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KRUGÄN - Il guerriero, il mago e il cacciatore
KRUGÄN - Il guerriero, il mago e il cacciatore
KRUGÄN - Il guerriero, il mago e il cacciatore
Ebook428 pages6 hours

KRUGÄN - Il guerriero, il mago e il cacciatore

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About this ebook

Duemila anni dopo la Guerra delle Razze, il continente di Harith si è risvegliato in un’epoca buia. Voci di guerra corrono dalla Contea di Meltar: la famiglia dei Conti è caduta, una setta di fanatici ha preso il potere instaurando un regime di terrore, e ora brama la conquista delle altre Contee della confederazione. In questa terra leggendaria e maledetta, fatta di sospiri, lamenti e speranze, travolta dalla guerra e in balia del veloce susseguirsi di eventi, sta per accadere qualcosa, qualcosa di terribile, qualcosa di dimenticato…
http://www.krugan.org
LanguageItaliano
PublisherL. A. Beaver
Release dateNov 12, 2012
ISBN9788867553273
KRUGÄN - Il guerriero, il mago e il cacciatore

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    KRUGÄN - Il guerriero, il mago e il cacciatore - L. A. Beaver

    dimenticato…

    CAPITOLO 1°

    LA PARTENZA DI UN AMICO

    Lear non è più nel suo letto; la sua camera, la sua casa ad Aster sono ricordi lontani: ora sta passeggiando in un boschetto, l’atmosfera è tranquilla e la giornata è splendidamente soleggiata. Il vento passa tra le foglie dei platani e dei pioppi, portandone il fruscìo nella tiepida aria pomeridiana, già rallegrata dal canto di qualche cardellino. È un posto meraviglioso, sente che potrebbe passare lì il resto della sua vita, in pace con se stesso e con il mondo. Poi però sente che c’è qualcosa di strano, qualcosa che stona con il paesaggio: forse è l’improvviso tacere dei rumori del bosco, che crea quella fastidiosa tensione nell’aria, o forse è quella colonna di fumo che s’intravede verso sud, attraverso il fogliame degli alberi… Lear inizia a correre in direzione di quella colonna… ogni volta che la guarda sente un pesante senso d’angoscia: vorrebbe evitarla, ma le gambe sembrano muoversi da sole, e non sa spiegarne il motivo. In un battito di ciglia non è più giorno ma notte, al fumo si sono mescolati i bagliori di un incendio; Lear s’inoltra nella boscaglia e finisce in una radura. Nella piana erbosa è sdraiato un uomo, è moribondo e lo sta invocando: «Salvateci… salvateci vi prego… siete la nostra unica speranza!». Lear si ferma, vorrebbe aiutarlo, ma non sa cosa deve fare.

    «Guarda… guarda che cos’ha fatto alle nostre terre…» continua a dire quell’uomo con gli occhi gonfi di orrore.

    «Chi?»

    «Lui…» l’uomo, sforzandosi più che poteva, allunga il braccio indicando un punto indefinito verso l’alto, Lear si gira: il bosco non c’è più, un villaggio distrutto ha preso il suo posto, la piana erbosa è divenuta arida, spoglia e polverosa, tutt’intorno terre bruciate e bestiame sbranato. Al centro del villaggio si erge una figura mostruosa, demoniaca, alta come due comuni uomini, due enormi corna spuntano dalla sua testa, e una folta criniera cade sulle sue spalle fino metà schiena; tutta la sua espressione animalesca e i suoi occhi iniettati di sangue lasciano intravedere un’insaziabile furia devastatrice. Un tremito attraversa il corpo di Lear: lui l’ha già visto, ha già visto quel mostro sanguinario… allontana lo sguardo da quell’essere, ma appena si volta si accorge, con una stretta al cuore e un urlo bloccato in gola, che stava sorreggendo uno scheletro. Si alza di scatto, vorrebbe scappare, ma anche stavolta le sue gambe non obbediscono, rimanendo incollate al suolo. Una voce tenebrosa, come scaturita dalle profondità della terra, lo raggiunge tuonando: «Non mi sfuggirete… non mi sfuggirete!».

    Con il cuore in gola e la fronte imperlata di sudore, Lear si alzò all’improvviso dal suo giaciglio, ansimando. Aspettò qualche istante, giusto il tempo di rendersi conto di essere nella sua camera, al sicuro.

    «Incubo?» disse Flaber.

    Lear scrutò nella penombra alla sua sinistra, e vide l’amico seduto sul letto con la schiena appoggiata al muro.

    «Sì…» gli rispose.

    «Anch’io ne ho avuto uno… sarà l’indigestione di ieri sera!»

