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Stella cadente
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Stella cadente

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About this ebook

Colin, la bestia, è il leader di un gruppo rock di fama mondiale. Se il suo aspetto lo ha reso un vero sex symbol, la sua strafottenza e il suo carisma lo hanno presto fatto etichettare come la bestia. Ma forse una rock star, nel suo profondo, è qualcosa di diverso dall'immagine che ne viene data in pasto al pubblico, spesso manipolata da giornalisti sempre in cerca di notizie e scoop. Una malattia che non lascia speranza sarà l'occasione per conoscere il vero Colin, che si troverà a soli 31 anni davanti a un verdetto devastante. Inizierà così un mesto conto alla rovescia che lo porterà a impensabili cambiamenti fisici ma soprattutto interiori. Colin dovrà trovare la forza per andare incontro al suo destino, accompagnato da amici fraterni, affrontando vecchi rancori, aiutato da nuovi alleati. Stella cadente narra il viaggio esistenziale di un ragazzo che dalla vita ha ottenuto successo, fama e ricchezza, ma che vede crollare improvvisamente tutto, per poi intraprendere un percorso verso un luogo ignoto. In una sorta di diario seguiremo Colin, condividendone paure e gioie, difficoltà e sogni.
LanguageItaliano
Release dateMay 22, 2014
ISBN9788867931019
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    Book preview

    Stella cadente - Laura Horses

    http://creoebook.blogspot.com

    Laura Horses

    STELLA CADENTE

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono fittizi o usati in modo fittizio. Tutti gli episodi, le vicende, i dialoghi di questo libro, sono partoriti dall’immaginazione dell’autore e non vanno riferiti a situazioni reali se non per pura coincidenza.

    Prefazione

    Sesso, droga e rock n' roll: sono le classiche parole che si usano per descrivere la vita di una rockstar. Connubio perfetto per una vita vissuta sempre sul ciglio di un burrone, su di una lama affilata di un rasoio.

    Ci avete mai fatto caso?

    Sesso: il contesto è sempre lo stesso per ogni rocker che fa i conti con questo stereotipo. Una stanza d'albergo che viene abitualmente distrutta, dentro la quale si consuma uno degli atti sessuali più trasgressivi. Immaginatevi donne legate alla spalliera del letto con delle manette o semplicemente con delle cinture di pelle nera (ovviamente con borchie argentate appuntite) con un tizio cappellone, iper tatuato, che la cavalca come fosse un animale. Al di fuori si possono indistintamente udire lamenti di piacere, molle cigolare e insulti provocatori.

    La stampa ci fa credere che basta che una rockstar schiocchi le dita e si può fare tutte le donne che vuole, quando vuole e come vuole, perché loro sono le star e si possono permettere di tutto (e di più).

    Mai una rockstar è stata vista in giro con un cesso ambulante, ma solo donne con calze a rete e tacchi a spillo, corpetti che spremono capezzoli e irrigidiscono seni.

    Questo mi fa pensare, tanto da avere abbozzato una trama per un prossimo libro.

    Droga (con l'aggiunta di alcool): per sopportare certi ritmi, soprattutto quando si diventa una star di fama mondiale, il rocker deve cedere a certe tentazioni, a certi aiuti che possono portarlo sull'orlo del precipizio.

    A volte pagando un prezzo troppo caro per la fottuta fama.

    Certi personaggi sono già tossici prima di diventare qualcuno, quindi il loro successo li porta solo ad acquistare solo roba più buona, roba di lusso che ti fulmina all'istante.

    Ma se si comincia senza il becco di un quattrino, la droga arriva solo se fai strada. Tanto vale prendersi una sbronza con del whisky scadente. Una bottiglia da due dollari può donare gli stessi effetti di una da cento. Bevila fino all'ultima goccia completamente a digiuno e poi mi dici.

    La fortuna bussa finalmente alla porta del gruppo esordiente e qualcosa comincia a girare. Oltre ai soldi, ci sono delle persone (degli avvoltoi, ndr) che girano attorno a questi ragazzi. Propongono pozioni miracolose che servono a non far sentire la stanchezza, per soddisfare tre donne insieme, per cantare e suonare dieci ore di fila. Trasformano questi ragazzi in Dei e, cazzo, in quel momento è proprio quello che vogliono diventare. Loro lo sanno spremendoli fino al midollo.

    Non fa niente se qualcuno cerca di lottare contro questa porcheria e tenta di essere pulito, perché non vuole trasformarsi in un automa e sul palco valere una mezza sega.

    Non fa nulla. La gente, questo, non lo deve sapere.

