La casa dei giorni dispersi
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La casa dei giorni dispersi - Michela Franco Celani
affetto.
« Guardati, sei ridicolo ».
Mi sibila contro questa frase e sembra quasi che me la vomiti addosso. Il disprezzo con cui la pronuncia le rimane appeso agli angoli della bocca piegati all’ingiù e nell’ombra degli occhi incattiviti fatti ancora più scuri dalla rabbia. Poi sputa parole altrettanto dure che schizzano in giro per la stanza come biglie da flipper, cercando di fracassare tutto quello che trovano. Impossibile sottrarsi a quel tiro, a quelle traiettorie impazzite.
« Vedi anche tu che non posso fare altro... »
Dico così anche se so perfettamente che non servirà a nulla, solo per interrompere il mio silenzio che mi mette a disagio quasi quanto le parole di lei che adesso incalza:
« Tu non puoi mai fare altro, almeno quando si tratta di me... »
Sottolinea con forza quel ‘mai’ in modo che comprenda non solo il presente, ma si estenda da una parte al passato, come un rimprovero acido, e dall’altra al futuro, come una previsione fosca e ineluttabile.
Devo fare in modo di opporre a tutti i costi resistenza e di non cadere nella trappola in cui lei cerca di trascinarmi: una lite che perde di vista il motivo scatenante per allargarsi nell’acqua torbida cerchio dopo cerchio e ingoiare tutto, facendolo impantanare sul fondo.
Così mi limito a replicare:
« Stavolta si tratta di lei ». Lo dico come se fosse evidente, come se non fosse necessario spiegarlo, e questo aumenta la sua rabbia.
« Sei patetico ».
La porta a vetri che dà sul terrazzo mi rimanda l’immagine di un uomo di mezza età, una bella testa di capelli spruzzati di grigio sul viso ancora giovane, appena un filo di pancia che tiro istintivamente indietro, raddrizzando anche le spalle.
Lei continua a muoversi senza sosta in giro per la stanza e insiste, forse non ha nemmeno torto, forse sono davvero patetico e ridicolo.
Da qualche tempo si è messa in testa che un viaggio risolverebbe la crisi del nostro matrimonio. Dev’essere una di quelle idee che di tanto in tanto va a pescare in certe riviste di psicologia new age che compra di continuo e poi cerca d’impormi, un mare di ricette strampalate per disturbi tutti rigorosamente psicosomatici da curare con petali di fiori e massaggi a base di oli profumati, guarigioni miracolose dalla depressione con gridolini e smorfie allo specchio, risoluzioni di problemi d’ogni genere e in particolare di coppia in due puntate, quattro mosse, cinque passi.
« Vuoi dire che dopo aver progettato insieme un viaggio per più di un mese, adesso non ci puoi venire per causa sua? »
Il dito con cui indica la figura stesa sul divano è sicuro e fermo, ma nella voce stride qualche nota troppo acuta.
Io non so un’altra volta che cosa dire e le rispondo con una domanda che rimette tutto nelle sue mani.
« Cosa dovrei fare, secondo te? »
Innanzitutto non è vero che il viaggio lo abbiamo progettato insieme. Anzi, fin dall’inizio io non ho condiviso quell’idea e soprattutto non ho capito la sua ostinazione per il Messico, la sua convinzione irragionevole e caparbia che il nostro matrimonio si salverà di sicuro se solo ci arrampicheremo su per i gradoni di una piramide maya o azteca, sudando a temperature e a tassi d’umidità cui nessuno dei due è abituato e ingozzandoci di tacos e tortillas.
Io ho mangiato una sola volta in un ristorante messicano e sono stato male tutta la notte.
Le avevo proposto mete alternative, con il solo risultato di farla imbestialire. Imbestialire e ridere, di gola e senza allegria negli occhi, come fa lei. Negli ultimi anni ride soprattutto quando è arrabbiata.
« Io ti dico che voglio andare in Messico e tu mi vuoi portare a New York? »
Aveva rifiutato istintivamente quella proposta solo perché veniva da me. È scaltra, ma non abbastanza intelligente da intuirne il vero motivo: dopo ore e ore a massacrarsi i piedi su e giù per i marciapiedi di Manhattan, si poteva concludere la giornata con un musical a Broadway o un concerto alla Carnegie Hall, non certo mettersi a parlare di un matrimonio che affondava, come invece si sarebbe potuto fare sotto una zanzariera bevendo tequila.
Allora aveva tirato uno dei suoi colpi bassi:
« Non eri tu quello che un po’ di anni fa ha tenuto una conferenza sulla rivolta zapatista nel Chiapas? Come fai a dire che il Messico non ti interessa? »
Vero: dopo una serata trascorsa a parlare di lotte contadine – argomento che mi aveva appassionato in gioventù, ai tempi dell’università e delle interminabili discussioni che si trascinavano fino all’alba mangiando spaghetti scotti innaffiati da vino di pessima qualità, ma del quale ora francamente non mi importa più nulla – mi ero lasciato convincere da un collega che militava ancora nel movimento a tenere una conferenza al circolo della stampa sulle rivolte degli indios dopo il ‘94.
Lei si era fatta sotto sempre più pressante, così vicino che sentivo il suo profumo, sempre lo stesso da quando l’ho conosciuta. Avrei voluto chiederle come si chiamava, lo sapevo ma non me lo ricordavo mai. Mi sembrava importante, chissà perché, sapere il nome di quel profumo sul quale lei contava per appoggiare i suoi argomenti. Era un argomento anche quel seno che si alzava e si abbassava sotto il vestito leggero dalle spalline sottili.
