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Cucina mediterranea. la storia nel piatto
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Ebook474 pages8 hours

Cucina mediterranea. la storia nel piatto

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About this ebook

Più di 300 ricette di pura cucina mediterranea e tante notizie sulle origini più antiche del sistema gastronomico e culturale delle aree intorno al Mar Mediterraneo, ma anche detti ed usanze popolari uniti ad episodi personali dell’autrice.
Questo non è soltanto un libro di cucina ma un libro da leggere anche se non avete intenzione di mettervi ai fornelli. Un modo per entrare nello spirito del Mediterraneo e della sua millenaria cucina apprezzandone poco per volta gli aspetti conviviali e culturali, essere in grado di riconoscerne i benefici e la semplicità.
LanguageItaliano
Release dateMar 11, 2013
ISBN9788867556762
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    Cucina mediterranea. la storia nel piatto - Renata Baruffi

    Cucina Mediterranea

    LA STORIA NEL PIATTO

    Renata Baruffi

    Titolo originale: Cucina Mediterranea - La Storia Nel Piatto

    (Terminato il 1 Gennaio 2013)

    ISBN: 9788867556762

    Editore: Narcissus Self Publishing

    Protezione: DRM Free (Watermark)

    Data di pubblicazione: lunedì 18 marzo 2013

    Autore: Renata Baruffi

    tutti i diritti sono riservati. 

    2013 - Renata Baruffi

    Mail: renatabaruffi@gmail.com 

    Sito: http://storiedicibodivino.blogspot.it/

    Ad Annalaura

    CONTENUTI

    CONTENUTI

    Informazioni e Copywright

    Premessa

    Alla TAVOLA DEGLI ANTICHI

    Le Radici Antiche della Cucina del Mediterraneo

    Il GARUM

    La Conservazione dei Cibi

    Le Stoviglie ed i Tegami

    Le Bevande: la Birra ed il Vino

    La BIRRA

    Il VINO

    Le RICETTE

    I Principi della Cucina Mediterranea

    Antipasti, Spuntini e Spezzafame

    Minestre e Zuppe

    Riso e Couscous

    Paste e Gnocchi

    Verdure: Ortaggi, Erbaggi e Fiori

    Pesci di mare, di fiume e di lago

    Le Carni e i Ripieni

    Animali da Penna e Caccia

    Interiora

    Salse

    Pane, Focacce e Polente

    Formaggio e Uova

    Frutti e Fiori

    Dolci

    Il Nettare degli Dei: il VINO

    Glossario

    INDICE delle RICETTE

    INDICE ALFABETICO

    Immagini del Libro

    Premessa

    La genesi di questo libro non è stata semplice né veloce se si considera che per raggiungere il risultato odierno ho scritto come minimo 10 volte tanto e creato materiale per altri libri ancora.

    Allo sviluppo di questa mia passione per la tavola, la cucina e le usanze anche ancestrali di preparazione molto ha contribuito la mia famiglia e molto alcune donne a cominciare dalla nonna Agar, la vera cuoca di famiglia, cuoca per talento naturale ma anche per mestiere dato che nella osteria che apparteneva a lei ed al nonno ha cucinato  per gli avventori quasi ogni mezzodì ed a volte anche ogni sera della sua lunga vita. Preparava per lo più piatti popolari lombardi, naturalmente, ma sempre raffinati e squisiti.

    Molto devo anche a mia madre che quando andò sposa non sapeva nemmeno friggere un uovo ma che negli anni diventò invece una cuoca appassionata ed eccellente. Ricordo ancora le sue meravigliose marmellate di pesche e di albicocche ed i deliziosi risotti. Certamente ora le sono grata anche per avermi così spesso messa al lavoro sui fornelli ad una età in cui le mie amiche passavano il tempo libero dalla scuola giocando ed anche per alcune ricette che nei primi tempi del suo matrimonio aveva annotato su un quadernino giallo insieme a metodi per fare il bucato o per togliere le macchie di gelato.

    La mia prima collezione di ricette, scritte a mano ed in parte anche disegnate l'ho cominciata a 15 anni e comprendeva soprattutto le preparazioni interessanti di una cuoca di casa, ricette diverse da quelle che già conoscevo e che avevano suscitato il mio interesse anche perché erano legate a tradizioni che allora mi erano estranee. Quell'album oggi non lo trovo più, ma qualche tempo dopo avviai un'altra raccolta che invece conservo ancora e nella quale insieme a spunti, preparazioni e ricette molto più internazionali cominciai ad inserire anche annotazioni storiche, nutrizionali ed a volte addirittura curative: era già l'avvio di un progetto che allora non mi era del tutto chiaro ma che non si è più interrotto.

    Il desiderio andava ben oltre il condividere  la mia parmiggiana di melanzane e mi spingeva a trasmettere le tracce di usi ed abitudini antiche e popolari che oggi sono per lo più scomparse e dimenticate o in via di estinzione ma che hanno permesso all'uomo di vivere bene fino ai giorni nostri.