    Rock n' Roll: ovviamente. Stiamo parlando di rockstar, non di operetta. Ma questo genere musicale, prima di associarlo a grandi nomi della storia, viene etichettato con eccessi, risse, cattivi ragazzi. Come canta qualcuno i bravi ragazzi non suonano il rock n’ roll. I grandi nomi del genere hanno una storia alle spalle da film dell'orrore, la cattiveria e la caparbietà che si portano addosso li ha fatti diventare quel che conosciamo oggi.

    Potrei andare avanti per ore, elencando tutto ciò che di negativo esiste al mondo, generando un vocabolario apposito per la categoria.

    E se non fosse proprio così? Ve lo siete mai chiesti? Se tutto quello che crediamo, fosse solo una stupida trovata pubblicitaria, perché vogliono che crediamo a un certo tipo di personaggio fasullo che nella realtà non esiste? Come quando si è bambini e ti insegnano a temere l'uomo nero e di avere fiducia nei supereroi come Batman (che cazzo è nero pure lui).

    Vi siete mai chiesti se le rivalità storiche tra le band esistono veramente? Io sì, e sono certa che in alcuni casi i due leader si sentano telefonicamente per farsi due risate, rileggendo un articolo che li vede protagonisti a darsele di santa ragione.

    Avevo undici anni quando ho scoperto questo mondo, il mondo del rock intendo. Prima (da bambina ignorante che ero) mi obbligavano ad ascoltare la musica che volevano mia sorella e mia madre. Ma in quella melodia e in quei testi, pressoché falsi e ipocriti, non mi riconoscevo e soprattutto non mi rispecchiavo. Lei che lascia lui, normalmente perché viene tradita, lui che le chiede scusa con una poesia in note e tutti vissero felici e contenti. Almeno fino al prossimo tradimento, che sicuramente avverrà.

    Io volevo di più e il mio carattere di ribelle non apprezzava le sdolcinate note di cantanti italiani e stranieri che mi propinava la mia famiglia.

    Mi sono sempre considerata una ragazza dura, ma dal cuore tenero che vuole apparire una cosa, ma in fondo (molto in fondo) è un'altra persona.

    Un giorno, sinceramente per caso, ho ascoltato una canzone che mi ha letteralmente cambiato la vita, stravolgendola fino al midollo. Il dj di una radio locale presenta il pezzo come uno dei più belli in voga al momento, infatti era primo in classifica: Don't Cry dei Guns n’ Roses. Non sapevo nemmeno chi fossero, che facce avessero, ma quella voce sofferente all'inizio e la pace dei sensi che ho sentito successivamente, quell'assolo di chitarra cullato dalla batteria che segnava il tempo, mi ha fatto conoscere una realtà diversa che andava di pari passo con il mio essere interiore.

    La dolce melodia si trasformava in rabbiose note che si susseguivano fino alla fine. Ero io! Quella canzone, in quattro minuti, rispecchiava me stessa.

    Cosa mi sono persa? Mi domandai al negozio di dischi, accanto a casa mia, dove acquistai tutta la discografia di quel gruppo, e non solo.

    I Guns n’ Roses mi hanno battezzata, cresciuta e stregata. Dovevo sapere tutto di loro, ma non solo artisticamente (troppi libri raccontano le loro avventure, in certi volumi anche romanzandola un pochino, come fossero pirati crudeli).

    Io volevo, voglio, di più. Io dovevo sapere chi erano William, Soul, Jeff, Michael Andrew e Michael Coletti, le persone che compongono (ahimè, che componevano) questa band. Cercavo di leggere nei loro occhi incazzati, immobili su di un poster, le loro sensazioni ed emozioni, e qualcosa ho capito.

    Noi fans (mi includo perché lo sono ancora) siamo degli sfruttatori accaniti. Non crediamo che il nostro idolo sia una persona umana, ma pensiamo che sia a nostro servizio e che debba fare tutto ciò che vogliamo perché è pagato profumatamente, anche da noi che compriamo i suoi dischi.

    Invece no! I nostri idoli sono esseri viventi, con del sangue che scorre nelle vene, con un cuore che batte nel petto, con delle emozioni forti se vengono lasciati dalle fidanzate o con altrettante belle emozioni se gli nasce un figlio.

    Ho letto recentemente una biografia non ufficiale su Axl Rose (il ragazzo incazzato con il mondo per eccellenza). Quando stava con Stephanie Seymour si è presentato, un giorno, alla villa dove abitavano in sella a un cavallo bianco per portarle dei fiori e per dirle ufficialmente, con tutta la galanteria del caso, che l'amava alla follia e che avrebbe desiderato passare la vita con lei.

