Nell’acquario
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Book preview
Nell’acquario - Danilo Coppola
(d.c)
1° Capitolo
È questo treno, uno dei nuovi treni dell’emigrazione. Proviene da Lecce. Ed è carico come un treno di deportazione. Mi viene da pensare che quando una terra costringe gli onesti ad andare via, quando una terra lascia fuggire senza rammarico i migliori cervelli, le migliori intelligenze, gli spiriti vivi e attivi, beh, allora, non si deve parlare di emigrazione, ma di una vera e propria pulizia etnica.
Su questo treno, ci sono padri e madri di famiglia, facce pasoliniane e donne felliniane, i visi scottati dal sole, la pelle abbrustolita dal vivere stentando. Pochi intellettuali, in verità; una tipologia umana questa, che secondo me riesce sempre a cavarsela attraverso espedienti e mica tanto letterari. Mi sento unico, in questa sorta di babelico treno alla Blade Runner
, pieno zeppo fino all’inverosimile, coi corridoi traboccanti di varia umanità, che per l’occasione si è trasformata in varia animalità, a giudicare dai litigi continui, dallo sbuffare e dall’intolleranza malcelata con cui gli stanchi
, che s’erano svaccati per terra nei corridoi, accolgono le orde di incontinenti dell’ultima ora
, che cercano di farsi largo per giungere all’agognata meta dei bagni...
Non è giusto, penso, non è giusto che le energie migliori se ne vadano per lasciare la terra in mano ai predoni, ai mafiosi, ai dritti
, ai liberi professionisti, che di libero hanno solo l’accesso all’imbroglio, agli speculatori edili, che hanno deturpato la bella costa con i loro obbrobri cementizi e mandano i propri figli alle scuole alte
lasciandoli junghianamente sfogare coi loro temi d’ecologia. Non è giusto neanche lasciare tutto quel ben di Dio di terra e dune su cui si frange il mare Adriatico, verde e cristallino e la macchia mediterranea e gli ulivi secolari, a gente che non è in grado di apprezzare tutto questo, gente fra cui sono da annoverare indubitabilmente i Baresi
, che hanno avuto il sarcastico coraggio di abbattere duecento ulivi secolari per edificare uno stadio di calcio, un monumento alle barbarie insomma, e l’hanno intitolato alla memoria degli alberi medesimi, chiamandolo stadio Degli ulivi
. Insomma, penso anche che più che di un’emigrazione si deve parlare di una deportazione e questo è come il treno di Schindler o giù di lì. Schizza sulle rotaie come impazzito e ad ogni stazione salgono altri conterranei pronti all’avventura padana.
È notte. Primavera, scambi gastronomici avvengono fra alcuni. Panini con ricotta fresca di masseria e rape affogate
contro suppressata
e cacio ricotta. Col treno viaggia un’intera scorta di munizioni alimentari pronte per scardinare gli inattaccabili aplomb burocratici dei vari marescialli, ragionieri, gran cavalieri e onorevoli di turno. È un treno caseario. Un budello metallico pronto a trasportare prodotti tipici dal sud al nord in una notte.
Qualcuno parla, chiacchiera, conciona circa le proprie aspettative. Un leccese del capo, dell’entroterra cioè, dice: Adesso vado allu norde e me fazzu na posizione... Poi me n’de tornu riccu e rispettatu
. Un altro tizio, un uomo sui quarant’anni, dal somatico libico e dall’accento salentino cantilenato alla milanese, più scafato, gli replica: Amico, l’unica posizione che te poi fare a Milano è alla pecorina.
Ridono tutti. Io li ascolto, mentre il treno cigola sulle rotaie rugginose lasciandosi alle spalle la Puglia e gli ulivi dai tronchi contorti; come i miei pensieri, in fuga da quel mio mondo i cui colori e profumi e i cui riflessi non si possono mai dimenticare e si fanno più nitidi mano mano che li dimentichi.
Penso alle cacche di mucca nel sottobosco altosalentino e ai gelsomini che vi nascono sopra. E agli ulivi, ad uno in particolare, un ulivo di seicento anni, un vecchio patriarca verde che mi ricorda un mio bisnonno, costruttore di frantoi e piantatore di alberi, i quali venivano continuamente sradicati in nome del nuovo che avanza. Solo che il nuovo è, in realtà, il vecchio, la mafia, l’egoismo, la cupidigia dell’uomo; ma si faceva chiamare nuovo
così poteva continuare a distruggere. Mi sorprendo a pensare in modo triste e cupo e a rivedere l’immagine di quell’ulivo. Penso che quell’ulivo ha resistito seicento anni ed ho come un’illuminazione. Mi rivedo invecchiato, davanti a quel vecchio albero, alto e fiero, piantato vicino ad un vecchio frantoio semisgretolato dal tempo e dagli agenti atmosferici. Mi commuovo e una lacrima rotola dal mio viso.