    Le ricette di questo libro, piccola e limitata scelta tra le tantissime possibili, sono solo una parte del contenuto di queste pagine e non me ne si voglia se come in un tegame sul fuoco mi permetto di mischiare ingredienti semplici ad altri più  nobili che alcuni potrebbero voler relegare solo ai ripiani di una libreria.

    Il territorio da esplorare è molto vasto e continuamente spuntano nuove informazioni e scoperte a volte strabilianti.

    ALLA TAVOLA DEGLI ANTICHI

    Sostenetemi con focacce d'uva passa,

    rinfrancatemi con pomi,

    perché io sono malata d'amore.

    Cantico dei Cantici - Capitolo 2

    Le Radici Antiche della Cucina del Mediterraneo

    Come si mangiava nell'antichità?

    I racconti dell'Odissea, dove la carne era imbandita a profusione sulla tavola dei Proci ed agnelli teneri erano macellati ogni giorno allo scopo, più che un uso comune stanno a significare il grande spreco e il disprezzo che i contendenti alla mano di Penelope mostravano verso la casa del re insieme alla loro pretesa di esserne già i padroni.  Altra cosa sono i pasti dei guerrieri dell'Iliade che impegnati in battaglie estenuanti e pericolose preparavano da sé il pasto a fine battaglia.

    Ai tempi della Odissea, per il popolo la base della  alimentazione era piuttosto costituita da carboidrati, verdure, pesce, vino e forse anche olio d'oliva ma probabilmente poca carne. Cioè nessuna vera differenza con il primo novecento.

    Platone (IV sec. a C) dice che la gente comune si cibava soprattutto di formaggio, latte, cipolle, verdure, fichi, ceci e fave abbrustolite.

    Spesso il pasto era costituito da insalate, agli o cipolle e vino accompagnati dalla Màza (μάζα), focaccia d'orzo simile alla attuale Pìta (πίτα) o forse più alle Azzime ebraiche che ne condividono il nome o al Pane Carasau sardo.

    Il primo cereale ad imporsi veramente al consumo  sulle coste mediterranee fu l'orzo, pianta piuttosto rustica che si adatta facilmente a condizioni climatiche diverse e si presta ad essere coltivato in terreni non preparati. Molto anticamente l'orzo e gli altri cereali non venivano nemmeno cotti ma solo macerati nell'acqua finché non germogliavano e non si ammorbidivano formando una specie di pasta commestibile, prima molto prima che si diffondesse la tecnologia del fuoco e dei recipienti a prova di fuoco e si cominciasse a farne minestre ed un pane non lievitato da cuocere su piastre di terracotta arroventata come ai testi della Val di Magra  o in piccoli forni d'argilla come quelli che ancor oggi usano i nomadi berberi del deserto (forni Tabouna) e gli abitanti del Trans Caucaso meridionale in Georgia, Armenia ed Azerbaijan (forni Tonir) certamente imparentati con il forno Tandour indiano. Più tardi si diffusero anche il farro, il frumento ed il grano saraceno.

    La lievitazione naturale cominciò ad essere praticata, si pensa, in Egitto circa 3500 anni prima di Cristo e fu in seguito notevolmente migliorata dai Greci che divennero esperti e famosi nell'arte del fare il pane e producevano una grande quantità di pani diversi per forma, ingredienti e guarnizioni: panini dalle più svariate forme, sfilatini, grossi pani a forma di cestino, pani in cassetta a forma di cubo e focacce e focaccine anche ripiene, pizze, pite semplici o unte e calde.

    Quando si mangiava carne era frequentemente di capra o di pecora, animali frugali anch'essi che riuscivano a vivere nei territori poveri della Grecia meridionale o delle aride coste medio orientali. Il consumo di carne bovina si diffuse probabilmente in Anatolia, in Boetia ed a Creta ed anche nella penisola italica, la terra dei vitelli (come riportato da Dionisio d'Alicarnasso, Varrone, Gellio, Festo, Apollodoro ma anche da Giovanni Tzetzes, filologo bizantino medioevale), dove questi animali erano presenti per una spontanea migrazione preistorica dagli altopiani e dalle pianure dell'Asia centrale oltre che per l'importazione ed l'allevamento sia ad opera dei Minoici che degli Etruschi, tutti popoli originari dei territori lidici.

    Salvo nell'epoca più antica o per i guerrieri in battaglia, dopo che  si cominciò a scaldare l'acqua, la carne veniva frequentemente sottoposta a lunghe bolliture e talvolta, come si trova indicato nei libri di Apicio, subiva addirittura una doppia cottura. In Italia ne troviamo traccia in alcune ricette tradizionali della Basilicata, degli Abruzzi e della Sardegna, dove la pastorizia è ancora praticata. La carne, soprattutto quando si trattava di carne bovina, spesso proveniva da animali sfruttati per il lavoro e per il latte e quindi doveva essere piuttosto dura e quando si trattava di carne di pecora o capra forse aveva anche un deciso gusto selvatico.