    Perché queste cose non vengono riferite a noi fans? Non dico che dobbiamo avere un resoconto giornaliero su tutti i loro movimenti personali (non lo voglio e non pretendo di conoscere il numero delle volte in cui vanno al cesso), ma creare un personaggio di fantasia, spesso orribile, è patetico. La stampa crede di avere a che fare con degli idioti o semplicemente certe cose non le ritengono interessanti e non alla portata dell'immagine costruita su Axl, per esempio.

    A noi fanno sapere se Axl fa a botte o se ha spaccato la faccia a qualcuno, se è in un'aula di tribunale perché qualcheduno gli ha fatto causa per diritti d'autore, per ragioni di sicurezza pubblica, per spaccio, perché ha alzato la voce, congiuntamente alle mani, perché ha pestato i piedi a qualche pezzo grosso o solo perché è semplicemente Axl Rose. Attendiamo un'intervista ufficiale dove sappiamo ne sparerà di grosse contro chicchessia, perché così lo hanno disegnato.

    Ma qualcuno di noi si è mai chiesto se il nostro idolo è felice?

    Mi sembra di sentirvi rispondere: Non li paghiamo per essere felici, ma li paghiamo perché rendano felici noi! Sinceramente mi fa schifo un'idea simile.

    Da tanto nasce questo libro.

    Ho tentato di creare un rocker di fama mondiale, sulla cresta dell’onda e osannato da fans e giornali (e credetemi non è stato facile evitare di evocare in qualche maniera certi racconti legati ai grandi. Se per caso è capitato, vi garantisco che ogni riferimento a fatti e persone è puramente casuale. Forse sono io che sto cercando di conoscere ogni sfaccettatura di un essere umano, che mi sembra a volte di averlo accanto e parlarci).

    Colin la bestia fatica ad avere una vita privata, se non inventata dai giornali per pura pubblicità. Cerca di preservare la propria famiglia, chiudendosi a chioccia attorno alla sorella Julie e al fratello Arthur, anche se a volte fatica a riconoscere in loro la sua famiglia, l’unica che gli è rimasta.

    Ma non tutto dura per sempre. Il suo disperato essere normale, il farsi riconoscere come il ragazzo dell’Illinois, lo porterà a imbattersi (suo malgrado) in qualcosa più grande di lui e della bestia.

    Non tutto ha una soluzione e Colin lo scoprirà sulla sua pelle tatuata con serpenti e pugnali sanguinanti. Non tutte le situazioni che si generano, che crescono attorno a lui devono avere una spiegazione e non sempre il capro espiatorio deve essere Colin.

    Alla faccia delle cattiverie che era abituato a leggere su di lui, ora si stupirà nel notare tanto affetto e per una volta i giornali saranno tenuti a dire la fottuta VERITÀ.

    Buona lettura e che Dio mi assista nei vostri giudizi.

    La vostra compagna di viaggio.

    Laura Horses.

    P.S.: volevo scusarmi se il testo del libro contiene troppi francesismi, ma li ho inseriti di proposito. Durante diverse interviste di frontman della musica rock, raramente li si sente parlare in maniera pulita e ortodossa. Anche i testi delle canzoni sono spesso colme di insulti e parole grosse. Il perbenismo lo lasciamo dove si trova, perché a chiunque durante il giorno scappa qualche parola non consona all’abito che indossa.

    Quindi se temete di rimanere scioccati dal linguaggio, chiudete il libro e prestatelo al vicino di casa che pensate abbia il quoziente intellettivo di una pietra.

    Los Angeles, primi di gennaio

    Non eravamo nemmeno a metà dell’inverno e il freddo che ti entrava nelle ossa, era davvero pungente. Stavamo sorvolando ancora i cieli californiani, quando dall’alto dell’aeroplano si poteva osservare l’oceano blu scuro, tetro, che trasmetteva una gelida sensazione di smarrimento. Le nuvole piene di pioggia ci avrebbero accompagnato nell’atterraggio, ormai prossimo, visto l’annunciare del pilota di allacciare le cinture di sicurezza. La spia sopra le nostre teste si illuminò di rosso, mentre le hostess passavano ad assicurarsi che non fossimo stati dei bambini disubbidienti.

    Eppure questa era casa nostra, che viene dipinta spesso con il sole e i surfisti sulla spiaggia, ma anche l’inverno passa le sue vacanze qui da noi, a Los Angeles. Sembra strano vedere gente con i maglioni e i giubbotti imbottiti, anziché bermuda e costumi da bagno, ma il freddo quando giunge in città tocca anche l’anima.

