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I colori della mia notte
I colori della mia notte
I colori della mia notte
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I colori della mia notte

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About this ebook

Un’avvincente biografia romanzata della fotografa tanto amata quanto discussa Diane Arbus.
Nata a New York in una ricca famiglia ebrea dai consolidati valori borghesi, a diciotto anni Diane sposa Allan Arbus, giovane fotografo di guerra con cui fonda un celebre studio. Presto, però, le loro strade si dividono: lui desidera fare l’attore, lei vorrebbe cominciare a fotografare per conto suo la gente di New York. È solo l’inizio del viaggio di Diane attraverso le vie più oscure della metropoli. La fotografia diventa per lei un’esperienza entusiasmante, dialogica, creativa, un mezzo per dare voce al suo mondo interiore che non ha ancora trovato le condizioni giuste per esprimersi davvero.
Convinta che la bellezza stia nel diverso, nel contraddittorio, nella malformazione fisica e mentale, in quel difetto decisivo che rende l’umanità imperfetta ma allo stesso tempo meravigliosa, Diane fotografa principalmente nani, travestiti, barboni, nudisti, gemelli, persone affette da deficienze mentali, bambini albini: i freaks.
Etichettata come “la fotografa dei mostri”, comincerà a soffrire di depressione e a convincersi ben presto di non avere più nulla da fotografare…
LanguageItaliano
Release dateSep 7, 2015
ISBN9788868810689
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    Book preview

    I colori della mia notte - Magda Mangano

    1971

    ​Prima parte

    Obiettivo: Luce che entra

    Farfalle

    Tutto quello che le accadeva sembrava misterioso,

    decisivo e inimmaginabile, naturalmente non per lei.

    E questo capita solo ai geni.

    Richard Avedon

    New York, marzo 1930

    115 Ovest, Settantatreesima

    Non era bella, ma attenta.

    L’attenzione era tutto ciò che si sarebbe potuto cogliere sul suo viso angelico e compiaciuto, in certi momenti, negli istanti in cui il genio si risvegliava e tornava a vivere, come per magia. Quel grande palloncino colorato le riempiva le pupille e il cuore, e Diane non sapeva da quale parte volgere lo sguardo per indovinarne la fine.

    «È bellissimo, mamma. Da dove viene?». Quella superfice rosata pareva di una consistenza gommosa e malleabile; la piccola estremità era nascosta ai suoi occhi. La sua intelligenza cavalcava veloce per raggiungere il punto estremo dell’enorme gioco che con tanta meraviglia le si dispiegava davanti. Era bellissimo. «È bellissimo, mamma».

    «Tesoro, me l’hai già detto».

    In quel momento, il palloncino cominciò a saltellare lentamente verso il chiosco, delineandosi nella sua forma e nella sua dimensione. Gli erano appena comparsi due occhi e una bocca, gli erano spuntate due braccia affusolate e indossava un maglione verde. In fondo, era solo un bambino.

    Voglio ricordarmelo così, pensò fra sé la piccola Diane.

    «Diane, sta’ composta e smettila di saltellare, non sei mica su un palcoscenico! E non fissare la gente in quel modo. Darai nell’occhio». Le mani di Gertrude Russek si chiudevano e si aprivano come ricci cui fosse stato toccato un nervo centrale. Ma Diane continuava a battere i piedini a terra come se stesse ballando il tip tap – lo aveva visto fare una volta e le era piaciuto un sacco. Continuò a fissare il bambino e lo salutò, lanciandogli un sorriso che lui ricambiò subito.

    «Cosa fai? Neanche lo conosci e lo saluti? E poi, cielo» abbassando il tono della voce «non vedi com’è grasso?».

    Ma lei ormai pensava solo a come fosse stupefacente che tanta bellezza avesse deciso di nascondersi in quel cumulo di grasso incredibilmente poetico. «Anch’io voglio essere come lui, mamma».

    Accadeva, alle volte, che episodi come questo la portassero a strani pensieri. Aveva solo sette anni, ma aveva già capito che la curiosità era il suo gioco preferito. Ogni volta che avvertiva le farfalle nello stomaco si sentiva felice. Era completa. «Chiudi gli occhi, non è cosa per bambini».

    Diane sentiva spesso dire quella frase alla madre, ma non ne intendeva il significato. O, meglio, lo capiva, ma non ne comprendeva i limiti. «E se li apro, poi, cosa succede?».