    Inoltre dobbiamo tener conto che i metodi nella preparazione del cibo sono sempre stati strettamente legati agli utensili a disposizione ed alla disponibilità più o meno ampia di combustibile.

    Già nel primo millennio prima di Cristo i boschi che ricoprivano originariamente le coste del mar Egeo erano diminuiti in modo impressionante a causa dell'intenso sfruttamento del legname per ogni attività umana, dalle costruzione di case, alle navi, alla fusione dei metalli. La cosa era sotto gli occhi di tutti e oltre ad essere una delle cause che spinsero le genti a migrare in altre terre, portò allo sviluppo di abitudini poi entrate nella tradizione più mediterranea come i forni comuni o la cottura in utensili particolari come i forni a campana (peca) della tradizione istriana ed i forni portatili di terracotta cui ho già accennato. Questi ultimi sono ancora in uso in Tunisia, in tutta l'area di influenza berbera, in Georgia ed Armenia ed anche in India. Sono costituiti da un orcio o un vaso cilindrico, mai più alto di 80 cm. e largo circa 50, la cui imboccatura superiore è ristretta soprattutto per trattenere il calore. Vengono scaldati bruciando all'interno legna, sterpi, pezzi di fascine o altro combustibile come lo sterco secco degli animali. Una antica statuetta punica conservata nel museo di Cartagine mostra una donna intenta a cuocere alimenti in un forno Tabouna.

    La necessità di risparmiare il combustibile stimolò anche il nascere della tecnica della frittura che è più veloce e meno dispendiosa. Nella cucina cinese fu proprio la mancanza di materiale da bruciare che spinse ad utilizzare in modo predominante tecniche di frittura.  

    Era naturalmente ampiamente praticata fin dalle epoche più antiche la caccia soprattutto in Grecia. Ad essa ed alla natura selvaggia era preposta una divinità  fra le più antiche e venerate  dell'Olimpo, Artemide, la etrusca Artume, una dea il cui culto aveva probabilmente una origine precedente forse collegata alle popolazioni pelasgiche o ad etnie del sud est del Mediterraneo.

    La tradizione della carne alla brace, tipica dell'epoca più antica è comunque sempre stata praticata. 

    Una attività da uomini, oggi come allora, forse a ricordo degli antichi eroi guerrieri.

    Su l'ignee vampe

    concavo bronzo di gran seno ei pose,

    e dentro vi tuffò di pecorella

     e di scelta capretta i lombi opimi

     con esso il pingue saporoso tergo

     di saginato porco. Intenerite

    così le carni, Automedonte in alto

     le sollevava; e con forbito acciaro

     acconciamente le incidea lo stesso

     divino Achille, e le infiggea ne' spiedi.

    Destava intanto un grande foco il figlio

    di Menèzio, e conversi in viva bragia

     i crepitanti rami, e già del tutto

     queta la fiamma, delle brage ei fece

    ardente un letto, e gli schidion vi stese;

     del sacro sal gli asperse, e tolte alfine

     dagli alari le carni abbrustolate

    sul desco le posò; prese di pani

     un nitido canestro, e su la mensa

     distribuilli...

    libro IX ILIADE di OMERO 

    (Traduzione di Vincenzo Monti)

    Più tardi durante l'impero romano, negli sfarzosi ed interminabili banchetti patrizi furono preparate per gli ospiti ricette stravaganti con ogni tipo di carne e si diffuse anche a Roma l'abitudine di rimpinzare le scrofe e le oche con fichi secchi per ingrossarne il fegato che proprio dai fichi ha preso il nome: fygatum. Qualche cosa di simile al gavage ed ai metodi di ingrasso per ottenere il foie gras, un uso che i Romani avevano probabilmente appreso dagli Egizi e che troviamo dipinto nelle decorazioni tombali di quel territorio.

    Spinti dallo sviluppo demografico i Greci, alla ricerca di legname e di materie prime di uso comune,  esplorarono sempre più territori e ne presero possesso fondandovi nuove città. Dopo una prima migrazione verso le coste orientali dell'Egeo e del mar Nero, nel VII sec. aC essi raggiunsero le coste della Dalmazia, dell'Italia e poi della Sicilia in cerca di una natura più generosa di quella di casa.  Alcune delle nuove colonie si guadagnarono notorietà per l'opulenza e la raffinatezza della tavola come avvenne per Sibari, antica città sul golfo di Taranto alle pendici orientali del massiccio della Sila, dove si svolgevano addirittura vere e proprie competizioni culinarie. Cominciò allora a delinearsi una tradizione gastronomica testimoniata anche dagli antichi autori, poeti, storici o semplici cronisti che del cibo e della tavola hanno scritto nei loro versi.  La tradizione si consolidò, i cuochi greci divennero famosi e qualche secolo  più tardi anche molto ricercati dai patrizi romani. 