    Sepolti nei sedili e nascosti dagli occhiali scuri, mentre l’aereo scendeva di quota creando quel fastidio alle orecchie, che sarebbe svanito succhiando una caramella. Sbarcati dal velivolo, l’aria era mossa non solo dai motori in fase di assestamento, ma anche dalle correnti che si alzavano dall’oceano più arrabbiato che mai. Se il tempo tenesse, potremmo vedere dei pazzi surfisti rischiare di trovare qualche onda buona da cavalcare, ma il meteo aveva previsto forti piogge con mareggiate pericolose; quindi imbarcazioni e surfisti per oggi se ne staranno davanti a un camino a pregare per l’indomani.

    Ad attenderci una marea di giornalisti a farci le solite foto di rito, per augurarci il bentornato a casa. Eravamo di rientro dall’Oriente, dove avevamo tenuto soddisfacenti risultati con i concerti tutti sold out, cioè tutti esauriti. Non per modestia, ma credo che soddisfacenti non renda l’idea; in Oriente siamo andati alla grande!

    Suonare e cantare per tutta quella gente, fredda di natura e non espansiva, vederli impazzire a ogni mio passo o a ogni assolo di chitarra, è stato elettrizzante. Sapere, successivamente, che le vendite dei biglietti erano state ultimate in tempi record, fu ancor più appagante. Salire sul palcoscenico, per me, non significa presentarsi di fronte al microfono, cantare i pezzi in scaletta e andarmene fuori dai coglioni. Per me è interagire con il pubblico, con i miei ragazzi, come mi piace definirli. Con loro, di qualsiasi nazionalità siano, ci parlo, litigo e scherzo.

    È capitato che mi buttassi tra di loro perché c’era qualcuno che non meritava la nostra attenzione, per prenderlo a calci e sbatterlo fuori. Questo sono io, faccio del mio meglio per te, ma tu devi dare del tuo meglio per me. Se vieni a un mio concerto per mostrare il tuo lato peggiore, tornatene pure a casa, perché tra noi non sei il benvenuto.

    Questo sono io, mi presento: sono Colin, meglio conosciuto come Colin - "la bestia dell’Illinois".

    La limousine era ad attenderci poco fuori l’aeroporto e, recuperati i bagagli, potemmo nasconderci dietro i suoi finestrini oscurati. Direzione: Musik Records, la nostra casa discografica.

    Il traffico era intenso, per essere primo pomeriggio di un giorno feriale. Ma la gente non lavora, pensai, sorridendo al fatto che anche noi eravamo in giro a fare un beato niente. La temperatura esterna era ferma a sette gradi e si sentivano tutti, le prime gocce di pioggia sporcavano il parabrezza dell’auto e la radio suonava i Rolling Stone. Ben tornati a casa, ragazzi, ci disse Paul, il nostro autista, picchiettando il volante tenendo il ritmo del pezzo che risuonava in auto.

    Il parcheggio sotterraneo della casa discografica era illuminato a giorno, grazie ai neon bianchi accesi su ogni posto auto. L’ascensore ci portò al nostro piano, dove ad attenderci c’era Frank, il nostro manager, con quella sua espressione da milionario ebete stampata in faccia. Ci condusse allo studio di registrazione, adiacente la sala conferenze dove gli alti dirigenti erano ci aspettavano impazienti. Tutti e cinque ci stavamo chiedendo cosa avessimo combinato per scomodare i grandi boss della Musik Records, ma Frank precedette tutti: Il tour in Oriente è andato benissimo, è stato già battezzato come l’evento dell’anno. Arrivano ottime notizie anche dall’Europa dove vi aspettano fra due mesi, quindi ragazzi adesso riposate e godetevi questi scampoli di vacanza.

    Un applauso rumoreggiò tra gli impianti sonori e i nostri strumenti di ripiego, quelli delle prove tanto per intenderci, il clap clap che si generò fu piacevole quanto inaspettato. E bravo Frank, ci organizzi anche le sorprese? Dissi tra me e me compiacendomi per quel che stavo osservando: Vi chiedo però un ultimo sforzo, poi vi prometto che vi lascio in pace! Disse posando il flute di champagne ormai vuoto.