« Allora fai conferenze su argomenti di cui non ti frega niente » e poi aveva aggiunto, velenosa: « Magari le informazioni le scarichi tutte da Internet... »
Vero pure questo: avevo accettato incautamente la proposta e per una serie di coincidenze – tra cui la biblioteca che non mi aveva procurato in tempo un paio di volumi che avevo richiesto e sui quali contavo – mi ero dovuto preparare in fretta e furia, raccattando informazioni qua e là per tutto l’etere. Il risultato era stato comunque più che soddisfacente e la conferenza un successo.
Tuttavia, la sua intenzione di umiliarmi in ogni modo era chiara e quella era stata la sua mossa vincente. Avevo capito di non avere più vie d’uscita e avevo dovuto alzare bandiera bianca.
Appena resasi conto di avercela fatta, lei si era di colpo ammansita. L’espressione tesa e aggressiva si era immediatamente rilassata, lo sguardo subito meno cupo. Non era più la gatta infuriata con gli artigli sfoderati pronti a cavarmi gli occhi, ma la gatta in calore che mi si strusciava addosso col suo odore umido e caldo. Ha sempre usato il sesso come minaccia o ricompensa, quello che la eccita veramente è il potere che in un modo o nell’altro può esercitare su qualcuno.
Vuole essere Regina, di nome e di fatto.
Già il giorno successivo l’appartamento era stato letteralmente invaso da dépliants, guide turistiche, numeri monografici di riviste di viaggi. Lei passava le serate a sfogliarli, a progettare itinerari con dettagliate carte geografiche distese sul tavolo della sala da pranzo – anche se in realtà aveva già affidato tutto all’agenzia per un viaggio organizzato – solo per impormi il suo entusiasmo e farmi sentire in colpa perché non ne provavo. Pensavo, piuttosto, già al ritorno e vi guardavo altrettanto rassegnato: al poncho, al sombrero, a tutta la paccottiglia che lei avrebbe raccolto durante il viaggio – non per averne un ricordo ma solo per soddisfare un momentaneo capriccio – e di cui avrebbe poi disseminato la casa, stufandosene il giorno dopo.
La malattia di Giona era stata diagnosticata proprio nel momento più o meno propizio, a seconda dei punti di vista: due giorni dopo che lei mi aveva trascinato in agenzia a comprare i biglietti.
« È tutto quello che sai dirmi? Non se ne parla neppure ».
Mi sembrava l’unica frase da dire e l’ho detta.
Umberto è mio amico dai tempi del liceo, ci ha messo più di dieci anni per prendersi una laurea in veterinaria e poter passare tutto il resto della sua vita in un ambulatorio di periferia che puzza di disinfettante e di pelo di cane bagnato. La sala d’aspetto è sempre piena di gente, per lo più ragazzini che all’insaputa dei genitori hanno fatto qualche esperimento malriuscito col coniglio o col criceto e ai quali come si fa a decurtargli la paghetta, o signore di mezz’età con la sindrome del nido vuoto che passano le loro giornate a raccattare cani e gatti randagi per poi portarglieli o a sterilizzare o a curare la rogna, gratuitamente, si capisce, in teoria dovrebbe rimborsarlo il comune che tanto non paga mai, e lui lo sa, ma li cura lo stesso.
Con Umberto ho condiviso compiti, merende, nottate a fare riassunti, sigarette, sbronze, qualche spinello e pure ragazze, e adesso lui viene a dirmi che non si può fare niente. Niente. Mi volta le spalle e si mette a trafficare con un macchinario in cui ha inserito una provetta di sangue che le ha estratto dalla zampa. Lei è distesa sul lettino con la lingua a penzoloni e ansima per il caldo, il torace si alza e si abbassa come uno stantuffo, il colore degli occhi si distingue appena.
Quando Umberto finalmente si gira, ha in mano un foglietto che mi agita sotto il naso:
« Guarda, lo immaginavo, ha la creatinina alle stelle ».
Mi secca ammettere che non so che cos’è – al liceo di chimica non capivo niente perché non mi interessava, o forse era il contrario, non mi interessava perché non la capivo – ma fa troppo caldo per darsi la pena di fingere e ancora di più per provare a riacciuffare una nozione probabilmente mai posseduta o per scovare un’etimologia.
« E allora? »
« Come sarebbe a dire, allora? La creatinina è l’anidride interna della creatina, un derivato della guanidina, un composto chimico azotato, sale quando ci sono affezioni del rene. Ragiona, l’etàè quella che è, dall’insufficienza renale non si torna indietro... »
Provo l’impulso irrazionale di mettere le mani addosso a Umberto, come se la malattia di Giona fosse colpa sua. Di più, come se il fatto di aver aperto apposta per me il laboratorio in un torrido sabato pomeriggio per una visita e una analisi che non mi farà pagare fosse l’astuto espediente cui è malvagiamente ricorso pur di potermi comunicare una brutta notizia. Così gli replico in modo brusco:
« Anche a mia nonna era stata diagnosticata un’insufficienza renale ed è poi vissuta altri dieci anni ».
Lui mi guarda come guarderebbe un bambino testardo o ritardato che si ostina a non capire o non è in grado di farlo.
« Solo che Giona non è tua nonna e secondo la letteratura medica così non può andare avanti per molto ».
« Io me ne sbatto della tua letteratura medica, tu avresti proposto l’eutanasia anche per mia nonna ».
Umberto è sempre stato un tipo paziente e forse per questo non mi ha sbattuto fuori dall’ambulatorio. Ha preso questa frase stupidamente astiosa per una battuta, mi ha messo una mano sulla spalla