    «Tu che hai sognato?»

    «Mah, una cosa strana, senza senso: prima era giorno e stavo in un bosco,» disse Flaber «poi d’improvviso era notte e stavo in mezzo a un villaggio incendiato e distrutto…»

    «Anch’io lo stesso! E poi i cadaveri, e le persone che ti chiedono aiuto…»

    «Che ti chiedono aiuto…» disse contemporaneamente l’altro «abbiamo fatto lo stesso sogno!»

    «Già! Che strano… ed era così reale!» disse Lear lasciandosi cadere sul letto. «Desolazione, morte e disperazione… era così vero… anche il mostro!»

    «Il mostro?»

    «Sì! Quella specie di demone cornuto, alto, grosso come una montagna… non lo hai visto?»

    «No… solo il villaggio distrutto e i suoi abitanti massacrati, nient’altro.»

    «Ecco, nel mio sogno c’era anche un mostro che distruggeva tutto ciò che lo circondava. Un mostro che mi pare d’aver già visto da qualche altra parte, forse su vecchi libri, o non so dove…»

    «Quindi non era proprio lo stesso sogno.»

    I due stettero un po’ in silenzio, al buio.

    «Sarà ora di alzarsi?»

    «Penso proprio di sì.»

    «Stamattina devo tornare subito a casa per fare i bagagli… stasera parto per Dor, devo ancora raccogliere tutte le mie cose…» disse quasi sottovoce Flaber.

    «Chi va ad aprire la finestra?» chiese l’altro, che però non ricevendo risposta concluse con un: «Vabbè, ci vado io!».

    Cercò di alzarsi dal letto, ma dopo due tentativi si ributtò fra le coperte.

    «Uff! Sono ancora rintontito da ieri…»

    «A chi lo dici, la festa di ieri sera mi ha distrutto!»

    «Ed è stata una gran bella festa, mi sono proprio divertito!»

    «E te la sei meritata tutta! Peccato, sarebbe stato meglio farla dopo aver ricevuto il diploma…»

    «Già, ma tu non ci saresti potuto essere. Quindi va bene così!»

    Con enorme fatica i due amici si alzarono e aprirono la finestra. Il sole diede il buongiorno invadendo la stanza con i suoi raggi. I due sistemarono i letti e scesero in cucina, dove la madre di Lear era affaccendata a rimediare al disordine della sera prima.

    «Ci sono i dolci avanzati da ieri sera! Fate colazione con quelli…»

    «Il latte?» chiese Lear.

    «Il latte è lì in quella pentola a riscaldare… dovrebbe essere pronto… vedete voi come vi piace!»

    Lear prese un cucchiaio e assaggiò il latte, poi riempì due tazze e le mise sul tavolo.

    «Allora sei di partenza?» chiese la madre.

    «Sì, infatti devo correre a casa subito dopo colazione.»

    «Peccato per l’accademia… eri a un passo anche tu dal diploma…»

    Lear lanciò un’occhiataccia alla madre per aver toccato l’argomento, ma lei fece finta di niente.

    «Gli affari non andavano tanto bene alla bottega di mio padre… l’Accademia delle Armi è stata una scelta sbagliata… ora darò una mano a mio padre, sperando che gli affari a Dor siano migliori» rispose Flaber addentando un pezzo di crostata alle more. In realtà all’accademia ci teneva, ma ormai si era rassegnato ad andare via con i genitori, e quello era un modo per digerire la cosa.

    Dopo aver finito la tazza di latte e aver ripreso una fetta di crostata, Flaber si alzò.

    «Io allora vado!»

    «Aspetta, aspetta,» disse la madre di Lear «fatti salutare come si deve!» quindi lo abbracciò come se fosse suo figlio.

    «Salutami i tuoi, fate buon viaggio! Se volete qui c’è sempre la porta aperta per voi.»

    Flaber ricambiò i saluti e andò a prendere la sua giacca di cuoio che aveva lasciato all’ingresso. Lear lo raggiunse sulla porta.

    «Passo all’ora di pranzo a salutarti, ti trovo?»

    «Sì, sì!»

    «Allora ci vediamo più tardi!»

    Flaber attraversò il cortile e sparì nei vicoli della città.

    – Ho tutta la mattina… – pensò Lear – dove ho messo quella conchiglia? – Rientrò di tutta fretta in casa sbattendo la porta.