    Terry sbottò, simpaticamente: No! Sapevo che c’era la fregatura. Ridemmo tutti, ma Terry credo che ci rimase veramente male. Era seriamente convinto della fregatura, ma cazzo aveva ragione. Terry, fai il bravo, riprese Frank, accendendosi una Camel. Al Museum Stadium, stasera, si tiene una serata di beneficenza. Il sindaco e tante altre celebrità hanno voluto che ad esibirvi foste voi, sapendo che eravate di rientro. Quindi serata organizzata, ed il riposo slitta a domani. Lo staff sta già montando la scena.

    La fregatura era servita su un piatto di platino con brillantini annessi.

    Fanculo Frank.

    Il viaggio era stato lungo ed estenuante. Chi si era riposato, bardato con una benda scura sul volto, chi aveva giocato a carte e chi guardava la tv. Io, non abituato a fare nulla di queste cose, fissavo semplicemente fuori dal finestrino quello che passava sotto i nostri piedi. Mi perdevo a osservare le nuvole bianche e spugnose, le linee sottili che erano autostrade, i mari e gli oceani che mostravano qualche buffetto bianco che erano le onde. La mente girovagava vacanziera, senza alcuna meta, trovando un po’ di riposo. Eravamo comunque tutti stravolti e volevamo andare a casa a stenderci e riposare, annegare nella vasca da bagno piena di schiuma di sapone, comprare una pizza e mangiarla direttamente dal cartone, mentre si guardava la partita di basket. C’erano i Lakers, stasera, dannazione.

    Il Museum era uno degli stadi più capienti di Los Angeles, e osservare gli spalti vuoti trasmetteva malinconia. Ma sarebbe stato vuoto ancora per poco. Il palco era già montato, e i tecnici dei microfoni e delle luci erano già all’opera per sistemare tutto come era a Tokyo, qualche sera fa. Se non ci fossero loro, non avremmo motivo di esistere e di realizzare i sogni di chi paga, profumatamente, per ascoltarci. Sempre sotto pressione, attenti a non commettere mai un errore e se dovesse avanzare una sola vite, cazzo, bisogna ribaltare tutto il palco e gli impianti fino a trovare il foro aperto.

    Una volta è successo e non so chi mi avesse avvertito, ma se non avessero trovato quel foro avremmo corso il rischio che l’impalcatura che regge le luci ci crollasse addosso nel bel mezzo dell’esibizione. Pericolo scampato e siamo ancora qui, a martellare musica nelle orecchie di chi ci vuole male, ma fortunatamente anche nel cuore di chi ci ama.

    I camerini erano già stati montati e la disposizione era quella di sempre. Il mio resta sotto il palco, per potermi agevolare nei cambi d’abito, per sparire durante un assolo e andare a bere qualcosa di caldo nelle sere fredde e umide. La mia gola deve essere perfetta e non posso permettermi che nel bel mezzo di una canzone mi crolli la voce e resti in silenzio. La gente sotto il palco paga per sentirci dal vivo, altrimenti se ne starebbe a casa a mettere un disco, non trovate? Devo, anzi dobbiamo, essere impeccabili e perfetti. Lo dobbiamo a loro, ai nostri ragazzi.

    Me ne stavo nel camerino, quando il fisioterapista entrò per sistemare le bende sulle caviglie. Presi una brutta storta, da piccolo, e in queste giornate fredde sento la caviglia che scricchiola. Il massaggiatore mi rilassa i muscoli della schiena e del collo sempre sotto sforzo a ogni concerto, saltando come un grillo e correndo come un cavallo pazzo su e giù dal palco. Infine, il maestro di canto controlla lo stato della voce, sottoponendola ad alcuni esercizi, solfeggi e acuti lanciati al muro.

    Non sono in pace nemmeno in fase di preparazione, quando dovrei concentrarmi e parlare con me stesso sulla programmazione dell’esibizione, fumandomi una sigaretta rilassato.

    La gente stava ancora affluendo numerosa, i vip nelle poltroncine designate fronte palco, i fans abituali ammassati l’uno sopra l’altro tra gli spalti e sul resto del campo da gioco, rigorosamente coperto da un telo. Il vociare che giungeva sino ai camerini era musica per le mie orecchie, i dj suonavano i nostri brani a un volume tale che il divano su cui ero steso mi faceva da vibromassaggiatore. Quel vociare seguiva il brano come se facesse parte di esso, ogni pausa, ogni acuto. Steso sul divano, avevo i brividi per quello che avevamo creato e a ogni concerto me ne rendevo conto, stupendomi ogni volta.

    Bussarono alla porta per avvisarmi che era ora di cominciare: Ok, si va in scena, mi dissi riflettendomi allo specchio. Legai con un elastico i capelli castani, buttai fuori un sospiro e spalancando il battente diedi inizio alle danze.

