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Adam
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Ebook320 pages4 hours

Adam

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About this ebook

La vicenda di Edwin Chester continua.

Un codice misterioso le cui origini si perdono nella notte dei tempi.

Un viaggio fantastico nel luogo dove tutto ebbe inizio.

Due uomini all’apparenza estranei, le cui storie rivelano legami inattesi e drammaticamente profondi.

Una vicenda che culmina in un’accorata esortazione rivolta all’umanità intera.
LanguageItaliano
PublisherYoucanprint
Release dateNov 13, 2012
ISBN9788867518692
Adam

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    Adam - Fabrizio Nava

    FABRIZIO NAVA

    A D A M

    Youcanprint Self-Publishing

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma 73 - 73039 Tricase (LE)

    Tel. 0832.1836509

    Fax. 0832.1836533

    info@youcanprint.it

    www.youcanprint.it

    Titolo | Adam

    Autore | Fabrizio Nava

    Copertina a cura dell’autore

    ISBN | 9788867518692

    Prima edizione digitale 2012

    Questo eBook non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.

    Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941

    NOTA DELL’AUTORE

    ADAM è un termine di origine ebraica che significa uomo. Ed è proprio dell’uomo che l’opera si occupa: da un lato, nel senso più generale di specie umana, con un immaginario salto all’indietro fino alle origini, per poi giungere alla situazione attuale, di un uomo che sempre più vuole confidare in se stesso e nelle sue conquiste, prescindendo da un punto di riferimento trascendente, assoluto; dall’altro, le esistenze di due uomini, i protagonisti principali, esistenze apparentemente distaccate (come il diverso carattere grafico e l’utilizzo dell’io narrante in un caso e della terza persona nell’altro vogliono sottolineare); esistenze che vengono a sfiorarsi in qualche rara occasione, perlopiù all’insaputa l’uno dell’altro, ma che alla fine riveleranno comunanze inattese e drammaticamente profonde. Perché in realtà la vita di ognuno di noi finisce inevitabilmente per condizionare quella degli altri, o per esserne condizionata, nella misura in cui ogni persona, vivendo, si esprime, agisce, testimonia ciò che è, e questo non può non avere un impatto su chi ci sta attorno: d’altra parte, tutti condividiamo questo mondo... Mondo che non può certo dirsi in buone condizioni. Basta guardarsi intorno con attenzione, o ascoltare le notizie che ci arrivano dai diversi angoli della Terra, per rendersi conto che stiamo vivendo un periodo alquanto oscuro. E probabilmente la soluzione a tutto questo va cercata nell’antica sapienza rabbinica, secondo la quale la notte sfocia nel giorno nel momento in cui, in ogni persona che incontriamo, sappiamo riconoscere un fratello o una sorella...

    È questo il messaggio di fondo del romanzo: l’auspicio di sapersi riconoscere figli di un unico Padre, generati dalla medesima Volontà creatrice che a tutto ha dato inizio. Dedico quest’opera a tutti coloro che, a proprio modo e secondo le proprie capacità, sanno rendere la notte più breve e l’alba più vicina.

    L’uomo, dunque. Perché, al di là della vicenda, della trama che costituisce l’ossatura della narrazione, e che indubbiamente deve suscitare l’interesse e la curiosità del lettore, scopo ultimo del romanzo è, a mio parere, proprio parlare dell’uomo, delle sue espressioni, delle sue idee, dei suoi timori e delle sue speranze. Perché scrivere, in ogni caso, risponde a una delle esigenze primarie dell’uomo: ossia comunicare, comunicare se stessi, la propria umanità, agli altri, al mondo.

    15 ottobre 2005            

    Fabrizio Nava

    PARTE PRIMA

    1.

    Le ultime striature color porpora dipinte dal tramonto sono state da poco cancellate dall’oscurità della sera, punteggiata dalle luci degli alti palazzi del centro che si stagliano in lontananza contro il cielo.

    Sulla porta d’ingresso di una elegante villa di periferia, due uomini si stanno salutando, al termine di un piacevole pomeriggio trascorso tra amici.