    «Fai piano! Un giorno o l’altro la rompi!» gli gridò la madre dalla cucina, ma lui non ci fece caso, essendo l’ennesima volta che glielo diceva. Attraversò di corsa il salotto, salì a due a due gli scalini arrivando al secondo piano, quindi raggiunse finalmente la sua camera. Iniziò a mettere sottosopra l’intera stanza, frugando in ogni cassetto e dentro ogni mobile, da cima a fondo. La confusione era ormai al limite del sopportabile, quando rassegnato uscì dalla stanza e si affacciò alle scale:

    «Mamma, dove ho messo quella conchiglia?»

    «Quale conchiglia?» rispose sua madre, che raggiunse le scale per sentire meglio.

    «Quella tutta bianca, che avevo trovato sulla spiaggia a Sadia cinque anni fa!» aggiunse Lear.

    «Non l’avevi messa nella scatola sopra il camino?» chiese.

    «Ma certo… che stupido! Grazie.»

    Lear scese in salotto, afferrò una scatoletta di legno di quercia appoggiata sul davanzale del camino, quindi l’aprì:

    – Eccola! –

    «Ma non devi andare a scuola per ritirare il diploma?» disse la madre ad alta voce, sempre dalla cucina.

    «Sì, sì, non ti preoccupare… faccio una cosa e vado!» rispose lui un po’ seccato.

    Prese la conchiglia rimise rapidamente la scatola al suo posto, e tornò subito in camera sistemandosi sul tavolo. Lì, con un lavoro minuzioso e aiutandosi con un coltello, incise una lettera sul dorso della conchiglia, che era delle dimensioni di una nocciola, quindi vi fece un buco nel quale infilò un anellino. Aprì uno dei suoi cassetti e, cercando di farsi strada nella confusione che aveva creato poco tempo prima, prese un laccio di cuoio nero, lo infilò nell’anellino e unì le due estremità. Dopo aver ammirato per un po’ di secondi il buon lavoro che aveva fatto lo mise delicatamente in un sacchetto di velluto rosso, che si mise in tasca; soddisfatto scese allegramente al piano terra:

    «Mamma, vado a scuola» disse affacciandosi alla porta della cucina.

    «Va bene, torna presto, mi raccomando, e non ti fermare come al solito alle bancarelle del mercato» rispose la madre sospendendo le sue faccende.

    Il ragazzo prese il suo mantello e s’incamminò per le vie della città.

    Aster era la grande capitale della Confederazione delle Tre Contee, nata 553 anni prima, in seguito alla sconfitta di un mostro demoniaco che aveva sconvolto i governi dell’epoca devastando il pianeta. Situata all’imboccatura della Valle del Gillon, era attraversata dal fiume omonimo. Proprio sulla sponda est del fiume nella parte nord della città sorgeva la Scuola di Magia Gilean a cui era iscritto Lear. Lear Swansea, questo il suo nome intero, era stato iniziato alle arti magiche a nove anni e, dopo altri nove anni di studi e di esercitazioni passati in quell’edificio, quella era l’ultima volta che vi entrava da apprendista.

    – Dopo tutti questi anni, mi sembra di vedere questo posto per la prima volta – pensò Lear varcando la soglia eccitato.

    Salì i cinque scalini che portavano al piano terra dell’edificio, che era rialzato rispetto al livello della strada; l’atrio era pieno di studenti come al solito, che chiacchieravano prima che iniziassero le lezioni. Avanzò un po’ a rilento fermandosi di tanto in tanto a salutare compagni e amici, fino ad arrivare nel salone principale, dove una grande vetrata proiettava sul pavimento uno scarabeo cerchiato e tre parole: Conoscenza, Equilibrio e Controllo. Qui gli si parò davanti uno studente, alto quanto lui, capelli corvini mossi, lunghi fino alle spalle; un particolare che saltava subito agli occhi erano le sue braccia coperte da cicatrici di ustioni, particolare che quel ragazzo non faceva nulla per nascondere, ma che anzi ostentava come un’effigie. Dietro di lui altri tre ragazzi lo spalleggiavano assecondandolo.

    «Ecco qui lo studente modello!» disse il ragazzo «dov’è che vai così di fretta?»

    «Vâlen, oggi non ho voglia di litigare, e nonostante tutto il tuo impegno non riuscirai a rovinarmi questa bella giornata» disse Lear cercando di sorpassarlo, ma lui gli si rimise davanti bloccandogli la strada.

    «Se ti sei diplomato prima di me non significa che sei migliore di me! C’è stato un piccolo contrattempo che mi ha rallentato…» disse mostrando le mani «posso umiliarti in qualunque momento!»

    «Non posso né voglio fare una sfida con te, non capisco questa tua voglia di confronto, sono anche in ritardo.»