2° Capitolo
Sono sceso dal treno sotto la vasta copertura metallica della Centrale
di Milano, che fa apparire la stessa come un’immensa testuggine morta, all’interno una teoria di omuncoli che verminano incessantemente. Comincio ad auscultare l’aria, che subito si permea di suoni gutturali. Come uno straniero che vada all’estero in un paese non troppo lontano e che cerchi di cogliere le prime e palpabili differenze nell’idioma parlato della gente di strada. Ma non ho la sensazione di essere proprio approdato dall’altra parte del mondo. Tutt’altro. Gli accenti e i dialetti pugliocalabrolucanosiculi si sentono numerosi e a squarciagola, com’è abitudine dei meridionali in generale. Insomma, Milano, di primo acchito, non mi apparve come quella metropoli sideralmente lontana per cultura e idioma dalla mia Italia meridionale e terronica. E così, in mezzo a tutto il trambusto di mammeta
e soreta
e chitemmurt
e chitestramurt
, esco dalla stazione stile impero.
Ne osservo l’immensa facciata, tipo film kolossal egizio, mentre vengo inghiottito dalla metropolitana attraverso una scala mobile e mi sento per un attimo, anzi, per un attimino
visto che sono a Milano e devo cominciare ad adeguarmi, un piccolo uomo lillipuziano capitato nella città dei ciclopi.
La metropolitana a quest’ora del giorno è affollata da decine e decine di persone. C’è un silenzio catacombale. Ma l’atmosfera è peccaminosa. C’è in corso un gioco di sguardi che un mucchio di belle donzelle ben agghindate per l’occasione primaverile lanciano qua e là per il treno. E vengono puntualmente ricambiate, da uomini che paiono sapere oramai come gira il mondo qui a Milano. E infatti non perdono tempo a ricambiare quegli sguardi con fissate maschie o ammiccamenti sensuali e s’agitano compiendo tutta una serie di gesti inequivocabili, che paiono appartenere ad un cerimoniale i cui risultati si dovrebbero cogliere alla fermata successiva dove, scommetto, le coppie formatesi in questa specie di chat line a vista nel vagone della metro, scenderanno insieme. E invece niente. Non succede niente. Devo ancora imparare che a Milano viene prima il lavoro poi, forse, il piacere. E questa è tutta gente che va al lavoro. Scendo presso Sant’Ambrogio, una fermata sulla linea verde. E mi piace questo fatto di essere venuto sulla linea verde, dato che sono un ecologista convinto. Mi sembra, metaforicamente, di mantenere un legame almeno ideale con la natura, in una città che, fino a quel momento, non ho praticamente visto se non nella sua versione speleologica. Uscito dalla metro, vedo il cielo e poi l’asfalto e poi rivedo il cielo e poi ancora l’asfalto, fino a quando non so più fare la differenza fra loro e capisco che sono arrivato a Milano. Sì, adesso sono proprio a Milano.
Sono davanti ad un vecchio portonaccio di legno antico e ben tenuto. Suono il campanello numero ventotto del numero tre di via San Basilio. Una voce risponde suadente: Chi è?
Io, sono
, dico, palesando oltre che una posposizione di soggetto e verbo tipicamente meridionale, la mia natura decisamente narcisistica.
Greta mi invita a salire. Salgo le scale di corsa in mezzo alle ringhiere romantiche e manzoniane di un vecchio convento, riadattato a dedalo di monolocali per studenti e creatives dell’ultima ora e col mio fisico robusto e muscoloso sono già nella cornice della porta della mansarda di Greta, come, appunto, un’apparizione, un fauno, un dio greco carpentiere dal volto pugilistico. Mi appresto a proferire quelle parole studiate da intellettuale di provincia, che fa il cascamorto con la donna che sa già di avere in suo potere.
Ciao, bella... come stai... È un’eternità che non ti vedo. E l’eternità mi è parsa più lunga di quanto la si possa immaginare.