    Sei sicuro di farcela a tornare a casa, Akhil? Vuoi che ti dia uno strappo io?

    Certo… che ce la faccio. Non… non ti preoccupare… Mi basta prendere un po’ d’aria… Terrò giù… i finestrini…

    Mi raccomando, vai piano. E, soprattutto, non dare passaggi a nessuno.

    Senza rispondere, ma limitandosi a sollevare la mano per rassicurare l’amico, Akhil Schwartz, sessantacinque anni, lunghi capelli brizzolati pettinati all’indietro, folti baffi e pizzetto, percorre il vialetto che attraversa il giardino della villa, in direzione dell’automobile, parcheggiata lungo la strada. Un ondeggiare appena percettibile fa sospettare che l’uomo ha forse abbondato con l’alcol. Akhil sale a bordo della vettura e parte sgommando, mentre sul volto perplesso del padrone di casa, che osserva la scena dalla soglia, si legge chiaramente una domanda: Avrò fatto bene a lasciarlo partire da solo?.

    E, soprattutto, non dare passaggi a nessuno… non dare passaggi a nessuno… a nessuno…

    Mescolate al rumore dell’aria che penetra nell’abitacolo attraverso i finestrini abbassati, trascinando la chioma in una danza frenetica, le ultime parole dell’amico hanno appena terminato di riecheggiare nella mente di Schwartz, quando, giunto in prossimità del cimitero, egli scorge due persone che sembrano fargli dei cenni. L’oscurità, contrastata solo da alcuni radi lampioni, non consente di distinguere di chi si tratti, tuttavia l’illuminazione è sufficiente per individuare un paio di valigie, e, poco distante, una macchina con il cofano aperto. Intuendo la situazione, Akhil accosta senza indugio vicino ai due. Si tratta di un uomo e di una donna, all’apparenza più o meno della sua stessa età… No, guardando meglio, l’uomo deve avere qualche anno in più. 

    Salve… Serve aiuto?, domanda Schwartz, sforzandosi di apparire lucido.

    Buonasera. Vede, mia moglie ed io stavamo recandoci alla stazione, abbiamo un treno tra… mezzora, risponde l’uomo dopo aver consultato l’orologio nel taschino. Purtroppo la nostra auto è in panne e non c’è verso di farla ripartire. Non è che ci darebbe gentilmente un passaggio?

    Ma certo! Io abito proprio nei pressi della stazione. Forza, salite! Vedrete che in meno di… venti minuti sarete là, pronti per prendere il vostro treno! Io intanto… carico i bagagli…

    Molto gentile!

    Mentre l’uomo accompagna la consorte dall’altro lato della vettura, la donna lo prende per un braccio e gli sussurra: Ma, caro… C’è da fidarsi? Mi pare un tipo strano, con tutti quei capelli sconvolti… E poi, quell’odore di alcol… Mi sembrava il suo alito: non avrà mica bevuto?.

    Rilassati! È il cielo che ce lo manda, questo gentiluomo! Vedrai che andrà tutto bene.

    Tranquillizzata la moglie, l’uomo le apre lo sportello posteriore e la invita a sedersi, dopodiché prende posto a sua volta a fianco del posto di guida. Un attimo dopo, Akhil, sistemati nel frattempo i bagagli nel baule, risale in auto e riprende la strada.

    Allora? Dove siete diretti, di bello?… Fatemi indovinare: è il vostro anniversario di matrimonio?

    Nessuna risposta.

    Allora? Avete perso la lingua?… Non ditemi che vi spaventa la mia guida…

    Terminata la frase, Akhil si volta alla sua destra. Ciò che vede lo fa rabbrividire: il viso dell’uomo seduto al suo fianco, inspiegabilmente illuminato da una luce sinistra, risulta orrendamente sfigurato e cosparso di sangue rappreso.

    Ma… che diavolo….?!?

    Istintivamente, il guidatore si volta verso la donna, alle sue spalle, trovandola nelle medesime condizioni.

    Ti ricordi di noi, Schwartz?, domanda l’uomo con un inquietante tono di voce, che nulla ha a che vedere con l’atteggiamento amichevole manifestato poco prima.