    «Uuuh, il coniglio ha paura…» continuò Vâlen mettendosi sempre davanti a lui. «non pensavo che anche i conigli frequentassero questa scuola!» concluse sghignazzando, seguito a ruota dagli altri tre compari.

    «Pensa, io credevo che non prendessero neanche i porci, ma ne vedo quattro qui davanti a me!» rispose a tono Lear, e quelli smisero subito di ridere.

    «Ritira subito quello che hai detto, pulce, o ti ritroverai strisciando per terra a chiedermi perdono.»

    «A causa del tuo alito pesante?» Questa volta risero gli altri studenti che si erano fermati a guardare la scena.

    «Basta Vâlen!»

    «Siamo stufi delle tue bravate.»

    «Vai a casa!» si levarono cori a favore di Lear.

    «Non pensare di passarla liscia! Non finisce qui… ti aspettiamo fuori» disse Vâlen mentre si allontanava, rosso di vergogna per l’umiliazione verbale subita.

    Lear dimenticò subito il diverbio e uscì dal salone, prese le scale che stavano subito sulla destra; salì fino al secondo piano, fissando di tanto in tanto volti degli studenti che incrociava e che probabilmente non avrebbe più rivisto. Entrò nel corridoio a destra, lo studio del suo maestro si trovava in fondo: DEREK c’era scritto sulla porta; bussò, timoroso di disturbarlo. La porta si aprì, e apparve il suo maestro, che lo abbracciò come se fosse stato suo figlio, poi lo fece entrare: nella stanza erano presenti altre tre persone, sedute alla scrivania di Derek, e con un rapido sguardo Lear riconobbe che erano i maestri degli altri corsi della scuola.

    «Lear…» disse Derek «è giunto al termine questo tuo nono anno di apprendistato, e hai superato brillantemente la prova: è arrivato il momento di salutarci…» Il maestro prese in mano un vecchio libro, che però sembrava appena rilegato: «Questo lo conosci bene, è il tuo grimorio: qui sono scritti tutti gli incantesimi che e hai appreso durante tutti questi anni; l’ha sempre tenuto in consegna la scuola, ma ora è giusto che lo tenga tu. Ricorda che è una parte di te, e senza di lui vali meno di niente».

    Lear era senza parole, da molto aspettava questo momento, e l’emozione gli bloccava ogni movimento. Con delicatezza prese il libro tra le braccia e accarezzò fugacemente la copertina che racchiudeva anni di ricordi e incantesimi, poi la costa ruvida delle pagine, e in quelle pagine vide il primo giorno di scuola, accompagnato da sua madre; vide tanti errori e tante vittorie; aveva tra le mani una fetta della sua vita. Abbracciò il suo maestro, poi andò a stringere la mano agli altri tre.

    «Da questo momento entri a far parte dell’ordine dei maghi, non tutti riescono a superare l’esame: adesso potrai accedere alla ricerca personale e all’apprendimento di incantesimi di livello superiore.» disse il primo.

    «Mantieni sempre il controllo, la magia deve essere in sintonia con il corpo e la mente, ma soprattutto sii sempre consapevole dei tuoi limiti.» disse il secondo.

    «Conoscenza, Equilibrio e Controllo. Porta sempre con te il motto della nostra scuola» disse l’ultimo consegnandogli una veste verde con ricamato in bianco lo scarabeo cerchiato, simbolo della scuola. Il nuovo mago indossò la veste, e si congedò. La porta si richiuse dietro di sé, e lasciandosi alle spalle un sacco di ricordi, corse verso le scale e le discese quasi volando. Arrivato al piano terra si imbucò di nuovo nel flusso di ragazzi che cambiava aula o che si dirigeva ai laboratori, o che semplicemente era rimasto a chiacchierare nel salone, e proprio lì si ricordò tutto d’un tratto che sicuramente davanti all’entrata principale lo stava aspettando Vâlen. Non che avesse paura di lui, ma quello per lui era tutto suonato e non ne valeva la pena mettersi a gareggiare con lui, quindi optò per il piano d’emergenza.

    – Dopo nove anni passati qui, questo edificio no ha più segreti per me! – pensò orgoglioso – userò il vecchio passaggio sotterraneo…

    Tornò alle scale e scese nel seminterrato, prese una chiave dentro un cassetto di una vecchia scrivania abbandonata nel sottoscala, e aprì la porta che aveva davanti. Entrò in un vecchio stanzone pieno di polvere e robe vecchie, puntò dritto verso un particolare armadio con scaffali mezzi vuoti, lo spinse di lato rivelando dietro di esso una porta. L’aprì, e la varcò, quindi da dietro rimise il mobile al suo posto e richiuse la porta. Completamente al buio, percorse a tastoni il corridoio che passava sotto la strada fino a raggiungere un’altra porta, che aprì dopo aver trovato alla cieca la maniglia.