    Così capitava che quelle lisce mani materne, bianche e levigate, si poggiassero sui suoi occhi per impedirle di vedere e diventassero un velo necessario a trattenere la curiosità dentro la sua testa. Una sorta di camera oscura dove il buio era la condizione imprescindibile per immaginarsi i reali contorni delle cose che non era possibile vedere. La piccola allora pensava che la sua voglia di osservare fosse malefica, una cosa sbagliata che sua madre aveva riconosciuto e che lei doveva combattere con tutte le sue forze.

    Sorrideva come una perfetta signorina di casa, invece, agli ottimi risultati del fratello Howard a scuola, anche se, mentre compiva quello strano, inconsueto gesto, si chiedeva perché si dovesse sorridere, a cosa servisse, e perché lo si dovesse fare di fronte ai compiti di Howard. Ma era abbastanza intelligente da capire che questo piaceva a sua madre, e che quindi era la cosa giusta da fare.

    «Devi sorridere quando vedi qualcosa di bello, devi essere sempre gentile ed educata. E, quando una cosa è bella, devi essere felice. Vedere tuo fratello Howard che fa i compiti è una cosa bella, perché lo aiuterà a essere bravo e diligente. Vedere un cagnolino per strada con la sua padroncina è bello. Vedermi cucire è bello. È bello il sole, ed è bello un bambino sano». Dai discorsi della madre Diane traeva il più possibile, ma a volte c’era qualcosa che non quadrava. Perché non poteva trovare bello il bambino grasso? E perché non poteva salutarlo? Perché doveva sorridere a Howard e perché studiare lo avrebbe reso un bambino migliore?

    Questo era un grosso enigma per lei, che osservava il fratello maggiore per ore e ore, in attesa che la sua attenzione venisse attivata da un dettaglio che la facesse sorridere davvero. La colpiva quella strana compiacenza che Howard mostrava ogni volta che qualcuno lo osservava studiare. Ma questo non faceva sorridere Diane; non le interessava e non lo trovava bello. Tuttavia, con uno sforzo sovrumano, decise di sorridere come la perfetta signorina che sua madre desiderava tanto avere accanto a sé.

    Famiglia, perfetta

    Aprile 1931

    115 Ovest, Settantatreesima

    Howard era un bambino attento.

    New York era il posto ideale per uno come lui che, sin da piccolo, aveva rivelato una curiosissima attitudine a scrivere poesie e a suonare il pianoforte. Mostrava uno spiccato interesse nei confronti dei gesti della sorella e un innato senso di competizione verso di lei. Non che la temesse, ma quel suo sguardo acuto, attaccato alle cose, con quei suoi grandi occhi neri che, come i mirini di una macchina fotografica, parevano entrare dentro la sua testa senza prima chiedere permesso, era qualcosa di cui lui avrebbe sempre avuto una certa paura.

    A ogni modo, ad appena dieci anni, Howard Nemerov aveva già una ben precisa idea del mondo e del suo futuro. Aveva imparato a suonare la Butterfly Étude di Chopin con una certa fluidità e, cosa ancor più ammirevole, ad amare le pellicce Russek’s esattamente come i suoi più nobili antenati, ed esattamente come Gertrude, ma con delle motivazioni molto più convincenti.

    «Tesoro, te l’ho già detto che suoni divinamente?».

    «Grazie, mamma» rispose il piccolo Howard senza distogliere gli occhi dallo spartito.

    «Com’è andata ieri a scuola?».

    Howard fece scivolare i polpastrelli sui tasti bianchi in maniera piuttosto rapida, poi sollevò la mano e premette una nota grave tenendo la testa abbassata. «È successa una cosa bella, sai, mamma? Il maestro mi ha detto che scrivo bene. Mi ha detto che potrei fare lo scrittore, un giorno…» si azzardò a dire, sollevando la testa e guardandola fisso negli occhi per cercare la sua immediata approvazione.

    «Tesoro, ne abbiamo già parlato. Credi davvero che potrei mai permetterti di fare un mestiere tanto poco retribuito ai giorni nostri e dalle dubbie opportunità lavorative? Tu devi avere aspirazioni più grandi per il tuo futuro, tu hai talento» sottolineò sorridendo fiera.

    Howard si fece improvvisamente serio, nel tentativo di comprendere il significato di quelle parole. «Hai ragione, mamma. Non capisco come possa essermi passata per la mente una simile assurdità» disse, scandendo meccanicamente quello che diceva come un soldatino programmato all’accondiscendenza.