    La gola era ancora avvolta nell’asciugamano di spugna rosso, quando vidi il primo componete entrare in scena: il batterista che deve segnare il tempo. Manny si stava posizionando, battendo sui suoi rulli quando Andy comincia a seguirlo con il basso. Si comincia a riconoscere il pezzo, ma con le chitarre di Terry e Kris il pubblico esplode. Resto ancora nascosto, tenendo il ritmo con il piede nel buio lontano dai riflettori, per comparire alla nota giusta.

    Frank era dietro le quinte che dava indicazioni o solo per godersi lo spettacolo. Gli passai la spugna rossa, serrai gli occhi rivolti al cielo e corsi sul palco.

    Follia allo stato puro. Le luci che mi rincorrono, gli occhi dei fanatici anche, e noi che suoniamo come sappiamo fare, sempre meglio.

    Lo spettacolo durò circa due ore, tra ballate suadenti e rock pesante. Al temine il sindaco per onorare la nostra presenza, o per raccogliere ancor più dollari, diede il via a uno spettacolo pirotecnico. Il cielo, che si stava pulendo dalle nuvole lasciando spazio a una timida luna, si illuminò di scintillanti stelle cadenti infuocate multicolore, che si sarebbero spente ancor prima di toccare il suolo. L’effetto riflesso nell’oceano era bellissimo.

    Bravi ragazzi, disse Frank fermandoci nel corridoio che portava ai camerini. Quando siete pronti, andiamo al Rainbow. Sorpresa!

    Il disappunto che gli sbattemmo in faccia era evidente: Frank siamo distrutti, vogliamo andarcene a casa, lamentò Kris.

    Avevi detto che dopo il concerto saremmo stati liberi, fece eco Manny.

    Ragazzi non mi costringete a fare la spia, piagnucolò il manager. Hanno organizzato una festa in vostro onore.

    Chi avrebbe organizzato questa festa? Chiesi con aria di sufficienza.

    Lo staff, chiamando al rapporto i vostri amici. Non potete dare forfait, ci convinse, lasciandoci il tempo di levare gli abiti di scena e di darci una rinfrescata nel bagno dei camerini.

    Il Rainbow è il locale che ci ha adottato quando abbiamo cominciato a strimpellare qualche cover, anni fa. Ci ha visto crescere, ci ha dato i natali e mi spiace che venga considerato un luogo turistico per chi viene in città. Il locale non è grandissimo ma ha una bella acustica per essere al chiuso e avere un palco formato mini rispetto al nostro.

    Quando entrammo, le luci erano completamente spente. Ci inchiodammo all’entrata per evitare di inciampare nel gradino appena oltre la porta. Un faro blu ci riprese nel momento in cui ci stavamo domandando cosa diavolo stesse succedendo, uno speaker ci presentava come il gruppo ospite della serata, perché quella serata sarebbe stata tutta nostra.

    Due ali di folla ci fecero passare per raggiungere il nostro tavolo, vicino alla zona fumatori, stringendo mani e battendo spalle a vecchi amici venuti per l’occasione. Mi stupii nel vedere mia sorella Julie, che non vedevo da tempo e che sapevo non apprezzare certi posti. L’abbracciai scherzando sul fatto che lei fosse lì, come se stessi per morire, che tutta quella gente era lì per noi come se non ci avessero mai più rivisto. Invece stavano semplicemente festeggiando, insieme a noi, il successo che stavamo ottenendo dopo che tante case discografiche ci avevano sbattuto le porte in faccia. Diversi pub ci dicevano che non avevamo un futuro e che eravamo destinati a restare delle mezze seghe. Desidererei incontrarli uno a uno e con la grazia che mi contraddistingue mandarli gentilmente a fanculo e godermi la loro faccia.

    Lo champagne francese abbondava nei flute e, dove non arrivavano le bollicine europee, si continuava con birra e rum. EsTy con la sua band ci dedicò qualche pezzo, insieme ai ragazzi dei FuckMetal, grandi amici di Terry. La serata era perfetta, filava liscia come l’olio, eravamo sul tetto del mondo e non intendevamo scendere.

    L’alcool cominciava a fare effetto, c’era gente che vomitava e che si lanciava addosso noccioline, Manny era stramazzato sul divanetto e ronfava come mia nonna dopo l’aerosol. Kris e Andy si divertivano con delle spogliarelliste invitate alla festa, io e Terry intrattenevamo tutti coloro che si presentarono di fronte a noi. Pubbliche relazioni, i due leader non devono mai abbassare la guardia, diceva spesso Frank.