    Dietro la porta trovò subito una scalinata in penombra che lo portò al piano terra dell’edificio abbandonato dietro la scuola. Raggiunse una porta semichiusa da una catena con un lucchetto, che contorcendosi riuscì a superare, e arrivò in un giardino incolto, lasciato a se stesso ormai da tempo. Lo attraversò giungendo sotto il muretto di cinta, sufficientemente basso da poterlo scavalcare senza troppa difficoltà, quindi in poco tempo si ritrovò in strada.

    Pensando a Vâlen che lo avrebbe aspettato davanti alla scuola per chissà quanto tempo, s’incamminò allegramente sulla via di casa. Passò per la piazza del mercato, e incurante delle raccomandazioni della madre, si fermò a guardare le bancarelle. Il mercato aveva avuto sempre un forte potere attrattivo verso di lui: tutta quella merce e quelle chincaglierie, amuleti, portafortuna, attrezzi, e armi arrivate da ogni parte del continente e forse da tutta Arset, gli facevano brillare gli occhi, e perdeva il senso del passare del tempo, mentre si soffermava, bancarella per bancarella, ad esaminare quegli oggetti, fantasticando per ognuno di essi una storia che lo rendesse particolare.

    Quando si accorse che era trascorso troppo tempo, iniziò a correre tra la folla e, uscito dalla piazza, per le vie della città: era quasi l’ora di pranzo e aveva un appuntamento da non perdere. Animali, persone, palazzi scorrevano indistintamente di fianco a lui, e non si fermò finché arrivò davanti alla casa di Flaber: non aveva più fiato. Si riposò un attimo, si concentrò, prese il ciondolo che aveva preparato quella mattina e, stringendolo tra le mani, gli trasmise un incantesimo di protezione.

    Un delicato soffio di vento gli scompigliò i capelli, e in un attimo pensò all’estate che era appena finita. Ora Flaber sarebbe andato a vivere a Dor e forse non l’avrebbe più rivisto: era per questo che aveva deciso di dargli qualcosa di suo in ricordo. Arrivò un secondo colpo di vento più deciso in cui sentì odore di pioggia.

    – Mi conviene sbrigarmi o mi bagnerò! – pensò guardando il cielo che si stava pericolosamente annuvolando.

    Si avvicinò alla porta, e notò che l’ingresso della bottega era chiuso e sbarrato, un cartello con un messaggio era appeso a fianco, ma da dove era lui non si riusciva a leggere cosa vi fosse scritto.

    Bussò.

    Poco dopo la porta si aprì e dietro di essa apparve la madre di Flaber, che dopo averlo fatto entrare, andò a chiamare il figlio.

    «Scusami se ti lascio da solo, ma ho ancora molto lavoro da fare…» gli disse allontanandosi.

    «Sì, sì, non c’è alcun problema!» rispose lui.

    Percorse il corridoio fino alle scale, dove lo raggiunse Flaber arrivando di corsa dalla sua stanza.

    «Ciao!» disse abbracciandolo. «Quel vestito è quel vestito?» gli chiese sapendo già la risposta.

    Lear confermò subito con un cenno della testa. «Questa è la divisa della mia scuola.»

    «Ti sta proprio bene! Ora potrai sbizzarrirti con la magia… sento che le tue gesta arriveranno fino alla contea di Meltar.»

    «Già, già!» raccogliendo un po’ di coraggio Lear arrivò subito al punto. «Senti, Dor è lontana da qui… vorrei che rimanessimo lo stesso in contatto…» disse frugandosi le tasche della tunica con cui non aveva ancora dimestichezza.

    «Certo, se vuoi qualche volta viemmi pure a trovare e…» gli rispose Flaber.

    «Tieni, questo è per te…» lo interruppe Lear tirando fuori un sacchettino di cuoio, lo risistemò un po’, poi lo diede all’amico. Flaber lo prese in mano, e con curiosità lo aprì e ne esaminò il contenuto:

    «Che cos’è?»

    «Questa conchiglia l’ho raccolta l’anno in cui ci siamo conosciuti: ne ho fatto un ciondolo, così dovunque sarai ti ricorderai di me…»

    «Grazie, grazie veramente…» Flaber non sapeva cosa fare, né tantomeno cosa dire: lui non aveva pensato a una cosa del genere… senza pensarci due volte si sfilò il suo braccialetto, glielo porse.

