Il volto dell'amore
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Il volto dell'amore - Anna Maria Miccoli
633/1941.
CAPITOLO I
Niente male. Davvero niente male
pensò l’uomo squadrandosi nello specchio. Nonostante i suoi sessantacinque anni il fisico reggeva bene: il busto non era tonico come una volta ma era ancora possente e villoso.
Si picchiettò il viso appena rasato, lo massaggiò tirando in su qualche ruga intorno agli occhi, così tanto per vedere l’effetto di una pelle più tesa; senza dubbio sarebbe stato più attraente con una cute meno cascante, ma insomma, doveva accontentarsi.
E poi, chissà, col tempo poteva decidere di intervenire chirurgicamente: conosceva un chirurgo estetico, tra l’altro un suo carissimo amico, che lo avrebbe rimesso a nuovo e ad un costo di riguardo.
Non preoccuparti Amedeo. Un tocco di chirurgia e dieci anni via!
, erano state le parole di incoraggiamento del professionista. Già! Fuorviare il tempo era proprio ciò che desiderava: dieci anni in meno lo avrebbero fatto sentire ancora nel pieno della gara, ancora legittimo concorrente di una partita che di lì a pochi anni si sarebbe chiusa definitivamente.
Pur essendo invecchiato non si sentiva pronto ad uscire di scena e ad abbandonare un gioco che trovava ancora eccitante, ancora straordinariamente piacevole. Tanti suoi colleghi, conoscenti, amici erano già morti, altri si erano rifugiati in una quotidianità soffocante fatta di pranzi e cene con i figli, feste di compleanno e pomeriggi interi passati con i nipoti. No! Egli era un uomo diverso: la vitalità erotica che lo attraversava lo rendeva incapace di accettare un’esistenza ordinaria, una delle tante vite che si dissolvono pietosamente in una sorta di eutanasia emozionale.
Non tollerava di essere escluso dai ritmi gaudenti per il solo fatto di essere anziano, detestava rimanere ai limiti di una vita sessuale vivace alla quale solo i giovani potevano accedere a pieno titolo.
Desiderava troppo le donne: esse rappresentavano la sua linfa e per nessun motivo avrebbe rinunciato a loro, alla loro bellezza, alla loro giovinezza, al loro calore.
Il senso della propria vita e la consapevolezza della propria individualità si trovavano, ora più che mai, nei loro corpi, nei loro sospiri, nei loro sussulti.
Sentirle fremere come puledre sotto di lui, vederle inarcarsi di piacere, ascoltare i loro gemiti, erano la risposta all’insensatezza dell’esistenza e forse al terrore della morte.
Si passò le dita tra i capelli per il solo piacere di sentirne la corposità e la morbidezza; la capigliatura era stata, e continuava ad essere, il suo grande vanto: piena e sbarazzina, e incredibilmente bruna.
Probabilmente era ciò che affascinava di più le donne: quando le possedeva, erano proprio i capelli il posto dove esse affondavano le loro mani concitate.
Sarebbe stato ancora un po’ ad osservarsi ma era già tardi e doveva ancora vestirsi.
Indossò l’abito che aveva disteso sul letto; indugiò nella scelta della cravatta che non voleva sembrasse impegnativa, non era necessario che lo fosse, poi un’ultima guardata nello specchio dell’ingresso, accompagnata da un rapido sorriso di soddisfazione.
Ciao, papà! Esci?
, la voce acuta della ragazza irruppe in casa smorzando la luminosità dell’uomo.
Lietta! … Già qui? Pensavo che non arrivassi per l’ora di cena. Non ho preparato nulla … mi dispiace!
si affrettò a scusarsi, contrariato per essere stato afferrato dallo sguardo attento e inatteso della figlia, proprio mentre stava per uscire.
Non pensarci, papà. Mi arrangerò: perlustrerò il frigo e di sicuro troverò qualcosa da addentare
disse lei sorridendo controvoglia.
Bene! Allora … io vado. Non voglio far aspettare Guglielmo: starà fremendo davanti alla scacchiera; lo conosci, è intransigente sulla puntualità.
L’uomo, Amedeo Perris, docente universitario di Fisica in pensione, chiuse l’uscio alle sue spalle e sospirò profondamente.
Il silenzio investì Lietta che rimase immobile accanto alla specchiera a fiutare la fragranza vellutata indossata dal padre; lasciò cadere la borsetta sul divanetto e lentamente si mosse verso il soggiorno. Si sentiva infastidita e demoralizzata: proprio quella sera si era proposta di parlargli, di comunicargli finalmente la sua intenzione; era da tanto che intendeva farlo ma ogni volta procrastinava, per timore o per debolezza.