    Proprio in quel periodo potrebbe essersi sviluppata, come un cibo spontaneo al pari del pane, la preparazione di pasta e gnocchi da cuocere in acqua o in qualche liquido, suppongo là dove l'acqua era abbondante.

    Nella Tomba François a Vulci e nella Tomba dei Rilievi a Cerveteri, che risalgono al IV sec. aC, si trovano rilievi in stucco che rappresentano i classici utensili per fare la pasta: la spianatoia, il matterello e la rotella dentata ed è sempre etrusca la scodella ritrovata e conservata a Tarquinia dove è raffigurata l'immagine di un servo che offre al padrone grossi spaghetti straordinariamente simili ad alcune paste tradizionali che da Sud a Nord troviamo, con nomi diversi, lungo tutto l'arco appenninico della penisola italica:  pici, strangulaprièvite, strozzapreti... E' la prima pasta asciutta conosciuta della gastronomia italiana.

    Una ipotesi vuole che questi preparati siano il frutto di successive elaborazioni popolari dei gnocchetti cilindrici di semola d'orzo, probabilmente simili ai malloreddus sardi o ai cavatelli pugliesi che col nome dei macaria (da μακάριος, beato, si consumavano in Grecia durante i riti per i defunti. La stessa parola pasta deriva proprio dal greco ta pastà (impasto di orzo, dal verbo πασσέιν ).

    Dalle parole macaria (beatitudine) ed eònia (eterna) deriverebbe anche il termine macarònia assai vicino alla parola macaròn usata per indicare medievali gnocchi di pane o di zucca conditi con il formaggio, caratteristici del Veneto e di Marostica, ed al termine greco μακάρονα (si legge makàrona, macaron in Francese e macaroun in Inglese) che distingue squisiti dolci a base di mandorle che per tradizione in Grecia si preparano tuttora in occasioni speciali come il Natale e che forse anticamente, sotto forma di pani intrisi di miele, erano distribuiti nelle commemorazioni sempre legate ai defunti.

    A prima vista non faremmo nemmeno fatica a collegare la parola macarònia alla parola italiana maccheroni, un tempo termine generico per indicare la pasta soprattutto secca, se non fosse per quella doppia 'c' e la 'e'  che rendono più probabile il collegamento con la parola greca μαχαίρω (si pronuncia machéro) che significa tagliare o con il termine già italiano ma molto più recente di maccare, cioè impastare.

    La strada tra lo sviluppo di paste da cuocere in acqua o di fogli di farina sempre più sottili da seccare rapidamente su piastre ardenti o sotto la brace in forni di campagna è stata probabilmente dettata dalla maggiore o minore disponibilità d'acqua. Sta di fatto che lungo le coste meridionali del Mediterraneo, in tutta la Grecia antica e le coste più orientali della Cappadocia dove l'acqua non è sempre a portata di mano, abbiamo un fiorire di elaborazioni in cui sottilissime foglie di pasta Phyllo (Φύλλο in Grecia, Yufka on Turchia) tagliate, imbottite di formaggio e verdure e poi ripiegate, sono cotte sul fuoco o fritte, mentre nelle regioni della penisola italiana, oltre alla cottura a secco, per le stesse sottilissime sfoglie modellate o imbottite come ravioli e paste ripiene si diffonde il fortunato uso della cottura in acqua o in brodo.

    Queste sfoglie sottilissime sono state adottate con successo anche dalle popolazioni nomadi. Nel mondo nord africano alla pasta sottile Phyllo si aggiungono i Brik che sono però preparati in modo differente ed hanno la caratteristica di essere quasi trasparenti. Il fatto che molti paesi si contendano l'origine di queste preparazioni, lontano dal creare confusione, chiarisce sia la naturale ed antica spontaneità della preparazione tra popoli con scarse risorse e simili materie prime sia anche l'esistenza di numerosi contatti tra le diverse genti.

    Le tavole antiche erano anche ricche di vegetali che, nominati raramente, dovevano invece essere il pezzo forte nella alimentazione popolare. Nel I millennio aC erano già coltivate in orti come quello recintato da una linda siepe che Laerte, padre di Ulisse, curava con le proprie mani.  Da Aristofane (IV sec. aC) capiamo quanto dovevano essere popolari le zuppe d'orzo, di fave o quella di lenticchie, la più ghiotta delle pietanze. Già Esaù sul versante meridionale di quello stesso mare, per una zuppa di lenticchie 1500 anni prima si era giocato addirittura il suo il diritto di primogenitura.  

    Certo, la fame è bruta ma certamente la zuppa di lenticchie doveva essere davvero buona! Alcuni autori antichi hanno tramandato i loro consigli su quando mangiarne e quali potevano essere gli effetti non graditi.