    «Prendi questo… non l’ho fatto io, ma spero faccia lo stesso effetto del tuo ciondolo.»

    «Lo farà di sicuro.» I due si abbracciarono, promettendosi che un giorno si sarebbero rincontrati.

    «Arrivederci! Buon viaggio!» gridò Lear sperando che i genitori di Flaber avessero sentito.

    «Gren è uscito a preparare il carro, te lo saluto io, Lear» disse la madre affacciandosi al corridoio.

    «Allora… vado…» disse Lear.

    «Non fare quella faccia» disse lei «sono sicura che un giorno ci rivedremo!»

    Lui accennò un sorriso, poi si diresse alla porta e dopo averli di nuovo salutati entrambi, uscì e si avviò lentamente verso casa.

    Una goccia di pioggia lo colpì in un occhio sfuocandogli la vista, un’altra prese la sua testa, poi un’altra e un’altra ancora; si girò per l’ultima volta: Flaber lo stava salutando dalla finestra; lui ricambiò il saluto, poi iniziò a correre senza sapere se quelle che gli rigavano il volto erano lacrime o gocce di pioggia. Flaber rimase a fissare dalla finestra della sua camera la pioggia che scendeva, chiedendosi se un giorno l’avrebbe davvero rivisto. Distolse lo sguardo dal vetro appannato: la sua attenzione fu attirata dall’iniziale del proprio nome incisa sulla conchiglia, esitò un attimo, poi si mise al collo il ciondolo.

    CAPITOLO 2°

    VENTI DI GUERRA

    «Miseriaccia! Ci mancava solo la pioggia!»

    «Dai non prendertela, stasera saremo finalmente a Dor. Siamo al terzo giorno di viaggio: è già tanto che non è piovuto dal primo.»

    «Le parole non servono ad andare più veloci, figlio mio.»

    Il carro avanzava, nonostante fosse rallentato dal fango che occupava tutta la strada. La pioggia dominava tutto il paesaggio intorno e ogni cosa veniva piegata dal lento e inesorabile martellare delle gocce d’acqua; solo i cavalli non sembravano curarsene, continuando a tirare il carro in mezzo alle pozzanghere e alla melma.

    Nel pomeriggio cessò di piovere, e si iniziò a sentire il canto di qualche uccellino, che risuonava limpido nell’aria lavata dalla pioggia; di tanto in tanto si alzava un po’ di vento, e il frusciare delle foglie degli alberi si mescolava armoniosamente alle melodie dei volatili. Anche se il cielo rimaneva nuvoloso, quest’atmosfera rinfrancò i viaggiatori che si tolsero i mantelli che li avevano protetti dalla pioggia; ora si potevano distinguere un uomo, una donna e un ragazzo. Il ragazzo si portò la mano al petto, e strinse tra le dita un ciondolo, i suoi pensieri erano lontani, e cercavano di raggiungere qualcosa di più lontano: una persona… dov’era ora questa persona?

    Un gruppo di soldati fermi sulla strada richiamò la sua attenzione, e non sembravano avere buone intenzioni; fu allora che Flaber, così si chiamava il ragazzo, si pentì d’aver lasciato la sua spada tra i bagagli. Anni di esercizi e di allenamenti all’accademia non servivano a nulla senza quel pezzo d’acciaio, quindi senza dare nell’occhio si avvicinò alle valige, cercando a tastoni la spada e aspettando che i soldati facessero la prima mossa.

    Una grande luna crescente dominava il cielo stellato di Aster, disturbata solo da un gruppo di nuvole sospinte a sud-ovest dal freddo vento dei monti Nabryn. Sdraiato sul letto di camera sua, al chiarore di una lampada a olio, Lear stava pensando a Flaber: dopo cinque giorni che era partito, già sentiva la sua mancanza.

    – Dovrò abituarmi alla cosa… – pensò, tornando poi a immergere i suoi pensieri nelle pagine del nuovo libro di incantesimi sul quale aveva iniziato a studiare. Presto però il sonno prese il sopravvento, la sua testa si adagiò lentamente sul grimorio, che diventò un cuscino di fortuna. Ricordi e pensieri si mescolarono vorticosamente, riaffiorando a turno in un sogno distorto e confuso.

    Lear sta camminando in un lungo corridoio buio, arriva davanti a una porta con su scritto DEREK. – Sono ancora a scuola? – pensa, poi bussa ed entra. Nella stanza ci sono solo due persone girate di spalle, Lear fa qualche passo in avanti ed entrambe si voltano verso di lui. Si ritrova davanti i suoi genitori, che stranamente portano le tuniche dei professori della scuola.