    Gertrude sorrise compiaciuta. «Bene, adesso, se desideri, continua pure…». Così, ricolma di orgoglio, si allontanò dalla stanza da pranzo con portamento signorile.

    Howard rimase solo, e cominciò a chiedersi in maniera assillante di che genere di talento parlasse sua madre, se fosse lei la sola a poterlo riconoscere nei suoi occhi. Poi, alzatosi dal panchetto, si specchiò sulla superficie levigata del pianoforte, ripetendo sottovoce: «Howard Nemerov, Howard Nemerov, io sono Howard… e vivo al 115 Ovest della Settantatreesima Strada, al San Remo. E scrivere? Scrivere non si addice a me, Howard… devo avere aspirazioni più grandi, io, perché ho talento!». L’aveva preso un senso di confusione e, insieme, una strana ansia di afferrare quel significato che ancora stentava a riconoscere nella sua vita. Voleva scappare, Howard, di questo era certo, ma non sapeva ancora come farlo, né con quale scusa. Ricompostosi, tornò a sedersi nella poltrona del padre come un perfetto signorino borghese: da quella prospettiva ogni cosa diventava una realtà plastica che lui poteva osservare con gli occhi di uno scrittore e descrivere con l’immaginazione di un bambino.

    Scatole di cartone

    È irrazionale il fatto di essere nati in un certo posto, in un certo momento e di un certo sesso.

    È irrazionale il fatto che sia possibile mutare le circostanze e che nello stesso tempo sia impossibile.

    E l’idea di me nata ricca fa parte di questa irrazionalità.

    Diane Arbus

    13 ottobre 1933

    115 Ovest, Settantatreesima

    Esistevano le domeniche nei calendari di casa Nemerov, come in quelli di tutte le famiglie normali. Erano i giorni speciali, quelli colorati di sole, quelli in cui la casa splendeva più del solito e gli affari, messi da parte, odoravano del caffè del primo mattino fra le carte stropicciate del «New York Times» e i pezzi di jazz che la radio lanciava a basso volume. Il signor Nemerov si alzava sempre piuttosto presto la mattina, faceva colazione, salutava la moglie e, dopo essersi aggiornato sul mondo, sulla sua vita e sull’andamento quotidiano della Russek’s, usciva per giocare a golf o per andare a qualche mostra d’arte nei piccoli locali cittadini. Gertrude rimaneva nella sua camera da letto fino alle nove, il tempo che ci voleva per prepararsi, dare le ultime direttive alla servitù e portare i bambini a messa.

    Quella mattina stava ancora spazzolandosi i capelli davanti allo specchio quando David le aveva dato un bacio sulla fronte sussurrandole le parole che ormai conosceva a memoria: «Ci vediamo stasera, tesoro».

    Si era allontanato con il suo solito sorriso ottimista, la polo leggermente sbottonata all’altezza del collo e una borsa fra le mani, che gli dava un sapore vagamente informale.

    Howard, come tutte le domeniche, si alzò da letto non appena il padre fu uscito e la casa fu tornata al suo sonno. Amava sentirne i silenzi religiosi, la mancanza di urla, godere dello scrosciare ininterrotto dell’acqua dai lavandini della cucina e di quei leggeri ticchettii che provenivano dalla credenza. Non c’erano ancora odori di cibo, solo l’insana aria rafferma di una casa che aveva smesso di respirare per tutta la notte e che adesso, lentamente, si risvegliava.

    Tania raccoglieva il bucato e indossava una tunica bianca, che assomigliava a quella di una suora. Howard ormai ricordava il suo volto solo abbinandolo al candore della biancheria. Il suo viso era latteo, evanescente, e le sue labbra sembravano trasparenti. Aveva sempre pensato che fosse venuta da chissà dove, che fosse di un’altra specie. I suoi modi erano lievi e sottili come quelli di un fantasma e le sue parole quasi stentavano a uscire dalla bocca.

    David si domandava spesso cosa le passasse per la testa mentre, meccanica, compiva le azioni domestiche; si chiedeva se queste fossero tanto importanti da offuscare persino il suo stesso pensiero. «Tania, mi senti?» le sussurrava.