    La pesca era praticata ovunque e pesci di ogni tipo, sia di mare che di acqua dolce venivano messi in tavola. Soprattutto pesce azzurro, come lo chiamano in Italia, ma anche anguille, crostacei, molluschi e frutti di mare tra cui varietà oggi sconosciute o estinte. Ritroviamo bellissime immagini del mondo marino nelle decorazioni dei vasi e dei palazzi della civiltà minoica anche se questi dipinti forse fanno riferimento soprattutto aspetti simbolici legati ad un mondo extra terreno.

    Il pescato era anche oggetto di esportazione lungo le coste.  Le anguille e i capitoni si mangiavano cotti nella bietola bianca, mentre la nannata (cioè i pesciolini neonati a volte chiamati bianchetti o rosa marina), detta afia in latino, veniva fritta in polpettine di farina, fiori di verdure aromatiche ed anemoni di mare tritati insieme proprio come durante l'ultima guerra facevano ancora le donne di Favignana. Molte di queste notizie oltre alle indicazioni sui periodi dell'anno e sui luoghi più rinomati per la pesca di questo o quel pesce e le ricette diffuse nelle diverse località, le dobbiamo non solo ad Archestrato di Gela (IV sec. aC) e ad Ateneo di Naucrati, che nel II sec. dC ne ha trasmesso fino a noi parte dei versi, ma anche ad altri autori precedenti.

    Si pescava soprattutto vicinanza delle coste, nei delta dei fiumi e nelle paludi o nelle lagune litoranee ed anche, molto frequentemente, nei laghi interni. Le qualità di pesce di mare furono comunque sempre le più ricercate e le più costose sui mercati. Sia presso gli Etruschi che presso i Romani il pesce di mare di grossa taglia, grandi tonni o pesce spada, cernie ed altro, erano merce rara e pregiatissima e perciò un privilegio delle classi più agiate ed un simbolo di distinzione sociale. Durante l'Impero Romano i controllori delle attività di pesca percorrevano le coste svolgendo opera di persuasione verso i pescatori che avessero salpato grosse prede per spingerli a farne dono 'spontaneo' all'imperatore.  

    Sulle mense comuni era invece diffuso il pesce piccolo, spesso seccato e salato. Nelle zone lagunari e paludose, dove il pesce locale era l'elemento principale sulla tavola, le attività di pesca per semplice economia furono affiancate dalla salatura del pescato non consumato e col tempo diedero origine ad un commercio di prodotti ittici, in questa forma resi disponibili anche agli abitanti dell'entroterra. Dai prodotti e dalle elaborazioni del pesce sotto sale e dai residui di lavorazione, nelle comunità greche nacque uno dei più celebri preparati dei tempi antichi, il Garon destinato a diventare diffusissimo in epoca romana.

    Roma regolamentò sia la pesca che l'allevamento del pesce con leggi che furono applicate fino alla caduta dell'impero romano ed anche oltre, raccolte sia dall'impero Bizantino ad est che dalla Chiesa che per quasi 1000 anni e forse più sostituì di fatto l'Impero Romano ad occidente. Queste normative, regolarmente collegate a gabelle e tassazioni, benché limitassero i tipi di pesca possibile ed entrassero in complesse distinzioni sulla provenienza del pesce, furono un sostegno ed uno stimolo per lo sviluppo delle attività ittiche sulle quali, in questo modo, anche lo stato guadagnava. Quando l'Impero Romano d'Oriente capitolò, nei territori caduti in mano ottomana  la pesca divenne libera e quindi non essendo  più 'sostenuta' dallo Stato  subì un tracollo.

    In tutti i territori mediterranei soprattutto occidentali molte usanze alimentari furono fortemente influenzate dalla volontà di rendere visibile anche nelle normali attività quotidiane e non solo in quelle legate al culto la differenza tra le comunità di diversa religione e la Chiesa, forse per contrapporsi alle usanze del Ramadan islamico, creò per i cristiani un insieme di norme alimentari che non avevano nulla da invidiare alle regole islamiche ed ebraiche benché nei Vangeli non esista alcuna indicazione in proposito. Queste norme prevedevano un  numero di giornate di magro e digiuno pari a più di un terzo dell'anno e generarono lavoro per le popolazioni costiere e guadagni ingenti per lo Stato Pontificio che riscuoteva le tasse sul pescato dei territori su cui aveva la potestà.

    Il pasto antico si chiudeva con fichi, datteri, mandorle e nocciole, mirto o ghiande arrostite proprio come fino a pochi anni fa nel meridione d'Italia era usanza terminare la cena  sgranocchiando mandorle e noccioline americane.

    La coltivazione della frutta, soprattutto fichi, pere, melograni, cotogne, mele, mandorle e noci  fu praticata anche anticamente ed è riportata nell'Odissea dove si dice che il giardino di Alcinoo, re dei Feaci alla cui isola approdò Ulisse, era  così ben irrigato e talmente fertile che sullo stesso albero si avevano contemporaneamente frutta e fiori.  