    «Tieni,» gli dice la madre «questo è il grimorio del mio bisnonno Nymous, che a suo tempo era stato un grande mago. È il piccolo tesoro della mia famiglia… fanne buon uso.»

    «Un buon inizio, non trovi?» aggiunge suo padre.

    «È il piccolo tesoro della mia famiglia…» dice la madre. «Era stato un grande mago a suo tempo!»

    «Non l’ho fatto io, ma spero che faccia lo stesso… un buon inizio non trovi?»

    «Uuuh, il coniglio ha paura! Posso umiliarti in qualunque momento» sente dire da dietro di lui. Lear si volta, ma non vede nessuno, e neanche la stanza: vede solo cielo azzurro intorno a lui. Sta volando: non sa se è stato trasformato in un uccello, ma ora sta volando in uno stormo di gabbiani. Lo stormo sta sorvolando una città, una grande città, la sorpassa e si dirige verso il mare, verso il mare aperto a una velocità incredibile: già pensa alle verdi distese erbose della contea di Meltar, alle grandi fattorie disseminate nei suoi territori. Ora sorvola quello che si può definire un campo, un campo di battaglia… ma ci sono state battaglie lì di recente? Ora che lo guarda più attentamente, gli sembra più il luogo di una strage: una decina di persone tra uomini, donne e bambini, giacciono dilaniati, arrossando con il loro sangue il campo della fattoria vicina, data alle fiamme. Intorno ai cadaveri sono facilmente individuabili le impronte di un grosso animale, che sembrerebbe bipede; le tracce si dirigono verso una strada, al lato di questa era piantato un cartello, che indicava la direzione per Dor. Lear rabbrividisce e inizia a volare a velocità folle in quella direzione. Presto si trova sopra a una città completamente devastata, rasa al suolo. Atterra in uno spiazzo, l’odore lancinante di morte impregna l’aria; vorrebbe setacciare tutta la città, ma gli si avvicina un vecchio che gli dice:

    «È a Meltar ciò che cerchi… ciò che cerchi non è qui, non è mai stato qui!»

    Lear annaspa per chiedergli spiegazioni, ma una forte luce lo abbaglia, lo porta via, lontano da quel posto orrendo.

    Un raggio di sole che era uscito a stento a sorpassare una delle persiane della finestra, gli illuminava il volto. Lear infastidito si alzò e si stiracchiò, poi, passandosi le mani tra i suoi capelli scuri, si guardò intorno confuso: una strana sensazione di pericolo gli serrava il cuore… Flaber? Aprì la finestra e le persiane, lasciandosi inondare dalla luce mattutina; si risistemò la veste, prese il grimorio del nonno e lo pose sulla scrivania, poi si sedette per contemplarlo. Appoggiò la mano sulla copertina di cuoio finemente lavorata, poi aprì delicatamente il vecchio libro, sfogliò le prime pagine che aveva studiato ripassandone il contenuto, e si fermò a quella nuova. Annoiato però dalla magia lì descritta, decise di cercare più avanti un incantesimo che desiderava fare da molto tempo. Trovò la magia che cercava a circa metà del grimorio, e gli occhi gli s’illuminarono, impazienti di imparare la magia. Lesse le righe seguendo con gli occhi una ad una le rune scritte sul foglio, concentrandosi unicamente su di esse; dopo aver finito di leggere l’incantesimo, lo rilesse e lo rilesse ancora, finché non visualizzò l’ordine delle rune, e non sentì risuonare in sé la giusta pronuncia di ogni singola runa, e l’esecuzione dei gesti che dovevano accompagnare la formula per renderla efficace.

    Il tempo passò, ma Lear se ne accorse appena: aveva trascorso l’intera giornata a studiare l’incantesimo isolandosi dal mondo che girava intorno a lui. Chiuse il libro, uscì dalla stanza e scese al piano terra; trovò i genitori in sala da pranzo intenti a preparare la cena.

    «Hai finito di studiare? Non ti abbiamo chiamato per il pranzo per non disturbarti» gli disse la madre.

    «Scusate, ma non mi sono accorto che il tempo passava…»

    «Guarda che stasera abbiamo ospiti, quindi cerca di non farci fare brutte figure» disse il padre in modo ironico.

    «Chi viene?»

    «Lancinat» disse la madre proprio quando si sentì bussare alla porta.

    «Questo dev’essere lui» disse il padre andando ad aprire.