    Ma quei rari momenti di silenzio duravano decisamente poco nelle domeniche di casa Nemerov. Giusto il tempo che le prime polveri fossero sollevate per aria dai domestici, giusto il tempo che il sole risalisse lento nel cielo metropolitano per accarezzare i lievi contorni del viale. Poi, in un attimo come tanti, la casa si svegliava e si facevano sentire le prime voci provenienti dalle stanze da letto delle signorine Nemerov.

    Diane si trovava nella stanzetta di Renée, la più piccola di casa, a leggerle alcuni passi di Alice nel paese delle meraviglia di Lewis Carroll, un libro di cui Diane conosceva a memoria ogni singolo passo. Renée, indifferente, tentava di colorare un disegno ignorando l’entusiasmo della sorella.

    «…Poi qualcuno è venuto e mi ha detto che i pesciolini sono tutti a letto…» canticchiava Diane.

    «Non mi interessa se i pesciolini sono a letto!».

    «…Allor brandii un cavatappi in mano: andai a casa loro e bussai pian piano. Ma quando trovai la porta serrata, spinsi i battenti, feci una sfuriata…».

    «Diane vedi che chiamo la mammaaaaa!».

    «…La porta era chiusa; io dissi ‘Ehilà’… Girai la maniglia per aprire ma…».

    «…Ma cosa?».

    Renée era la più piccola e dispettosa presenza di casa Nemerov. A soli cinque anni si presentava come una bambina vivace ma contenuta, dotata di grande sicurezza e che difficilmente si lasciava comandare da qualcuno. Era diffidente verso chiunque, odiava fare i compiti ed era legata al padre da una grande e misteriosa empatia. Era cosciente del fatto che lei e Diane erano le sue figlie predilette e che, per loro due, David avrebbe certamente fatto qualsiasi cosa. Per questo non importava che Gertrude la correggesse continuamente, non importava che Howard le facesse i dispetti; David confidava profondamente nell’intelligenza vivace della figlia, e Renée si sentiva sicura e protetta.

    «Mamma, ti prego, altri cinque minuti».

    Gertrude era entrata di sorpresa nella camera delle bambine, cogliendole sul fatto.

    «Cinque minuti per fare cosa, esattamente, Renée?».

    «Devo finire di colorare, poi mi vesto subito, promesso!».

    Visto dal basso, il viso di Gertrude sembrava molto più severo del solito. Indossava ancora la sua delicata sottoveste color pesca e le mani erano poggiate sui fianchi. Renée la fissava, Diane abbassò lo sguardo.

    «Quante volte devo ripetervi che, appena sveglie, gradirei che cominciaste a vestirvi da sole nelle vostre camere?».

    Diane osservò l’estremità del rosario che pendeva dalle mani della madre. Solo ora capì che le loro voci dovevano averla bruscamente interrotta mentre recitava le sue preghiere domenicali.

    «Si può sapere che senso ha girare scalze per casa? Se vi vedesse qualcuno? Se vi ammalaste? Inoltre, vi ricordo che tra poco andrete a sentire la Santa Messa e che poi tu, Diane, avrai la tua lezione di latino».

    «Ma ho già fatto i compiti ieri…».

    «Il tuo rendimento non è soddisfacente, e ne abbiamo già parlato».

    Diane ammutolì.

    «E tu, Renée, smettila di giocare con la colla e il cartoncino. Sai bene che le tate butteranno tutto se vedranno troppa confusione in questa stanza. E hai già imparato che, nella confusione, non si vive bene».

    «Ma io non sto giocando… sto facendo una cosa importante… costruisco casa mia!» aggiunse sfacciata.

    «Casa tua?» Gertrude adesso dondolava la testa inorridita. «Hai forse bisogno di una nuova casa? Questa non ti piace? Ora basta, vi voglio giù tra cinque minuti». Le governanti entrarono come un esercito armato di spazzole e spolverini, spalancarono le finestre e tolsero subito le lenzuola.

    La piccola si sentiva sempre più stretta in quella casa, così stretta da doversene costruire una solo per metterci dentro i suoi pensieri, le sue idee e quegli innumerevoli oggetti di cartone che erano, in quegli anni, la sua unica salvezza. La mattina, ad esempio, c’era puntualmente un’odiosa tata, Tania, che con noncuranza accartocciava i suoi disegni e le sue piccole sculture in cartapesta per fare pulizia. Alle volte, invece, se le lasciava scivolare dalle mani dicendo che cadevano da sole.