    Tuttavia il consumo di frutta fresca ebbe anche numerosi detrattori e nel Medioevo si arrivò a consigliare di mangiare la frutta soltanto cotta o secca, in parte senza dubbio per ragioni igieniche.

    La pera, ad esempio è stata spesso penalizzata.

    Après la poire, prètre ou boire, dicevano i Francesi: dopo la pera, chiama un prete o bevi vino... 

    Così anche i meloni e le angurie. Si imputavano alla frutta fresca effetti sgradevoli e per evitarli un saggio arabo di epoca pre-medievale consigliava di mangiarla sempre con un formaggio cremoso o con carne salata: ecco subito spiegato come sono nati prosciutto e melone, fichi col salame o anguria con la feta ed anche formaggio con le pere. In un trattato, per rendere le pere più digeribili si consigliava di cucinarle con cannella, chiodi di garofano e vino rosso e di servirle con burro, formaggio fresco e un po' di zucchero.

    Dalle mandorle, nocciole e noci  si ricavava anche una farina, si estraeva un olio e si preparavano numerosi dolci. Nel Museo Archeologico di Reggio Calabria sono conservati antichi stampi che furono usati per la pasta di mandorle.  Si preparavano frittelle condite con miele o mosto cotto, dolcetti assai simili ai nostri mostaccioli ed in Sicilia anche una ricotta dolcificata con il miele, antenata della Cassata Siciliana.

    Non sappiamo però se i dolci venissero serviti alla fine del pranzo come facciamo noi oggi oppure in un altro momento. Infatti, l'attuale composizione del pasto nelle tre classiche portate: zuppa, secondo piatto e dessert è stata ufficialmente consigliata solo in epoca molto più tarda ad opera dello studioso arabo Ziryab che tra il 700 e l'800 dC fu autore di molte innovazioni arrivate sino a noi, sia agronomiche che mediche.

    Fin dai tempi più antichi era diffusa l'usanza del cibo di strada, diventata sempre più importante poi nella società romana. Usanza soprattutto cittadina. Nella agorà delle colonie greche in Sicilia secondo Gaetano Basile, giornalista e storico della cucina siciliana, è certa l'esistenza di una zona coperta dedicata ai commercianti di cibi pronti. Questa usanza parallela e sostitutiva alla preparazione casalinga dei cibi, motivata anche o forse soprattutto da ragioni economiche ebbe molto successo nelle città romane e specialmente a Roma dove per ragioni di sicurezza legate al pericolo di incendi nelle abitazioni situate all'interno delle insulae, i grandi condomini urbani a più piani, talvolta era proibito cucinare o accendere fuochi.

    Anche oggi percorrendo tutti i territori mediterranei, nonostante alcune normative alimentari restrittive non motivate da vere e proprie ragioni igieniche, ritroviamo in pieno sviluppo una grande offerta di specialità pronte al consumo che possiamo portarci a casa o mangiucchiare mentre passeggiamo, proposte da negozi veri e propri, friggitorie o da bancarelle ambulanti. Ma non sarebbe male se anche oggi ci ricordassimo che questo è a tutti gli effetti cibo come qualsiasi altro e non un passatempo da sgranocchiare tra un pasto e l'altro.

    Lo sviluppo delle attività di ristorazione e vendita di cibo pronto nelle città dell'impero romano oltre che effetto della difficoltà di cucinare nelle insulae è una conseguenza diretta di un sistema di vita legato alle distribuzioni annonarie, cioè le periodiche distribuzioni gratuite di frumento e di generi alimentari.

    Concepite inizialmente soltanto come interventi in caso di carestie, divennero dapprima, nel 123 aC con la Lex frumentaria di Caio Gracco, distribuzioni a prezzi calmierati e poi, dal 58 aC con la Lex Clodia, distribuzioni del tutto gratuite a tutti i cittadini che risiedevano in città ad esclusione degli appartenenti all'ordine senatorio ed equestre e furono mantenute regolarmente fino al 550 dC. All'epoca di Augusto nella sola area di Roma ne usufruivano per diritto civico e non come sussidio di povertà ben 750.000 capifamiglia, spesso cittadini agiati, ed in alcune città delle colonie come Alessandria d'Egitto addirittura una élite.  Dalle granaglie si passò al pane, preparato direttamente dai mugnai, e più tardi anche al companaticum che nel 500 dC comprendeva anche olio e carne di maiale. Per ogni avente diritto, è stato calcolato che il pane consegnato poteva bastare a coprire l'esigenza alimentare di due persone e che, se si considera anche l'aggiunta dei companatici, per ogni capofamiglia era garantita l'alimentazione di una famiglia di circa 4 persone.  Queste distribuzioni che continuarono per più di 600 anni fino alla caduta dell'Impero furono mantenute anche da Costantino ed allo spostamento di capitale furono estese anche a Costantinopoli.

    L'approvvigionamento di frumento, trasportato a Roma sulle navi frumentarie,  fu uno dei problemi principali e costanti per l'amministrazione romana e fu spesso la reale causa di numerose campagne di conquista ed anche di sommosse popolari.