Quella sera, invece, si era preparata ad affrontarlo: aveva salutato frettolosamente Enrico sfiorandogli rapidamente le labbra, come se il restare tra le sue braccia avesse potuto farle cambiare idea o comunque avesse potuto affievolire la determinazione di cui si era caricata.
Allora, hai proprio deciso di parlargli stasera? Sii accorta, però. Pondera bene quello che dirai; conosci tuo padre: è irremovibile e anche molto presuntuoso. Non sarà facile convincerlo a lasciare la sua casa
le aveva detto il giovane, accarezzandole il viso.
Oh, Enrico, mi sento così inquieta, ma devo farlo … devo farlo. Devo pensare alla mia vita, al mio futuro. Io ti amo e voglio viverti accanto, non posso lasciarti partire da solo. Ti seguirò, verrò con te ad ogni costo.
Anche io ti amo, Lietta, ma non vorrei che tu prendessi una decisione avventata pur di seguirmi: una decisione che potrebbe crearti dei rimorsi futuri. Se verrai con me, a Londra, dovrai lasciare il tuo lavoro e …
Basta! Ho pensato molto, ho meditato a lungo. Devo andare, lo devo affrontare, dirò le cose come stanno; e se si rifiuterà, non mi importa … lo lascerò da solo
gli aveva detto tutto d’un fiato e col cuore che sussultava nel suo petto esile.
Invece, eccola là, acquattata sul divano e raccolta nelle spalle di bambina.
Provava sconforto ma anche rabbia per aver rovinato la serata con Enrico: sarebbe potuta restare ancora un po’ tra le sue braccia, senza la necessità di affrettarsi a rincasare carica di ansia e di risolutezza per poi arretrare stremata e dubbiosa.
Prese a fissare pigramente una dopo l’altra le fotografie schierate sul piano del tavolo: un susseguirsi di figure senza tempo, dagli sguardi incantati e dai sorrisi luminosi, infilate in ricche cornici d’argento. Le parvero penosi trofei di una felicità senza parole.
Lentamente l’oscurità della sera le fece vibrare e il lamento del vento condusse nella stanza le loro voci.
Alfredo le si sedette accanto, con la sua veste talare; le lisciò i capelli, e le sue mani le parvero di cera.
"Lietta ... la mia dolce sorellina! Che sofferenza non poterti riabbracciare! Mi manchi tanto, mi mancano tutti: la mamma, Claudio … e papà. Oh, Lietta cara, perché questo triste destino? Perché proprio a noi? Prego tanto per le vostre anime e per la mia che nonostante la fede, non riesce a trovare pace. Mi inginocchio davanti all’altare e rimango a lungo in silenzio, muto e inerte di fronte al Signore; lascio parlare il mio cuore al quale la mente suggerisce i momenti più belli della nostra breve vita famigliare. Rivedo te, al mare, minuta e fragile, sgambettante tra i flutti della battigia, penso ai tuoi occhi, immensi e languidi come i tramonti dell'estate. Temo di aver fatto molto poco per renderti felice. Avrei dovuto restarti accanto e non fuggire per inseguire un sogno che tuttavia si è gravato di rimpianti e afflizioni.
Le certezze di una volta ora sono dubbi, rammarichi, fragilità. Se fossi rimasto, forse avrei impedito il fallimento della nostra famiglia. Mi dispiace …"
Alfredo: occhi verdi e andatura dinoccolata; un ragazzo enorme, e d’altronde doveva esserlo per contenere un cuore tanto grande.
Un cuore che come un sorprendente paracadute si apriva per farla atterrare con dolcezza su circostanze spiacevoli.
Su, su, Lietta, niente lacrime, per carità! Sai bene che papà ha sempre tanti impegni, impegni importanti, sai? È un professore universitario, lui. Stasera verrò io al tuo saggio così mi dimostrerai quanto sei brava. In fondo sono il fratello maggiore, dunque … potrei essere tuo padre!
e, imitando la voce austera del padre, incalzava:
Allora, figliola, non perdere tempo e vai a prepararti. Sai che non amo aspettare: puntualità, ragazzina, puntualità!
La avvicinava a lui e le punzecchiava i fianchi così da indurla al sorriso.
No, aspetta, farfallina! Vieni qui, fatti abbracciare. Non dimenticare quanto bene ti voglio e quanto sia orgoglioso di te
le mormorava tra i capelli.
Lei ridacchiava: Dai, Alfredo! Smettila! Mi fai il solletico … Mamma, aiuto!
e si dimenava tra le sue braccia poderose cercando di liberarsi.
Alfredo, lasciala stare. Non vedi che è una pagliuzza …
interveniva con tono scherzoso la madre.
"Mamma! Non ti ci mettere pure tu … Uffa! Vedi che sono abbastanza forte, solo che