    V-voi?!?!… Akhil non riesce a schiodare gli occhi dai due volti, passando alternativamente dall’uno all’altro. Ma… v-voi siete… siete morti!

    Gia! Ma fra poco lo sarai anche tu! È pericoloso guidare quando non si è perfettamente lucidi: si rischia di andare a sbattere da qualche parte…

    Subito, Akhil torna a guardare la strada davanti a sé e, ancora una volta, inorridisce: a una decina di metri, in corrispondenza di una curva, i fari ritagliano dall’oscurità il tronco massiccio di un albero. Troppo tardi per cambiare direzione, troppo tardi per frenare: d’impulso, Akhil si porta le mani al volto, come per impedire a se stesso di assistere allo schianto inevitabile.

    Nooooooo!!!…

    Buio completo.

    Dopo un tempo indefinito, un vociare concitato giunge alle orecchie di Schwartz, che, aperti gli occhi a fatica, realizza di essere sdraiato a terra. Ancor prima di interrogarsi sull’origine delle voci che lo hanno ridestato, si rende conto di avere qualcosa nella mano destra: una sorta di grossa mela, si direbbe, con la buccia di un colore rosso intenso e bianca all’interno, come un vistoso morso rivela.

    E questa… da dove arriva?, si chiede, osservando perplesso il misterioso frutto. E… sarò stato io a mangiare il boccone che manca?

    È morto!

    La frase risuona lugubre nell’aria, richiamando l’attenzione di Akhil, che solleva lo sguardo. A pochi passi da lui, quel che resta della sua auto, schiantatasi contro un robusto albero, il cofano completamente accartocciato. Due uomini, medici o infermieri, a giudicare dagli indumenti, sono curvi sul corpo di un uomo, che giace esanime al posto di guida. All’interno dell’abitacolo, nessun altro.

    Alzatosi, Akhil si avvicina, fino a quando non riesce a scorgere l’individuo al volante: piegato in avanti, il volto rivolto verso di lui, gli occhi sbarrati che paiono fissarlo. E il sangue gli si gela nelle vene.

    "Ma… quello… quello è… sono io!… E… sono… sono…"

    "Andato! Non c’è più niente da fare, purtroppo. L’impatto gli è stato fatale." È la conclusione tratta dai due soccorritori, che nemmeno si accorgono della figura alle loro spalle.

     Ma no! Nooo! Sono qui, non mi vedete? Sono… sono vivo, sono vivoooo! Vivoooo!!!

    Akhil si ridesta in un lago di sudore. Uno sguardo spento, come smarrito nel nulla, marca  prepotentemente la sua espressione, allorché scosta alcune ciocche dei lunghi capelli, scese a invadergli il viso. Si volta in direzione della sveglia, sul comodino: la mezzanotte è passata da una quarantina di minuti. Consumata una cena leggera nel ristorante della locanda, Schwartz si è coricato presto, in vista della lunga camminata che lo attende l’indomani.

    Alzatosi dal letto, si dirige decisamente verso la finestra; sul davanzale spicca la bottiglia di whisky vuota, un piccolo aiuto per conciliare il sonno, che tardava ad arrivare. Ma sarebbe stato meglio non addormentarsi: quel maledetto incubo, per non parlare dell’emicrania che aumenta d’intensità e sembra intenzionata a spaccargli la testa in due. Si affaccia alla finestra. La luce lunare gli illumina il volto, mettendo in risalto i lineamenti marcatamente occidentali, che stridono con gli schiamazzi nel locale idioma indiano che s’odono di tanto in tanto, provenienti dalla strada sottostante. Socchiudendo gli occhi, Akhil scruta l’altura che si erge di fronte alla locanda, seguendone il profilo fino al culmine, dove pare intravedersi la sagoma di un edificio.

    Domani. Finalmente, domani sarò lì…, sussurra puntando l’indice verso la cima.

    2.