    Un grosso uomo robusto entrò nell’ingresso, portava un’armatura leggera di cuoio, con i simboli della guarnigione del settore locale, e i gradi di capitano esposti ben in vista sul suo petto. Un largo mantello blu scuro gli cadeva liscio dalle spalle, ostacolato solo dal fodero della spada, che lo rialzava sulla destra. Il capitano entrò, e tra i saluti di rito fu invitato a sedere a tavola. Un pollo arrosto fumante circondato da patate speziate fu portato in tavola dalla madre di Lear.

    «Che notizie ci porti?»

    «Le guarnigioni dei settori ovest esterni hanno preso quella banda di briganti che infestava le vie per Thyras.»

    «Allora buone notizie!» disse il padre.

    «Purtroppo ci sono anche quelle cattive, mio caro Algres: corrono voci di guerra dalla contea di Meltar, forse una rivolta. Parte dell’esercito di Aster verrà spostato verso il confine…» Viste le facce dei tre che lo guardavano in modo alquanto preoccupato, corresse il tiro «ma non dovrebbe essere niente di allarmante, la situazione si normalizzerà in poco tempo, vedrete…»

    «Sai? Anìa, l’ultima delle figlie di Varon, si sposa a giorni» disse la madre di Lear cambiando discorso.

    «Anìa? Ma è ancora una bambina!» rispose il capitano.

    «Il tempo passa per tutti, Lancinat…»

    «Quant’è vero quello che hai detto, cara Helga, mi ricordo quando…»

    La discussione riprese normalmente, senza toccare più la cattiva notizia, e la serata si concluse magnificamente, ma nonostante le rassicurazioni del capitano Lear in cuor suo non era tranquillo. E quella notte fu tormentato da brevi sogni confusi e ripetuti, da bruschi e continui risvegli, e da quella sensazione di pericolo che non lo aveva mai lasciato. Cosicché prese la sua decisione prima che venisse giorno.

    Lear si alzò quando l’aurora era ancora lontana, si vestì, e mise in uno zaino poca roba oltre al suo grimorio e a quello di Nymous. Uscì in punta di piedi, cercando di non fare rumore e svegliare i genitori che stavano ancora dormendo, scese le scale e in cucina si preparò qualcosa da mangiare velocemente. Poi scrisse un biglietto, che lasciò sul tavolo, quindi uscì di casa portandosi appresso il suo mantello.

    Nel biglietto era scritto:

    Papà, mamma,

    sono molto preoccupato dagli eventi che si stanno susseguendo. Anche se vi sembrerà strano o avventato, sono costretto a partire per la contea di Meltar, vi prego di fidarvi di me. Non preoccupatevi per me, in qualche modo me la caverò. Tornerò il più presto possibile.

    Statemi bene

    Lear.

    Il ragazzo si inoltrò nelle vie della città, e con passo svelto raggiunse la porta ovest alle prime luci dell’alba; non fece in tempo a varcare le mura che le sue orecchie vennero raggiunte dai discorsi di due viandanti che stavano partendo per Usar: per quanto potessero essere veritieri o menzogneri, sostenevano che Dor era sotto assedio. Lear accelerò il passo, sperando che quello che temeva non fosse vero. Raggiunto un boschetto subito fuori Aster, tirò fuori dal suo zaino il suo nuovo grimorio e lo aprì a metà circa; si fermò a riflettere: l’incantesimo che stava per eseguire l’aveva esaminato e studiato sufficientemente, ma era ancora troppo potente per il suo livello, poteva provocare danni fisici e psichici. Un po’ esitando Lear iniziò a pronunciare la formula che riecheggiò nell’aria, eseguì brevi gesti davanti a lui… un brivido fece tremare il suo corpo: sentì la magia friggere e percorrere le sue membra, una fitta lancinante gli trapassò la testa, ma il dolore durò poco. Quando si riprese, si accorse con piacere che la magia aveva avuto effetto: si trovava a lato di una strada e vicino a lui era piantato un cartello che indicava la direzione per Dor La città è vicina! – pensò. Si guardò intorno per orientarsi: la vista di una fattoria distrutta dalle fiamme lo fece rabbrividire. Senza perdere tempo s’incamminò per la strada, l’odore acre di bruciato ristagnava nell’aria e un paesaggio piuttosto desolato lo accompagnarono fino alle porte della città.

    Non c’erano sentinelle in giro e le porte erano spalancate; il ragazzo si avventurò oltre le mura, un silenzio assoluto regnava incontrastato in ogni angolo della città che sembrava abbandonata: le strade erano vuote e altrettanto lo erano le case e gli edifici. Non fece in tempo a chiedersi il perché, che si trovò una lancia puntata alla gola; erano una decina di persone, forse banditi.

    «Chi sei? Cosa sei venuto a fare qui?» gli chiesero.

    «Sto cercando

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