    Il GARUM

    Una salsa divenne famosa e sempre più richiesta nella Roma imperiale, un condimento nato forse negli insediamenti greci sulle rive del Ponto, il Garum (Γάρον in greco) conosciuto più anticamente dai Romani anche come Muria, termine usato forse genericamente per le fermentazioni sotto l'azione del sale marino.

    Per molto tempo si è parlato male di questo condimento, ottenuto dalla fermentazione sotto sale di pesce di piccola taglia, uova di pesce ed anche parti meno pregiate o di scarto e sangue di pesci di grossa taglia come il tonno, che invece oltre ad essere un prodotto raffinato e particolare assolveva a vari usi oltre a quello alimentare, non ultimo quello farmacologico sia per gli uomini che per gli animali avendo proprietà antinfiammatorie e disinfettanti simili alla tintura di iodio ed anche digestivo. Il Garum veniva usato contro la scabbia degli ovini, le ustioni recenti, i morsi di cane e coccodrillo, per guarire le ulcere, la dissenteria, come disinfettante intestinale o per malanni delle orecchie, avendo qualità antibiotiche. Columella nel suo De re rustica lo annovera  tra i  rimedi contro la pestifera labes che prende le cavalle e che in pochi giorni le conduce alla morte. La terapia consisteva nel versare quattro sestari  di Garum (corrispondenti a circa 2 o 3 litri) nel naso dell'animale. 

    Oggi sappiamo che la fermentazione può indebolire alcuni elementi nocivi dei cibi e trasformarne le qualità.

    Questa preparazione è l'antenato di quasi tutte le salse mediterranee e perciò vale la pena saperne di più. Siamo fortunati, perché tanti importanti autori latini ne hanno parlato, spesso riportandone le ricette.

    Era ottenuto dalla fermentazione del pesce, in origine alici ed un tipo di pesce di piccola taglia che i Greci chiamavano garos (γάρος) ma alcuni Garum particolarmente pregiati erano prodotti da uova di pesce, mitili ed anche pesci più grossi come sgombri e tonno mentre, sfruttando gli scarti di lavorazione gli stabilimenti di salatura del pesce ne vendevano anche versioni più andanti per tutte le tasche. Era messo in commercio pronto all'uso come il ketchup di oggi e le migliori qualità non erano certamente a buon mercato.

    Piacque molto ai Romani che probabilmente lo conobbero grazie ai cuochi greci e se ne produsse su grande scala soprattutto sulle coste tirreniche della penisola italica e su quelle della Spagna ma anche in molte isole, sulle coste africane o sul mar Nero ed in Provenza alimentando  un commercio lucroso ed una vasta gamma di prodotti diversi a seconda dei pesci utilizzati, dei tempi di fermentazione e delle essenze aggiunte.

    Si usava il Garum da solo ma anche combinato con vino ed aceto o allungato con acqua ed è noto che se ne aggiungeva all'olio per aromatizzarlo. Tutti lo usavano, dai patrizi agli schiavi, ognuno secondo le possibilità economiche proprie o del padrone. In un frammento delle Geoponiche, opera del 900 dC che parla del mondo agricolo e di cui tra l'altro sono ignoti gli autori si dice:

    [..]gettare in un recipiente interiora di pesce e piccoli pesci con sale e lasciare al sole mescolando frequentemente. Filtrare grossolanamente la salamoia in una cesta, dove rimane l'allec, la parte solida. Alcuni aggiungono anche due misure di vino vecchio per ogni misura di pesce. Se si ha bisogno di usare subito il garum senza tenerlo tanto al sole, si cuoce rapidamente mettendo il pesce in acqua di mare concentrata in modo che un uovo vi galleggi, fino a quando non sia ridotto abbastanza di volume, quindi si cola. Ma il fiore del garum si ottiene con le interiora, il sangue ed il siero dei tonni sopra cui si sparge sale e si fa macerare per due mesi.

     Una salsa del tutto simile al Garum si trova oggi nei negozi che vendono prodotti provenienti dalla Thailandia e dal Vietnam dove si producono anche altre salse simili non esportate in occidente per il loro gusto estremo. E' la salsa Nuoc Mam ( spesso chiamata in occidente Fish Sauce) molto diffusa in tutta l'Indocina la cui lavorazione, che coincide con quella della antica salsa romana, ha fatto nascere ipotesi su possibili viaggiatori romani ed addirittura su un'antica legione dispersa nei territori orientali. Nelle Filippine la preparazione è ancora più vicina a quella del Garum originale.

    Le fabbriche di Garum si trovavano sempre vicino agli allevamenti di pesce, alle tonnare o ai luoghi rinomati per la pesca ed alle saline: sul delta dell'Ebro in Spagna, a Pompei e lungo le coste della Campania, all'isola d'Elba, in Provenza, a Clazomene ed a Leptis Magna e sulla costa di Cartagine oltre che in Dalmazia ed in altre località del Mediterraneo. In molti di questi luoghi sono ancora visibili le rovine degli impianti di produzione di 2000 anni fa.