    «Stai attenta eh… o lo dico alla mamma e ti faccio tornare da dove sei venuta!». Renée in quelle occasioni s’infuriava, aggrottava le sopracciglia ed emetteva un grido acuto e lunghissimo che svegliava i vicini e tutta la casa, provocando a Howard un terribile mal di testa, che sarebbe passato solo dopo attente cure materne.

    Così, testarda, forte delle sue convinzioni e della sua voglia di non darla vinta a nessuno, Renée ricominciava con lo stesso ritmo a montare, incollare e colorare, sempre più determinata a costruirsi una casa in cui scappare per sempre. Sognava una bellissima villa in riva al mare dove nessuno le avrebbe impedito di fare quello che la rendeva più felice: creare, e poi distruggere.

    E anche ora, dopo aver ultimato la sua ennesima opera d’arte, la mostrava di nascosto a Diane, aprendole completamente il cuore.

    «Sai, Diane, un giorno andrò ad abitare lì».

    «Bello! E con chi ci andrai?».

    «Con mio marito, ovviamente! Sarà bellissimo, e la casa sarà tutta di legno» rispose risoluta.

    «Sei proprio sicura che è questo che vuoi, Renée?».

    «Certo, Diane, come credi di andar via da questa casa, un giorno, se non sai quello che vuoi?».

    Lidia Andrews Butterfly

    Mi affascina il punto di partenza delle persone

    perché influenza il loro atteggiamento verso il denaro e verso tutto il resto.

    Diane Arbus

    13 ottobre 1933

    115 Ovest, Settantatreesima

    L’orologio puntava le undici esatte e Diane era appena tornata a casa con la madre e i fratelli dopo la messa domenicale. Sapeva bene che a momenti sarebbe arrivata Lidia. Gertrude le aveva raccomandato di aspettarla composta ed educata in soggiorno. Per questo Diane si limitò a riporre il suo cappottino nell’appendiabiti di servizio per poi dirigersi velocemente al piccolo studio collegato alla stanza da pranzo. Lidia era già lì, seduta. Batteva il tacco sul pavimento e aveva il viso pallido e lentigginoso.

    «Sei pronta? Bene, possiamo cominciare».

    Mentre Diane iniziava a ripetere il piuccheperfetto del verbo amo, Renée si mise a urlare dalla stanza di sopra perché non voleva fare il bagno e Howard, dalla stanza accanto, cominciò a suonare il pianoforte.

    Diane sapeva bene come Howard suonasse nei momenti in cui avrebbe voluto urlare, poiché a lui suonare pareva più dignitoso, e attirava l’approvazione materna. Il dolore cerca sempre nuovi modi per parlare.

    «…Rosa, rosae…».

    «Continua… su!».

    Per Diane vedere Howard imbottito di vizi sempre più opprimenti e Renée concentrata a riprodurre in strutture dall’aspetto vacillante le attenzioni che avrebbe voluto ricevere era insolito e curioso.

    «Diane, perché la mamma ce l’ha sempre con te?» le chiedeva spesso Howard, con gli occhi addolorati e commiserevoli.

    «Non lo so, forse si nasce così».

    Diane vedeva la sua famiglia come un nido di squilibri, un posto in cui ogni cosa aveva un contrappeso che soffocava l’elemento opposto. Col tempo avrebbe capito che quella situazione era sempre più stridente con l’immagine che la sua famiglia amava dare di sé all’alta società newyorkese. Tutto questo l’affascinava, presa com’era a osservare i meccanismi che muovevano ogni membro della famiglia.

    «Hai dimenticato il dativo… ricominciamo!».

    Come sempre, le lezioni di latino l’annoiavano.

    «Diane, cosa guardi?» urlò Lidia con i denti stretti e sporgenti.

    «Niente, maestra».

    Non aveva potuto fare a meno di soffermarsi sul volto della giovane maestra: segnato da mille nei e lentiggini, era una macchia irregolare stretta tra i capelli corvini e la pelle bianchissima. Lidia aveva un mento sporgente e allungato e un grande neo ne delineava il lato destro.

    Diane pensava spesso che un abito colorato avrebbe addolcito quello sguardo rigido e spigoloso, ma la maestra si ostinava a portare vestiti quasi monacali che rimandavano a un’antica purezza che urtava terribilmente con i tratti del suo viso. Diane era convinta che cercasse di nascondere i propri difetti ricoprendosi di una semplicità che forse non le apparteneva.

