Sotto le stelle di Cuba
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Sotto le stelle di Cuba - Marco Del Pasqua
15
1
Mi svegliò il suono del segnale acustico di allacciare le cinture di sicurezza ma ci vollero alcuni istanti per uscire dal torpore e realizzare dove fossi.
Ero partito la sera prima da Roma ed ero già arrivato all’Avana, dove era mattina, dopo aver profondamente dormito con l’aiuto di un sonnifero.
L’altoparlante dell’aereo ci avvisò che stavamo per atterrare; raccomandarono di allacciare le cinture e di non fumare. Premetti il pulsante per porre la poltroncina in posizione verticale. Pian piano cominciai a prendere dimestichezza con la nuova realtà. Ero felice. L’altro ieri avevo lasciato l’ufficio per le ferie ed ero partito per una vacanza di due settimane a Cuba. I colleghi mi avevano salutato, con un pizzico d’invidia, dicendomi: Beato te che vai a spassartela a Novembre ai Caraibi
. Era vero; non sopporto le piogge e le nebbie autunnali che preludono l’inverno. Io sono un animale a sangue freddo e ho bisogno di sole tutto l’anno. Ripensai per un momento all’ufficio e assaporavo la gioia di trascorrere due settimane senza computer, telefoni e telefonini. E avevo bisogno di dimenticare la storia con Luisa. Ci eravamo lasciati sei mesi prima perché i nostri caratteri erano incompatibili. Ora avevo bisogno di ritrovare me stesso.
Atterrammo e applaudimmo ritualmente il pilota per il perfetto atterraggio.
Il controllo passaporti si svolgeva in modo lento e meticoloso. I poliziotti erano giovani e simpatici. Mi domandarono se ero un giornalista ed io risposi che ero un semplice turista. Allora buona vacanza, Carlo!
Mi augurò il poliziotto dopo aver sbirciato di nuovo il mio nome sul passaporto. "Gracias", risposi nel mio incerto spagnolo, e buon lavoro a voi
.
Ritirai la mia valigia e cercai un taxi. Fui avvicinato da almeno una mezza dozzina di persone che mi chiesero se desideravo un taxi particular e subito respirai l’aria tiepida del mattino tropicale. Risposi di no e presi un turist taxi perché erano auto nuove, efficienti e, soprattutto, avevano il tassametro.
Il tassista mi condusse veloce all’albergo che avevo prenotato dall’Italia. Era un edificio degli anni sessanta, grigio e spoglio. Pagai e salutai il tassista. Quando scesi dall’auto, il caldo cominciava a farsi afoso. La differenza con il clima autunnale di Firenze iniziava a pesarmi. Si avvicinò un facchino che mi prese la valigia. Presentai la prenotazione alla reception dell’hotel e mi assegnarono una camera singola con bagno.
Il facchino mi portò la valigia in camera. Gli diedi un dollaro di mancia e lui mi augurò buona permanenza. Dalla finestra si vedeva il mare, calmo e azzurro, sotto un sole ormai alto. Mi spogliai e mi feci una doccia; poi mi sdraiai sul letto e accesi il televisore. Trasmettevano un programma musicale con ballerini di salsa.
Dopo qualche minuto mi addormentai.
Quando mi svegliai erano già le due del pomeriggio, le otto di sera secondo l’ora italiana. Avevo fame. Mi vestii e scesi al bar. I camerieri facevano finta di non vedermi e dovetti chiamarli almeno un paio di volte per essere servito. Ordinai un panino, un’acqua minerale e un caffè. Dopo aver mangiato, chiesi dove si potesse noleggiare una macchina. Esisteva un ufficio d’autonoleggio proprio all’interno dell’albergo e me lo indicarono. Avevo in programma di fare un giro dell’isola. Presi in affitto una macchina nuova di fabbricazione coreana, ben dotata di accessori, e andai subito a fare un giro della città. Non ero abituato ai semafori sudamericani perché avevano le luci poco visibili ed erano collocati di là dagli incroci, mentre da noi in Europa stanno immediatamente prima. Avevo paura di passare con il rosso e andavo piano, qualcuno perciò mi strombazzava con il clacson. Sul Malecon c’erano molte persone che facevano autostop, soprattutto ragazze. Una di loro mi bussò al finestrino dell’auto mentre ero fermo ad attendere il verde. Le chiesi dove fosse diretta e lei mi rispose che sarebbe andata dove andavo io. Le sorrisi e richiusi il finestrino mentre lei mi strizzava l’occhio.
Mi avviai verso la città vecchia. Parcheggiai la macchina. Macchina fotografica a tracolla, m’incamminai per le vie del centro. Ogni tanto ero avvicinato da qualcuno che voleva vendermi sigari o altre cianfrusaglie. La Piazza della Cattedrale era affollata di turisti che giravano per le bancarelle colorate. Faceva caldo e sentivo la camicia che cominciava ad appiccicarsi alla pelle. C’era troppa confusione e allora m’indirizzai verso la Plaza de Armas dove mi sedetti in una panchina a riposare. Sulla Plaza de Armas c’erano bancarelle dove si vendevano soprattutto libri usati e vecchie riviste. L’atmosfera era più tranquilla e rilassata che in Piazza della Cattedrale.
Due ragazze si avvicinarono. Una di loro cominciò a tempestarmi di domande chiedendomi da dove venivo, cosa facevo a Cuba, quando ero arrivato, quanto tempo avevo intenzione di restare; infine mi chiese se avevo voglia di invitarla a uscire quella sera. Le risposi di no e lei, dopo aver insistito, mi chiese se potevo darle tre dollari per prendere un taxi. Mi frugai in tasca e le diedi i tre dollari pregandola di non importunarmi ulteriormente.