    Il Garum vero e proprio era liquido, un liquido che cola. Da quì la confusione con il termine liquamen che in epoca classica con probabilità indicava semplicemente una emulsione di acqua e sale usata in cucina dove noi oggi usiamo sale fino. La produzione fu ripresa nel Medio Evo dai monasteri delle coste campane in Italia che, possedendo flotte da pesca importanti, mantennero ed affinarono la preparazione del Garum per sfruttare completamente il pescato. 

    Dalla sua lavorazione si otteneva anche un residuo più denso, simile forse alla pasta di acciughe, l'Hallec,  in Grecia chiamato ἄλιξ (alix) perché  in origine si otteneva soprattutto dalle alici. Catone lo dava agli schiavi come companatico economico insieme alle olive ammaccate che cadevano per ultime dagli alberi, Orazio invece lo amava per accompagnare verdure fresche, rapanelli, lattughe e radici varie: ad Orazio, evidentemente piaceva il pinzimonio, per usare un termine attuale, insaporito con pasta di acciughe come si fa oggi a Roma per l'insalata di puntarelle. In una delle ricette dei libri di Apicio si mischia  il Garum con la senape per dare un tocco raffinato alle sarde arrostite, Varrone ne riporta una preparazione abbastanza semplice mentre Gargilio Marziale che ha scritto nel 250 dC ne fa la base di una salsa per la carne lessa. Dobbiamo a Marziale, nel De Medicina et de virtute herbarum, questa descrizione:

    [...] si usino pesci grassi come sardine e sgombri cui vanno aggiunti, in porzione di ¹⁄з, interiora di pesci vari. Bisogna avere a disposizione una vasca ben impeciata, della capacità di una trentina di litri. Sul fondo della stessa vasca fare un alto strato di erbe aromatiche disseccate e dal sapore forte come aneto, coriandolo, finocchio, sedano ( qui si parla probabilmente di Levisticum Officinale o Sedano forte di montagna), menta, pepe, zafferano, origano. Su questo fondo disporre le interiora e i pesci piccoli interi, mentre quelli più grossi vanno tagliati a pezzetti. Sopra si stende uno strato di sale alto due dita. Ripetere gli strati fino all'orlo del recipiente. Lasciare riposare al sole per sette giorni. Per altri venti giorni mescolare di sovente. Alla fine si ottiene un liquido piuttosto denso che è appunto il garum. Esso si conserverà a lungo.

    Plinio il Vecchio nel Naturalis Historia lo mette tra le sostanze saline ed oltre a spiegarne l'origine elenca un certo numero di località famose per la sua produzione, i pesci più comunemente usati o tipici di alcune particolari produzioni e le qualità più rinomate. La sua definizione di liquor exquisitus ottenuto dalla macerazione di interiora di pesce insieme ad una osservazione non  benevola di Seneca in una sua lettera al figlio Lucilio hanno probabilmente alimentato l'idea che fosse pesce marcio ed in putrefazione, cosa che effettivamente poteva verificarsi quando non si usava la giusta dose di sale.

    Catone scrisse molto e male della abitudine di condire un po' tutto con il Garum anche se lui stesso ne faceva uso e ne acquistava una qualità di terza scelta per i suoi schiavi. Era convinto che fosse una delle usanze peccaminose che, importate dai Greci, stavano corrompendo la romana semplicitas. I Romani, anche dopo averne acquisito i territori, non smisero mai di diffidare dei Greci: Timeo Danaos ac dona ferentes

    Plinio racconta che il Garum più buono era, secondo lui, il Garum sociorum, non un marchio di fabbricazione ma semplicemente un termine per indicare che proveniva dalla Spagna dove si trovavano le più importanti produzioni di pesce salato che dominavano il mercato ittico dell'epoca. Era lavorato sulle coste iberiche da una società di origine fenicia, probabilmente tunisina anzi cartaginese, che lo esportava soprattutto in Italia: un prodotto molto costoso e ricercato preparato con gli sgombri che arrivando dall'Atlantico venivano intercettati dai pescatori lungo le coste spagnole e cartaginesi, come indica il nome particolare di Scombraria usato talvolta per questa particolare qualità.

    Oltre al Garum sociorum se ne ricordano altre qualità, tra cui il pregiatissimo Fiore di Garum (Gari Flos), colatura semplice senza altri condimenti, il Garum castimoniale ottenuto da scaglie del pesce. Le migliori qualità erano costosissime, quasi quanto i più preziosi unguenti orientali e per questo si usava mescolarlo ad esempio con acqua (Hidrogarum), con vino (Oenogarum), con aceto Oxigarum ed anche con miele (Mellogarum) e spesso lo si aggiungeva all'olio per insaporirlo e preparare direttamente in tavola una

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