    Tuttavia, quel giorno Lidia era diversa. Il trucco pesante che in genere accentuava i nei deformi del volto era quasi ridotto al minimo, e i capelli erano stranamente liberi e crespi sulle spalle. Portava un abitino color perla lungo fin sotto le ginocchia e un anello di smeraldo sull’anulare destro, come un marchio visibile della sua identità. Diane era stupita da quello scorcio di luce che si era posato sulle sue mani, da quel colore intenso che sembrava inghiottire la sua anima.

    Era bella, Lidia Andrews Butterfly, quella domenica mattina. Era bella perché non contenuta, naturalmente eccessiva, intimamente complessa, esteticamente marcata. L’eccesso, questa volta, l’aveva salvata. L’identità aveva prevalso sulla forma.

    Quella mattina, Diane capì che corpo era solo uno dei tanti nomi dell’anima. E che, di questi, non era mai il più indecente.

    Formiche

    Una fattoria di formiche,

    posso guardare lavorare quando non lavoro… meravigliosi giocattoli che ho sempre desiderato,

    vermi falsi, cubetti di ghiaccio a forma di signora.

    Una signora di plastica trasparente con tutti gli organi e le ossa.

    Diane Arbus

    Marzo 1934

    Gorham Building, stabilimento Russek’s

    Il pomeriggio era sempre il momento giusto per pensare alle ragioni delle cose. Marzo era il mese in cui il freddo si allontanava da casa Nemerov e le vendite calavano per lasciare spazio alla fase di progettazione della nuova collezione estiva.

    David era sempre piuttosto previdente, e cominciava i primi progetti già durante l’inverno, tra gennaio e febbraio, nella stagione delle collezioni e delle sfilate: il suo genio negli affari e la sua indubbia creatività si risvegliavano sempre con un certo anticipo. Gertrude invece era serena e splendida durante la stagione delle sfilate, ma marzo arrivava sempre troppo presto per lei; a volte senza il minino preavviso.

    I suoi nervi sfrigolavano di fronte all’eccessiva e puntualissima previdenza del marito. Si insinuava in lei un sottile filo di competizione verso di lui, un filo che attraversava la casa, sfiorando i bambini e la servitù. Un filo sottile che l’allontanava dall’uomo che tanto amava e che la portava ad accantonare la sua naturale ragionevolezza e a farsi prendere da uno stranissimo senso di imminenza, efficacia, realizzazione concreta.

    Allora si metteva anche lei al lavoro, sempre in maledetto ritardo, sempre senza riuscire a produrre qualcosa di soddisfacente e vantaggioso. E cominciava a odiarsi, arrivando a non tollerare più nessuna presenza che le gironzolasse attorno. Tantomeno quella di suo marito.

    «Ma che stai facendo? Ti avevo detto di mandare l’ordine dei nuovi tessuti alle tre in punto, David…».

    «Cara, se li mandiamo un quarto d’ora dopo non resteremo certo in mezzo a una strada. Che poi, pensandoci bene, non sarebbe neanche una condizione tanto disprezzabile».

    Quel marzo c’era tensione nell’aria, anche per via della presenza costante dei genitori di Gertrude, i signori Russek, che in quel periodo non facevano che etichettare il lavoro di David e di mostrare il loro incessante scetticismo verso un uomo che non era nato fra loro, e che forse stava solo giocando a mandare avanti un’azienda troppo complessa per lui. Perché Frank, il padre di Gertrude, il fondatore di una delle imprese di moda più importanti di tutta la città, era certo che prima o poi il marito di sua figlia sarebbe sprofondato di nuovo, tornando negli stessi miseri abissi da cui era uscito, cadendo per sventura nella sua vita.

    «David, David… non è una partita a scacchi gestire quest’azienda» borbottava Frank, il cui senso di impotenza, senza che lui lo desse a vedere, progrediva con l’aumentare della lucida intelligenza mostrata dal genero.

    «Ho una proposta da farti» disse David durante uno dei loro scambi, più sorridente del solito.

    «Non cominciamo con le tue stravaganze. Sai bene che la Russek’s deve sempre attenersi a certi standard».

    «Lo so, ma se rimarremo così chiusi non venderemo mai, Frank».

    «Chiusi? Ma che stai dicendo!».

    «Volevo solo dire, carissimo, che potremmo rendere più dinamici sia le vendite che il nostro contatto con le clienti».