    5 Maggio

    È buio. Piove a dirotto. Passi concitati si susseguono su di un sentiero fangoso che si snoda attraverso un parco. Ostacolata dal terreno sconnesso, una donna avvolta in un impermeabile cerca di procedere speditamente, volgendo più volte dietro di sé uno sguardo carico di apprensione, come turbato dal presagio di un’oscura minaccia. Tra gli schizzi melmosi delle pozzanghere, l’andatura si fa via via più celere, fino ad assumere la frenesia di una corsa stentata, strenuo tentativo di sfuggire a qualcosa di tremendo, alla peggiore concretizzazione del presentimento della donna, il cui viso è ora distorto in una maschera di terrore.

    Percorsa qualche decina di metri, la donna inciampa, e la fuga termina nel pantano. In un attimo, il motivo della corsa disperata risulta palese: emerso dal buio, un uomo si avventa sulla malcapitata e, una mano premuta sulla bocca, l’altra ad immobilizzarle le braccia, mette in atto le sue brutali intenzioni… Per poi dileguarsi, accompagnato dal rombo violento di un tuono, che sembra squarciare il cielo scuro da parte a parte.

    Edwin! Edwin! Che succede?

    Mmm… Cosa?… Dove… dove sono?…

    Mi ritrovo sdraiato in un letto che non è il mio, il respiro affannoso e il cuore sul punto di scoppiare.

    Tutto bene, amore?

    Ah, sei tu... Grazie al cielo...

    Seduta alla mia destra, Kate, la mia fidanzata, mi passa un fazzoletto sulla fronte. Uno strano chiarore filtra dalla finestra, esaltando la tenerezza del gesto e rendendo, se possibile, ancor più dolce lo sguardo di lei. Ma c’è di più: la sua camicia da notte… Un modello semplice, quasi anonimo, forse quello che mi piace meno… Eppure, in questo frangente, mi appare particolarmente sensuale indosso a lei. Che sia un’altra conseguenza di questa luce singolare? O forse, più semplicemente, è l’effetto della scollatura, messa in risalto dalla posizione di Kate, leggermente china su di me, mentre mi porge le sue amorevoli cure.

    Come sei sudato…

    Quando ci capita di uscire la sera, spesso e volentieri Kate ed io trascorriamo la notte insieme. Ieri, in occasione del nostro anniversario di fidanzamento, abbiamo assistito alla prima di un musical (genere di spettacolo per cui Kate va pazza); e alla fine, mi sono fermato a dormire da lei.

    Continuavi ad agitarti nel sonno. Il solito incubo?

    Purtroppo sì…

    La scena di un tragico stupro, consumato in un parco durante una notte tempestosa. Una scena che infesta i miei sogni con cadenza irregolare, ripetendosi pressoché immutata da tempo immemorabile (la prima volta avrò avuto vent’anni, ora vado per i quarantaquattro!). Una scena di cui non sono mai riuscito ad afferrare il significato, palese o recondito, nemmeno con l’aiuto degli esperti in materia che ho avuto occasione di consultare. Sia pure ignorando l’identità dei due protagonisti, quel drammatico episodio finisce ogni volta per coinvolgermi nel profondo, come se in qualche maniera mi riguardasse in prima persona, e al risveglio mi lascia preda di una immensa inquietudine.

    Vieni qui….

    Come il coro delle sirene di Ulisse, la voce di Kate mi cattura con un invito irrinunciabile. Mi alzo a sedere. E nel giro di brevi attimi, l’intenso abbraccio della donna che amo riesce a ricomporre ogni cosa; l’angoscia indotta dall’incubo, che già s’era attenuata alla sola vista di lei, poco a poco scompare del tutto.

    All’improvviso, vedo la camicia da notte di Kate volare attraverso la stanza, per finire sulla poltrona ai piedi del letto. E già mi sembra di avvertire la sua pelle morbida a contatto con la mia… Ma si tratta solo della mia immaginazione. Riapro gli occhi e do un’occhiata alla sveglia sul comodino, alle spalle di Kate: le sei e venti. Peccato! Tra dieci minuti questo stato di grazia avrà fine: mi toccherà alzarmi, fare colazione, prepararmi per andare al lavoro, e tutte le altre, solite menate quotidiane.