Un ragazzino vispo di circa quindici-sedici anni mi chiese se avessi bisogno di una guida. Gli dissi che conoscevo la città perché c’ero già stato alcuni anni prima in vacanza. Era un ragazzo simpatico e mi misi a parlare un po’ con lui. Mi disse che studiava per fare la guida turistica e che imparava pure l’italiano. Chissà se era vero. L’italiano, però, lo parlava abbastanza bene. Gli detti qualche spicciolo per comprarsi un panino. Scattai qualche foto alla piazza e alle bancarelle.
Alla Bodeguita del Medio feci una sosta per bere un mojito. Il locale era pieno zeppo di turisti italiani. Pagai e uscii frettolosamente. Per strada percepivo un po’ di senso di vuoto per la mancanza di negozi e di vetrine da osservare; l’assenza di un comune elemento di distrazione, tipico delle città del cosiddetto mondo capitalista.
A sera cenai in un paladar vicino all’hotel, poi andai presto a dormire perché l’indomani volevo andarmene dall’Avana. Ero curioso di conoscere la vita nelle zone interne dell’isola.
2
Il giorno seguente mi alzai verso le otto e, subito dopo colazione, presi la valigia e partii. Il traffico era abbastanza intenso e ci misi un bel po’ di tempo per uscire dalla città e imboccare l’autostrada per Santa Clara. Avevo deciso di dirigermi a Santa Clara perché avevo voglia di vedere il mausoleo di Che Guevara. L’autostrada aveva quattro corsie, il traffico era scarsissimo: alcuni autotreni; qualche rara auto targata empresa, ogni tanto un’automobile con la targa turismo, come la mia; le autovetture private erano praticamente assenti. L’autostrada era però in buono stato. Avrebbe permesso correre, ma io non avevo alcuna voglia di correre e viaggiavo lentamente. Il paesaggio era prevalentemente pianeggiante e monotono. L’autostrada era spesso costeggiata da piantagioni di canna da zucchero che si distendevano a perdita d’occhio.
Arrivai a Santa Clara dopo alcune ore ed ero anche un po’ stanco, nonostante una pausa che avevo fatto per riposare. Non avevo ancora raggiunto la città che già avevo intravisto da lontano l’imponente mausoleo-memoriale del Che. Si vedeva la sua enorme statua di bronzo che si stagliava nel cielo nuvoloso e minaccioso di pioggia.
Sentivo un brivido alla schiena nell’avvicinarmi al luogo che custodiva i resti mortali del Che.
Entrai nella Plaza de la Revolucion e parcheggiai la macchina. Il monumento si ergeva davanti ai miei occhi in tutta la sua solennità. In fondo però non mi piaceva; la sua imponenza trasmetteva una sensazione d’ampollosità retorica che stonava fortemente con il carattere e l’immagine che il Che aveva sempre dato di sé durante la sua vita. Pensai che, se lo avesse potuto vedere da vivo, certamente non lo avrebbe gradito. M’incamminai lentamente sui gradini. Lessi, scritta su una grande lapide, la lettera di commiato a Fidel, che aveva scritto prima di andarsene da Cuba, con cui rinunciò a tutti i suoi incarichi pubblici per tornare a combattere per la libertà d’altri popoli. Ripensai a quante volte avevo letto in Italia quella bellissima lettera. Per la prima volta, la leggevo in lingua originale sul luogo dov’era sepolto il suo autore.
Un poliziotto m’indicò il percorso per entrare. Scattai delle foto. Sul monumento c’erano delle scolaresche cubane e un gruppo di turisti francesi.
L’ingresso era sorvegliato da guardiani e telecamere. Una custode mi avvertì che all’interno era severamente vietato fotografare. Entrai. Sul lato sinistro c’erano le tombe del Che e degli altri guerriglieri caduti in Bolivia. Non volli leggere i nomi che vi erano scritti, perché avevo paura che, leggendo il suo nome su una lapide, sarebbe svanito il suo mito. Per me era come se non fosse mai morto e cercavo di percepire da vicino la presenza del suo spirito. Quando uscii, fui felice ed emozionato di essergli stato accanto almeno per una volta nella vita. Il museo non lo visitai. La sua storia la conoscevo già.
Cominciò a piovere e feci appena in tempo a risalire in macchina prima di inzupparmi i vestiti. Presi in mano la carta stradale e decisi di proseguire verso Trinidad perché aveva fama di essere una bella città e, cosa in quel momento molto importante per me, un buon posto di mare.
Pioveva forte e c’era scarsa visibilità. Imprecavo a denti stretti e pensavo alle migliaia di chilometri di viaggio che avevo fatto per sfuggire all’autunno per poi ritrovarmi con un tempo da cani. Ho preso la cartina stradale ed ho cercato di individuare la via di Trinidad. Mi sono diretto verso l’autostrada. Ho viaggiato molti chilometri senza riuscire a trovare l’uscita che cercavo. A un certo punto mi sono fermato ed ho compreso che avevo superato di molti chilometri lo svincolo per Trinidad, ma che da lì potevo rimediare, alla prossima uscita, su un itinerario alternativo attraverso le montagne.
Ho percorso un lungo tratto di strada stretta ma relativamente buona e pianeggiante, poi la via ha cominciato a inerpicarsi, con numerose curve, sulla montagna; il fondo stradale a volte era sterrato e pieno di buche. La pioggia tropicale continuava a cadere incessante e la strada si trasformava sempre piu’ in un fiume di fango e d’acqua. Il sole intanto era tramontato ed era buio. Calcolavo di arrivare a Trinidad comunque non troppo tardi, perché sulla cartina non sembrava molto distante.
Dopo aver oltrepassato un villaggio, la strada era cosparsa di buche come se fosse stata mitragliata. Procedevo a passo