    David aveva sempre amato osare, e suo suocero, il suo cinismo e la sua anima da conservatore erano il suo bersaglio preferito, che aveva la certezza matematica di centrare.

    «Ho sentito bene? Hai detto dinamici?».

    «Proprio così, potremmo cambiare le vetrine, creare una piccola coreografia attorno ai modelli… esistono figure professionali fatte per questo oggi, sai?».

    Frank aspirò l’ultima boccata di fumo mentre si sistemava sulla sedia. «Interessante davvero… e, senti, hai forse idea di quanto ci costerebbero queste tue coreografie?».

    «Sarebbe un piccolo investimento che potrebbe rendere molto in termini di vendite finali».

    Frank spiaccicò la sigaretta nel posacenere senza finire di fumarla del tutto e sollevò lo sguardo, sconfitto.

    Cipressi

    Una delle cose di cui sentivo di soffrire da bambina era il fatto di non provare avversità.

    Vivevo un costante senso di irrealtà […], e la sensazione di essere immune,

    per quanto assurdo possa sembrare, era una sensazione dolorosa.

    Diane Arbus

    Dicembre 1934

    115 Ovest, Settantatreesima

    «Credo che dovresti considerare l’idea di prenderti una pausa, tesoro».

    «Una pausa?».

    «Sì, ti vedo nervosa… il lavoro ti stanca parecchio ultimamente, si vede. Succede a tutti, è normale, non te la prendere».

    Gertrude credette che David stesse cercando di dirle, in maniera gentile, che non era più in grado di compiere il suo lavoro. Nonostante il suo volto fosse contrariato, il marito continuò: «Perché non trascorri più tempo con le bambine? Sarebbe un’idea…».

    Anche questa frase, molto più della prima, la spiazzò. Non credeva che David sarebbe mai arrivato al punto di dirle chepensava non dedicasse abbastanza tempo alle sue figlie e che i suoi rendimenti al lavoro fossero scarsi.

    «Ci penserò».

    «Bene» le disse, dandole un bacio sulla fronte e uscendo di casa con la sua solita borsa di pelle e il cappello di cashmere beige, quello che voleva lanciare nel mondo della moda maschile dando in prima persona l’esempio che tutti avrebbero dovuto di imitare.

    Gertrude, nei momenti in cui il dialogo con suo marito si trasformava in un campo minato di dolorosi consigli, risultava fra tutti i Russek una chiara eccezione alla regola. Una di quelle eccezioni rare, inspiegabili, che sembrano apparentemente stridenti ma che in realtà rientrano nella stessa predisposizione genetica di una famiglia nata per fare grandi cose. Un’eccezione alla regola che col tempo si era trasformata in un piccolo mostro, che si nascondeva dentro quegli occhi verdi come smeraldi, due luci scintillanti in una notte buia. Ora, a trent’anni compiuti, la signora Nemerov era tutto questo e molto altro ancora: i capelli mossi e gli occhi scuri parevano non andare d’accordo con l’ordine cui erano costretti, e i colori che attraversavano quel viso si permettevano ampi slanci cromatici; il suo volto dolce e dai lineamenti delicati soffriva le rigide espressioni che amava portare.

    «Diane, ti andrebbe di uscire con me?».

    Diane la osservò con reverenza e paura mentre la donna irrompeva nella sua stanza. Sorrise. «Sì, mamma».

    Chi non la conosceva avrebbe pensato che i soldi, il successo, la bellezza e la certezza di una vita stabile l’avessero indotta a dimenticare quale fosse l’altro lato delle cose; altri avrebbero invece pensato che fosse semplicemente una donna limitata e poco intelligente. Ma non era così. Era solo una donna che amava porsi dei limiti e poi soffriva per l’incapacità di superarli, perché non aveva avuto sufficiente coraggio per farlo nel momento giusto della sua vita. E ora le conseguenze parevano piuttosto amare. Ma nella sua cerchia di amici, collaboratori e parenti stretti, tutti ne ammiravano la bellezza e lo spirito. Del resto, negli anni era stata capace di assicurarsi, con fatica, sudore e determinazione, quello che ogni donna come lei avrebbe fatto di tutto per ottenere: un marito, una famiglia e un lavoro.

    «Vieni qui… ti pettino i capelli. Sai, anche nonna Rose lo faceva a me la sera, prima che mi addormentassi».

    «Davvero? E ti dava anche il bacio della buonanotte?».

    Gertrude si interruppe. «No, preferiva

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