    Ma già alle sei e ventuno il mio volto un po’ assonnato viene attraversato da un sorriso, allorché mi rammento che oggi… è domenica! Chiudo nuovamente gli occhi, mentre avverto l’abbraccio di Kate farsi più forte.

    3.

    Il serpente viene schiacciato dal piede di una donna. Sopra, la scritta Ora et Labora.

    È lo stemma del monastero benedettino di Jurniparabhava, che si erge sulla sommità di un rilievo nella zona centro-orientale dell’India, ad una giornata di cammino dal più vicino villaggio; o, in alternativa, un paio d’ore di jeep, mezzo di trasporto che però tende a scarseggiare da queste parti.

    Jurniparabhava significa sconfitta del serpente, dall’unione dei termini in sanscrito jurni, che significa serpente, e parabhava, sconfitta. Si tratta di un augurio per coloro che risiedono tra le mura del monastero e per la gente dei dintorni: sull’esempio di Maria, la madre di Cristo, la quale, secondo la tradizione, ha schiacciato la testa del serpente che le insidiava il calcagno, possa ognuno vincere le diaboliche tentazioni del maligno, da sempre simboleggiato dalla bestia strisciante. E questa quotidiana lotta contro il male viene scandita dall’Ora et Labora, precetto che ritma le giornate dei monaci in un alternarsi di preghiera e lavoro, di vita comune e di silenzio.

    Poco dopo il tramonto, Akhil Schwartz giunge al monastero, carico dei segni e della polvere di una decina d’ore di cammino. Fermatosi un attimo a riprendere fiato, mentre appoggia a terra la borsa che ha con sé, il suo sguardo indugia su una targa lignea appesa sopra il portone di ingresso, che recita:

    Tutti gli ospiti siano ricevuti come Cristo in persona.

    L’uomo si accinge a bussare ma qualcosa sullo stemma di fronte a lui ne attrae l’attenzione e lo blocca. Nulla di preciso, soltanto una sensazione: quasi che gli occhi del serpente si fossero illuminati per un istante, accesi da una luce rosso fuoco. Ma sicuramente si è trattato di un’allucinazione, forse la vista annebbiata dalla troppa polvere, o dalla lunga ed estenuante camminata, oppure i postumi della bevuta della sera precedente: questa, perlomeno, la conclusione cui è appena giunto Akhil, nell’attimo stesso in cui il portone si apre.

    Benvenuto, fratello! Ti stavamo aspettando!

    Il monaco, che indossa un abito bianco e una fascia blu in vita, accoglie l’ospite con un caldo sorriso, invitandolo ad entrare. Un pallore accentuato risalta sul volto del religioso.

    In che senso, mi stavate aspettando?, domanda Akhil alquanto sorpreso dall’insolito benvenuto.

    Non ti preoccupare. Seguimi!

    Ma… che significa? E chissà da dove viene costui, non mi sembra per nulla di queste parti…

    Mentre Akhil si interroga mentalmente, il monaco lo conduce attraverso un cortile scarsamente illuminato da un paio di lampioni. Di fronte, una piccola chiesa, la cui facciata culmina in una sorta di arco sovrastato da una croce, che funge da campanile. Ai fianchi del sacro edificio, due costruzioni pressoché identiche, ad un solo piano, si estendono senza soluzione di continuità, come braccia aperte in segno di accoglienza verso i visitatori. Ai lati del cortile, due scalinate conducono sulle mura che cingono l’intero perimetro del monastero.

    Entrati nell’edificio a sinistra della chiesa, i due percorrono un breve corridoio, che termina con una porta chiusa. Alcune panche in legno sono sistemate lungo entrambe le pareti.   

    Attendi un momento qui, fratello. Vedo se il priore ti può ricevere. Se ti vuoi accomodare…

    Akhil, stremato, non si fa certo ripetere l’invito e si siede sulla panchina più vicina, mentre il frate sparisce dietro la porta, per ricomparire dopo un paio di minuti.

