bah, sarà che mi sbagli, ma mi sembra di averla già vista» disse Diego.

    «Come fai a conoscerla? Sarà una di quelle prostitute slave… ah, no, ho capito! Sei andato a puttane!» disse Marco, e batté una mano sul tavolo, scoppiando a ridere. Diego scosse il capo, sconsolato.

    «No, piccolo imbecille, non vado a donne, ma questa ragazza, l’ho già vista da qualche parte, ne sono certo».

    «Sì, allora sarà una delle tante che ti ha dato il due di picche».

    Diana Arciere, la capofamiglia, arrivò in cucina, pronta per uscire di casa. Irene si alzò dal posto e andò ad abbracciarla.

    «Cos’era quel chiasso, ragazzi?» domandò la donna.

    «Diego dice di conoscere la ragazza morta» disse subito Marco.

    «Davvero?» chiese Diana, versandosi il caffè in una tazzina.

    «Ho solo detto che mi sembra di averla già vista».

    «Merli mi ha chiamato poco fa, ma non c’era ancora alcuna ricostruzione della faccia della vittima. Siete sicuri che si tratti della stessa notizia?».

    «Sì, mamma, guarda tu!» e Marco passò alla madre il tablet.

    Diana sorseggiò il caffè e aguzzò la vista. L’identikit non era un disegno ufficiale, rilasciato dagli organi competenti. Prese in mano l’apparecchio ed evidenziò l’immagine: non c’era né il logo della scientifica, né la fonte di provenienza, tantomeno era presente il nome dell’autore. La redazione on-line

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