Greta scuote quel suo corpo giunonico di carne soda, che sta insieme miracolosamente in tutti i punti giusti, coi suoi capelli biondi e normanni e quei suoi occhi da cerbiatta, occhi cervoni, come amo definirli. Viene verso di me, che penso ad altri modi di venire. Da maschio latino, l’abbraccio come un Marlon Brando ne Il fronte del porto
... solo che io invece sono un Nico Cordola di fronte alla porta. Così Greta, con garbo, mi fa entrare. È, questa mansarda, un rifugio perfetto per il guerriero di mille battaglie quale mi ritengo...
Giusto il tempo di misurare a bernoccoli il tetto a spiovere di legno massiccio e mi scaravento sul letto di Greta piombando in un sonno profondo. Ho una notte da recuperare, passata in treno a pensare e a contare i battiti percussivi del rollio ritmico del treno sulle rotaie sconnesse.
3° Capitolo
Ho cominciato a prendere contatto con la città. Greta, la mia bella, di mattina s’alza per andare in Bocconi (per un seminario extra Cattolica), lasciandomi bocconi
sul letto.
È per me uno strazio alzarmi di primo mattino, io che ho avuto per trent’anni quasi un mio bioritmo messicano, che mi imponeva di alzarmi tardi, nel mattino inoltrato, e di andare a letto non prima delle due di notte. Comunque, c’è poco tempo da perdere. Me lo suggeriscono i rumori squassanti di traffico e scalpiccio nervoso che vengono dalla strada, quella centrale di via San Basilio, che di mattina sembra un suk arabo, tanto è intasata di persone, autobus, macchine. Scendo in strada, compro una copia di Seconda mano
, nota rivista di annunci e scorro le offerte di lavoro. Mi avvio verso il centro, verso piazza Duomo, a piedi, tagliando alle spalle dell’Università Cattolica e costeggiando la borsa. Entro in Galleria e vado lì dove c’è la Telecom con la sua teoria di telefoni arancioni
. Compro una scheda e mi metto a telefonare a quei quattro, cinque numeri di annunci cerchiati a penna sul giornale.
Prendo i miei appuntamenti, e mi catapulto verso il primo autobus per andare in quei posti, in cerca di un lavoro qualsiasi, per sbarcare il lunario, in attesa dell’occasione giusta.
Gli annunci mostrano offerte entusiastiche, quadri di riferimento idilliaci, guadagni facili e immediati per tutti. Ma nei miei pellegrinaggi in cerca di qualcuno di questi lavori mi impelago in una serie di vicende tra il kafkiano e il chapliniano, praticamente in una serie di storie di merda
.
Oggi devo fare un provino per un’agenzia che cerca volti nuovi per fare spot televisivi. Sono raggiante. Mi sento spesso un divo in verità, anche quando cammino per strada. Vedo che non passa inosservato il mio sguardo saraceno e il mio viso scuro e libico, sia pure coi guanciotti in rilievo d’opulenta cucina pugliese.
E così preso il coraggio a piene mani, mi sono ritrovato in men che non si dica, davanti ad una vetrata incorniciata di anticorodal, a Milano est in una via imprecisata, pronto ad entrare e diventare un divo degli spot televisivi.
Appena entrato un tizio, scuro di pelle e col codino, mi invita ad accomodarmi e a starmene rilassato in una specie di sala d’aspetto formata da una serie di sedie "In puro stile art decò", mi dice appunto il tizio. E sorridendo aggiunge: Bello!!!
.
Il tizio mi strizza l’occhio con l’aria di chi avrebbe voluto strizzarmi qualcos’altro. Mi sono irrigidito e l’improvvisato portiere-segretario, con aria alquanto solenne, sparisce dietro ad una porta. Resto solo per qualche minuto in quell’ufficio art decò. Dopo una decina di minuti, il tizio di prima esce e con aria pomposa annuncia che l’art director
vuole parlarmi. Parlare con me, con Nico Cordola. Appena entro nell’ufficio dell’art director, mi trovo di fronte una scrivania con la poltrona messa di schiena e una fluente chioma di capelli che accarezza il lungo schienale di pelle nera, come il manto di una pantera.
Qualche secondo e la speranza che cominciava ad albergare nel mio cuore, e cioè di vedere un art director sottoforma di una specie di Marilyn Monroe con dei capelli più lunghi di quelli di una fata, viene avvilita con la vista del vero art director. La poltrona, con un gesto