    Prego, fratello, il priore ti aspetta. È la prima porta sulla sinistra, qui fuori. Quanto a noi, ci rivedremo presto; ora devo scappare!

    Senza dire altro, il monaco ripercorre il corridoio in direzione del cortile, sottraendosi in breve alla vista di Akhil.

    Che strano personaggio, riflette Schwartz mentre oltrepassa la porta, richiudendola alle sue spalle. Si ritrova sotto il porticato di un chiostro, con una serie ordinata di colonne di semplice disegno a delimitare un cortile a pianta quadrata, dal lato di una decina di metri, che offre dimora ad alcune palme dal tronco sinuoso; al centro del cortile, il tradizionale pozzo, sormontato dal monogramma di Cristo. Dalla parte opposta del porticato, una coppia di monaci cammina chiacchierando a bassa voce, in una lingua ormai abituale per Akhil, il quale ha anche imparato a comprenderne alcuni termini. E da quel bisbigliare, riesce a carpire una manciata di parole, che paiono giungere alle sue orecchie in maniera sorprendentemente chiara: …libro… albero… pentimento… peccato…. I due monaci gli danno le spalle e non si avvedono della sua presenza. Akhil li segue con lo sguardo, finché non giungono a quelle che probabilmente sono le rispettive celle, e vi si ritirano.  

    Secondo le istruzioni ricevute, Schwartz si accosta alla prima porta alla sua sinistra, che reca una targa: P. Naishad. Bussa.

    Avanti!

    È permesso?

    Un ufficio disadorno, essenziale: una scrivania al centro della stanza, una piccola libreria da un lato, dall’altro un affresco, opera di un artista locale, raffigurante San Benedetto impegnato nella scrittura della Regola; null’altro spicca sui muri, se non un crocifisso stilizzato, appeso alla parete di fronte all’ingresso, a fianco della finestra. Unica nota stonata, un computer fa mostra di sé, spento, sulla scrivania. Seduto al tavolo, la Sacra Bibbia tra le mani, un monaco dalla carnagione piuttosto scura, di età imprecisabile, osserva il nuovo venuto con due brillanti occhi scuri, al di sopra degli occhiali tenuti a metà del naso.

    Avanti, avanti, ribadisce il frate corrugando la fronte alta.

     È… è lei il priore?, domanda Akhil, titubante.

    In persona. Sono padre Naishad, come immagino abbia letto sulla porta. Una breve pausa per riporre Bibbia e occhiali sulla scrivania, e il religioso riprende: E lei? Qual è il suo nome? E cosa la porta da queste parti, in questo posto sperduto? E come ha fatto ad entrare?. Poi, portandosi la mano alla fronte, come colto da un’illuminazione improvvisa: Ah, già, il portone!… Evidentemente non è ancora stato riparato. Devo fare un discorsetto a qualcuno… Ma, prego, si accomodi. Immagino sia piuttosto stanco… È venuto a piedi?.

    Già, è da stamattina che cammino!, conferma Akhil, mentre si siede di fronte alla scrivania del priore. Poi, cercando di rispondere alla rapida sequenza di domande da cui è stato bersagliato, continua: Beh, in realtà, ancora prima che potessi bussare, un monaco mi ha aperto il portone, un tipo strano, sicuramente troppo pallido per essere della zona… Il nome, lo ignoro, la scena è stata breve e inattesa da parte mia, e non ci siamo presentati… Ma non è venuto qui poco prima di me a chiederle se mi poteva ricevere?.

    "Veramente, dal termine dei Vespri, ossia da circa una mezzora, lei è la prima persona che vedo. E poi, non mi risulta proprio che tra i miei confratelli ve ne sia qualcuno pallido. Persino padre Alberto, l’unico a non essere originario di queste parti, è piuttosto colorito…"

    Che strano. Eppure… E poi ha esordito dicendo che mi stavate aspettando…

    Ehm… stia tranquillo, replica perplesso il priore, ci sarà sicuramente una spiegazione, signor…?

    "Schwartz… Mi chiamo Akhil Schwartz, e, per tornare alle sue

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