    Il locale era colmo anche di gente mai vista prima d’ora, ma da come si atteggiavano con i ragazzi della band, credo fossero degli spacciatori di roba buona. Era un male che non avevo ancora debellato nel gruppo, ma ci stavo lavorando con il supporto di Frank. Fortunatamente Manny dormiva, altrimenti la prima dose sarebbe stata certamente la sua.

    Vedevo quei tizi passare delle bustine nelle mani di Kris e lui pagarli con denaro contante. Ecco dove vanno a finire i soldi dei diritti d’autore, pensai disgustato.

    Terry si defilò in bagno dove, nascosto da occhi indiscreti, andò a sniffare. Me lo vedevo in ginocchio di fronte alla tavola del cesso abbassata, per fare da appoggio, lui con un bancomat in mano a prepararsi la striscia. Una banconota da cento, già rollata, era infilata in una narice e vroom, via alle danze.

    Anni fa Kris mi fece provare. Cazzo sono stato male per un giorno intero, oltre al fatto che non mi ricordo un beato niente. Mi sono risvegliato con il naso che bruciava, la narice dove avevo sniffato era di un rosso acceso e le tempie pulsavano. Posso dirvi sinceramente che quegli effetti che tanto acclamano, sono tutte stronzate. Ti senti padrone del mondo, non appena ti entra in circolo quella merda, anche perché vieni sobbalzato in un mondo parallelo distante anni luce da quello reale. Finito l’effetto, però, ti rendi conto di aver percorso un viaggio senza ritorno. Il mondo dov’eri era perfetto, perché creato dalla tua psiche, senza problemi e senza cazzi e mazzi. Dovevi solo capire che se volevi appartenere a quel pianeta bianco, il prezzo da pagare era esageratamente alto. Lucidità, menefreghismo e se ci andavi pesante anche la stessa vita.

    No, grazie, non fa per me. Io mi accontentavo di qualche spinello, tanto che i ragazzi mi guardavano come lo sfigato della scuola. Fatti miei, rispondevo alle loro occhiate.

    Le prime luci dell’alba mostravano lo schifo lasciato dagli invitati nel locale, senza considerare Manny che dormiva ancora sul divano. Erano le sette, quando barcollando mi diressi verso la macchina per andare finalmente a casa a dormire. La fragranza che mi portavo addosso era nauseabonda: alcool e sudore miscelati davano un puzzo ripugnante. Devo fare una doccia, se riesco a centrare il bagno, urlai all’ingresso del locale, ridendo come un deficiente. Chissà che immagine bislacca si stavano godendo i passanti.

    Sulla porta d’entrata, un manifesto indicava che la sera stessa si sarebbe esibito Nick Treeworch con la sua band, i Dirty Boys. Imprecai contro qualcosa, e sparii dietro la portiera, chiedendo all’autista di non andare veloce, altrimenti avrei rischiato di vomitare.

    Io e Nick una volta eravamo amici, ottimi amici. Ci sentivamo spesso, ci davamo consigli e ridevamo delle stronzate che leggevamo sui giornali che ci volevano sempre uno contro l’altro. Ricordo ancora le risate che ci siamo fatti al telefono dopo che un giornale aveva sbattuto in prima pagina una rissa che ci vedeva protagonisti, a Boston. Peccato che io ero a Las Vegas per una serata e lui a casa con la moglie.

    Ma il fato diede loro ragione.

    Una sera, un anno fa circa, eravamo al Troubadour, un posto simile al Rainbow. Frank disse che il titolare, che compiva gli anni, aveva insistito perché ci esibissimo con qualche pezzo. Al nostro tavolo, con le nostre birre, vidi Nick entrare e lo invitai a sedersi con noi. Ci divertimmo molto e ci ubriacammo come vecchi compagni di scuola. Sotto l’effetto di alcool, impugnando una penna, cominciai a scrivere delle parole sui tovagliolini posti sul tavolo. Bevevo e scrivevo.

    Le parole fluivano senza senso, non ero molto presente, scrivevo quello che mi passava per la mente e le parole si adagiavano su quei foglietti, come impresse sul marmo. Il mio corpo decise che aveva avuto troppo alcool per quella sera e crollai sul tavolo, addormentato come un bambino, lasciando scivolare la penna che sfidando la pendenza del tavolo, cadde a terra.

    Al mio risveglio cercai quei foglietti, insultando le donne delle pulizie e accusandole di aver gettato al vento una hit certa. Corsi a casa e, rinchiuso nel mio studio, feci mente locale sulle parole che avevo scritto. Non che me le ricordassi tutte, ma il ritornello che diceva di dormire su della sabbia bagnata in attesa del mare che venisse a cullarti e baciarti, me lo ricordavo bene. Scrissi quel che ricordavo e misi quelle parole in un cassetto, in attesa della nota perfetta per l’attacco e di riassettare le idee per terminare il pezzo.

    Passarono mesi, quasi dimenticai quel cassetto, quando alla radio trasmettono il nuovo singolo di Nick. Mi trovavo in macchina, alzai il volume per ascoltare meglio, nel tentativo di trovare una sbavatura da sbattergli in faccia quella sera, tanto per punzecchiarci un po’.

    La musica era dolce, la voce di Nick era graffiante e suadente, ma mi sembrava di conoscerla. Più il pezzo proseguiva, più mi sembrava di averla già sentita. Non è una cover, pensai, canticchiando il motivo. Come facevo a canticchiarla, non potevo conoscerla? Ma giunto il ritornello, che parlava della sabbia bagnata, capii tutto e mi tornò alla mente dove avevo sentito quella canzone. Frenai bruscamente per fare inversione e tornare a casa, aperto il cassetto dello studio trovai la mia canzone scritta quella sera al Troubadour.

    Brutto figlio di puttana! Urlai, battendo il pugno sul pianoforte. Non potevo fare nulla, era la mia parola contro la sua. Poteva tranquillamente dire che quei foglietti li avevo scritti dopo aver sentito la radio, o ancor peggio che Nick li aveva raccolti dalla spazzatura. Avevo le mani legate, e il colpo accusato mi fece diventare più stronzo di quanto già non fossi, a partire da lui.

    Da quel giorno non gli rivolsi più la parola, etichettandolo in pubblico come il fotti - canzoni, senza dare spiegazioni a nessuno sbraitando che se le avessero volute, di andare a chiederle direttamente a lui. Mi aveva fatto male, era un amico e mi fidavo di lui. Se aveva bisogno di ispirazione o di un aiuto, bastava chiederlo, non mi sarei tirato indietro.

    Ma pugnalarmi alle spalle così, era imperdonabile.

    Los Angeles, martedì 10 gennaio

    Neve. Quest’inverno intendeva seriamente stupirci. Raramente ho visto Los Angeles imbiancata, ma lo spettacolo naturale che si creò fu strabiliante. Il cielo era di un chiarore allarmante, i batuffoli di cotone ghiacciato scendevano silenziosi, ovattando i rumori cittadini. Ecco come mettere il silenziatore a questa città, esordii, sdraiato sul divano a guardare la partita dei Lakers.

    Sgranocchiavo pop corn e mi godevo i tiri da tre punti, i passaggi filtranti e tenevo d’occhio il cronometro. Dai passa! Dicevo alla televisione accesa nella speranza che il giocatore mi potesse sentire mentre indicavo il compagno di squadra libero da marcature.

    Riconosco che il fanatismo per questo sport è eccessivo, ma è l’unica espressione di normalità e di distrazione che posso concedermi, senza andare allo stadio.

    Le mie giornate trascorrevano nella monotonia che contraddistingue la gente comune, che spesso invidiavo.

    All’alba mi alzavo per sfidare il freddo e fare la mia corsetta di una decina di chilometri, preferibilmente sulla spiaggia, con il mare scuro che rumoreggiava, infrangendosi ai miei piedi. Con me i miei cani a farmi da scorta.

    Il bar vicino al parcheggio dove lasciavo l’auto mi faceva trovare la mia colazione preferita, essendo un cliente abituale non mi chiedevano più l’ordinazione, e il barista si autogestiva. Una tazza di caffè nero, uova e pancetta, e succo d’arancia. Premuroso, faceva trovare dell’acqua per i cani, che assetati dondolavano la lingua fuori dalla loro bocca spalancata.

    Tornavo a casa a metà mattina e le donne di servizio erano indaffarate nelle pulizie di casa, come se avessi dato una festa la sera precedente. Non capivo perché si dannassero così tanto a pulire tutte le stanze, ogni santo giorno. In casa c’erano locali che venivano adoperati di rado, ma loro imperterrite li lustravano quotidianamente.

    Buongiorno signore, desidera qualcosa, mi chiedeva Maria. La risposta era sempre quella, ma lei continuava a chiedere sperando che un giorno le avrei risposto che poteva rendersi utile in qualche altro modo.

    Salite le scale, mi rintanavo in camera per preparare il bagno caldo che mi attendeva dopo la piccola maratona. L’accappatoio era già deposto al fianco

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